domenica 23 ottobre 2011

Socrate - un compendio con alcuni distinguo




Dignità ed integrità socratica

Meglio sarebbe suonare su di una lira scordata, che stonato fosse un coro da me diretto, che la maggioranza degli uomini non fosse d'accordo con me, e dicesse il contrario di quel che penso io, piuttosto che essere in disaccordo e in contraddizione con me stesso
Gorgia

Ma infine, Socrate, dicci in quale modo dobbiamo seppellirti?”, incalzano i discepoli. “Come volete”, rispose. E, ridendo tranquillamente, proseguì: “O amici, io non riesco a persuadere Critone che io sono questo Socrate, che ora discute e ordina ogni sua argomentazione: egli crede che io sia quello che tra poco vedrà cadavere e perciò mi chiede come deve seppellirmi. Ciò che da un pezzo vado ampiamente dicendo, cioè che, dopo aver bevuto il veleno, non resterò più con voi, ma me ne andrò a raggiungere la felicità dei beati, queste per lui, mi pare, non sono che inutili parole per confortare voi e insieme me stesso. […] Sappi, mio buon Critone, che l’inesattezza di linguaggio non solo è una scorrettezza in se stessa, ma fa anche male alle anime. Bisogna, quindi, aver coraggio e dire che è il mio corpo che seppellisci e seppellirlo come ti piace e soprattutto come consideri più conforme alle usanze”
Fedone (115d-e).

Non pretese mai di essere maestro…ma, solo mostrando il suo esempio, faceva sperare a quanti lo frequentavano che, imitandolo, sarebbero diventati come lui.
Senofonte

Socrate è il filosofo che scopre l’individuo, autocosciente, dissenziente, consapevole che, pensando con la sua testa, si pone come obiettivo primario quello di non diventare uno strumento d’ingiustizia, piuttosto che quello di difendere la tradizione, il tratto distintivo dell’Antigone di Sofocle. Il nucleo centrale del suo sistema teorico è l’idea dell’equivalenza dello status di tutti gli esseri umani. Con Socrate si diffonde il precetto che tutti gli esseri umani hanno un medesimo valore, pari dignità intrinseca, ossia il principio su cui si fondano lo stato di diritto, le carte costituzionali di tutti i paesi democratici, le convenzioni internazionali per la tutela dei diritti umani, insomma tutto ciò che ci separa dalla barbarie. Socrate oltrepassa i confini categoriali che di solito ostacolano il riconoscimento del nostro prossimo come un essere umano pari in dignità rispetto a noi perché si dice certo che la condizione dell’anima ci accomuna e con essa la ricerca della virtù e della felicità: chi sbaglia direzione lo fa perché s’inganna, non perché sia privo della possibilità di vivere rettamente o perché le direzioni giuste siano molteplici – tutte le direzioni portano a destinazione, ma alcune sono tortuose e dolorose, anche se in apparenza sembrano agevoli, altre sono più lineari, anche se in apparenza paiono più gravose. Nel Menone leggiamo che “Tutti gli uomini, allora, sono buoni nello stesso modo, perché diventano buoni per le stesse cose, ma non sarebbero certo buoni nello stesso modo, se non avessero la stessa virtù”
Socrate è convinto che sopravvivere non sia abbastanza, occorre esserne degni e devono essere presenti quelle precondizioni essenziali, senza le quali la vita non è tollerabile e perde il suo valore specifico, riducendosi ad un concetto astratto. Sopravvivere senza una coscienza integra è peggio che morire. La vita del corpo non è il valore precipuo. C’è un confine che molti esseri umani, come Socrate, non osano oltrepassare, ci sono azioni che queste persone non commetterebbero mai, indipendentemente dagli ordini che vengono loro impartiti o da quanto disperata sia la loro situazione. Questo perché sentono, istintivamente, che varcata quella linea, non potrebbero più tornare indietro, non ci sarebbe più un punto ulteriore dove marcare il confine del nec plus ultra (non oltre). Una tale azione, se compiuta, causerebbe un danno irreparabile dentro di loro, distruggerebbe qualcosa che vale più della loro stessa vita. Eseguito un certo comando, diventerebbe impossibile rifiutarsi di eseguirne altri, di ancora più discutibili e riprovevoli. Dunque ogni persona “socratica” ha un preciso dovere, quello di non agire in contrasto con la voce della coscienza, a prescindere dai suoi timori e dalle conseguenze che dovrà subire. L’integrità morale è più preziosa della vita. Ma da dove proviene la voce della coscienza? È pre-razionale, eppure non è emotiva. Nel Simposio Socrate si apparta per ascoltare il suo daimon. Rimane immobile per ore. Lo aveva già fatto nell’accampamento militare a Potidea, dove salvò la vita di Alcibiade. Il daimon che interloquisce con Socrate è un istinto più profondo, che non ha nulla in comune con la natura egoistica degli istinti basilari e delle emozioni superficiali. È un autoesame, un’autocritica continua, un’incessante conversazione tra sé e sé (il suo demone): si spezza in due, osservatore ed osservato; la voce interiore della coscienza gli impedisce di agire in certi modi.
La soddisfazione con cui persone dalla coscienza assopita si prestano ad ogni tipo di servizio corrisponde al patimento di chi quella coscienza ce l’ha ben desta e non si rassegna all’idea di eseguire certi ordini. Per questo Socrate affronta a testa alta un processo ingiusto, per insegnare a tutti che il valore etico fondativo delle nostre società è la dignità, non la forza, il giudizio di chi vince le elezioni, la presunta sovranità popolare incarnata nel capo.
Oggi il concetto di dignità ha subito un’evoluzione, è diventato più sofisticato, ma si riconosce ancora la fisionomia socratica. A cosa ci si appella quando si parla di dignità, odiernamente? Qual è la sua rapporto con la nozione di diritti? Che cosa fonda i principi morali, che cosa conferisce loro la forza che esercitano su di noi? Il filosofo politico statunitense George Kateb (2011) ritiene che la dignità sia un valore esistenziale relativo all’identità di una persona come essere umano. Nuocere o tentare di rimuovere la dignità di qualcuno significa trattarlo come se fosse non completamente umano, uno strumento o una creatura subumana. Il concetto di dignità può essere esteso anche alla specie umana nel suo complesso, in virtù della sua unicità. L'essere umano è l'unico animale indeterminato, in quanto parzialmente non-naturale, cioè frutto dell'interazione di genoma, ambiente naturale ed ambiente culturale. Proprio nella sua indeterminazione, ossia nell'assenza di confini precisi, risiede la sua dignità intrinseca, che è il fondamento dei diritti umani (nonché il suo libero arbitrio e quindi il senso morale e di responsabilità). Non solo, la sua fondamentale indefinitezza consente ad ogni singolo essere umano di essere migliorabile: ha un potenziale indeterminabile, insospettabile, appunto. E poiché è imprevedibile, è anche creativo ed innovativo. L'affinamento morale, civile, scientifico ed artistico derivano dalla porosità di questi confini dell'umano. In altre parole, come aveva intuito Sartre, gli esseri umani sono sempre più di quel che credono di essere in ogni singolo istante della vita e se scelgono di negarlo, è per mala fede o falsa coscienza. A dispetto di tutto, la natura sarebbe impoverita se venissimo a mancare. La specie umana è infatti solo parzialmente naturale, rappresenta uno scarto rispetto alla natura. Questo la rende la più speciale tra le specie, ciascuna a suo modo speciale. L’umanità è la parte più interessante della natura, nel bene e nel male, l’unica che può aiutare la natura a riflettere su stessa. Come Adamo, l’essere umano può tornare ad essere il giardiniere, il guardiano e l’amico dell’ecosfera.
Socrate crede nell’uguaglianza degli esseri umani e perciò non crede che il ruolo e la funzione definiscano una persona. Il potenziale di ciascuno si può esprimere in modalità imprevedibili, specialmente se ci liberiamo dalle catene che ci trattengono nella caverna dove tendiamo a credere che le ombre riflesse siano la realtà. Ma questo significa che nessuno avrebbe più diritto di altri ad essere convocato per rappresentare la specie umana in un ipotetico congresso delle specie che popolano la nostra galassia. Oggi si direbbe che non si può stabilire chi sia eugeneticamente più idoneo a rappresentarci tutti. Le potenzialità della specie non dipendono dal suo corredo genetico o configurazione biologica; non si raggiungerà mai il punto in cui si potrà dire: ecco, questo è il meglio che può dare l’umanità. Socrate chiede ai suoi interlocutori di sviluppare le proprie potenzialità invece di lasciarle latenti, di resistere alla tentazione di imitare gli altri o conformarsi in modo irriflessivo alle usanze, mode e mentalità prevalenti, resistere alla tentazione di fingere di essere ciò che non si è, ecc. Socrate crede che ciascuno possieda dentro di sé una quantità illimitata di informazioni e che domandare ad altri di rispondere ai propri interrogativi, attendere che siano altri a fare il lavoro al posto nostro, sminuisce e svilisce ciò che siamo, compromettendo il nostro libero arbitrio, deteriorando la nostra forza volontà e perciò esponendoci alla subordinazione passiva, infantile, all’altrui volere. Socrate ripete continuamente quest’idea che non dovrebbe essere lui a far procedere i ragionamenti, ma dovrebbe essere l’interlocutore che, spontaneamente, lascia che il suo intelletto prenda il volo, confidando nelle sue capacità. Per questo si definisce una levatrice. “È piuttosto chiaro che quel che hanno imparato non l’hanno appreso da me. Le magnifiche scoperte a cui hanno dato vita sono opera loro. A me ed al dio devono solo il parto” (Teeteto). Recentemente pare che la ricerca scientifica abbia confermato l’intuizione socratica. Uno studio degli indios amazzonici che ha coinvolto il CNRS francese, il Collège de France, tre università parigine e l’università di Harvard ha mostrato che non è solo il postulato maieutico ad essere corretto, ma anche il metodo dimostrativo di Socrate, che invita uno schiavo di Menone completamente a digiuno di geometria a dimostrare il Teorema di Pitagora: “tutti gli esseri umani potrebbero avere la capacità di dimostrare intuizioni geometriche. Questa capacità potrebbe però emergere solo dopo il raggiungimento dei 6, 7 anni di età. Potrebbe essere innato oppure acquisito nell’infanzia quando i bambini diventano consapevoli dello spazio che li circonda” (Izard et al., 2011)
La deontologia della levatrice prescrive che l’altro non sia creta da modellare ma un fiore che deve essere aiutato a sbocciare. Socrate si limita a mettere in dubbio le certezze del senso comune, nella speranza che chi dialoga con lui rifletta, analizzi ed espanda la sua conoscenza, ossia migliori la sua vita, divenga una persona più forte, più consapevole e più felice. Perché la felicità autentica dipende dalla crescita spirituale e quindi dal consolidamento della conoscenza. Nel fare tutto questo, Socrate assume per sé un unico compito, quello di insegnare agli altri come si insegna a se stessi, ad avere fiducia in sé e non nella volontà di una maggioranza, solo perché è una maggioranza. Tenta di convincere il prossimo a porsi delle domande, studiarle ed arrivare a delle risposte, autonomamente anche quando si confronta con le prospettive altrui (alle quali non si deve subordinare passivamente), perché è nelle sue corde farlo, se veramente lo vuole, perché le risposte sono già dentro di lui/lei e perché una vita ben spesa è una vita esaminata, una vita dedicata all’apprendimento, coralmente. Nel preludio all’esecuzione, i musicisti riscaldano ed accordano gli strumenti, suonando scale, arpeggi, o “soli”. In questa fase si deve porre attenzione al proprio strumento se si vuole creare della buona musica. Se invece si passa il tempo ascoltando ciò che fanno gli altri orchestrali, non sarà possibile ricavare della musica autentica dallo strumento che suoniamo.
Ciò che è strumento di conoscenza è anche strumento di liberazione. Allora il dialogo esiste solo per distruggere la falsa conoscenza. Fatto salvo per le catastrofi naturali, i pericoli reali nel mondo nascono da dentro noi stessi. Perciò l’autoesame e la contemplazione dello svolgersi delle vicende umane è essenziale per la sopravvivenza della nostra stessa specie. È fin troppo facile esaminare e giudicare il mondo esterno. È doloroso esaminare se stessi. Per questo troppi non cominciano neppure a farlo. Eppure l’unica maniera per capire se la rozza mappa che stiamo usando per navigare nella vita sia almeno vagamente utile è metterla a confronto con altre mappe. Ciò è indispensabile perché nessun essere umano agisce direttamente nel mondo. Ciascuno si deve prima creare una rappresentazione del mondo in cui vive, una mappa, un modello da usare per navigare nella realtà. Questa rappresentazione della realtà determinerà in buona misura la nostra esperienza del mondo (percezione della natura umana, aspettative nei confronti del prossimo, tipo di scelte che riteniamo siano disponibili ed accettabili) e perciò anche il nostro comportamento. La coscienza è il mezzo con cui comprendiamo il mondo. Leggiamo la natura, la società e le motivazioni umane non come sono ma come la coscienza ci permette di interpretarle. L’errore che generalmente commettiamo è quello di scambiare la mappa per il territorio e di fossilizzarci su di essa, scambiando i nostri desideri e pregiudizi per la realtà. Questa tendenza è alla base di gran parte dei mali della nostra società. L’enorme merito di Socrate è stato quello di aver scovato una tecnica che consente di ovviare a questo problema, con perseveranza e pazienza. Invece di aspettare che siano gli altri a fornirci le risposte e le soluzioni e invece di credere di avere già in tasca le soluzioni adatte agli altri, dobbiamo concentrarci sull’oscurità ed ignoranza che ci avvince e fare luce da dentro, a beneficio di tutti. È un po’ quello che consigliava di fare Aleksandr I. Herzen, uno dei grandi pensatori russi del diciannovesimo secolo: “Se la gente cercasse, anziché di salvare il mondo, di salvare se stessa, anziché di liberare l’umanità, di liberare se stessa, avrebbe fatto molto per salvare il mondo e liberare l’umanità”. Accumulare conoscenza senza pregiudizi rende umili. L’umiltà, combinata con la conoscenza, inevitabilmente conduce alla conoscenza di sé. L’importante, ci insegna Socrate, è restare integri, cioè essere presenti a noi stessi e nel mondo, mostrare presenza di spirito, di carattere, agire in accordo con la propria coscienza, non inconsciamente, meccanicamente, per imitazione. Socrate chiede sempre ai suoi interlocutori di lasciar da parte quel che hanno sentito e di argomentare con la loro testa. Fare affidamento sulla propria coscienza anziché su quella altrui è un segno di maturità, o almeno un segno che una coscienza la si possiede – avere il proprio sistema di riferimento dentro di se, nella propria coscienza e non fuori, nelle regole imposte da altri, nei pregiudizi e nelle opinioni preconfezionate. Non egocentrismo ma coscienza di sé, cioè coscienza reale delle proprie potenzialità e dei propri limiti, integrità, una cosa ben diversa dalla mania di protagonismo. Socrate è un modello di integrità perché afferma di non sapere nulla. Naturalmente è un modo di dire. Socrate sa probabilmente molte più cose di tutti i suoi concittadini messi assieme, se non altro perché, a differenza di altri, è consapevole del fatto che quel che sa è una particella infinitesima di quel che si potrebbe sapere. Nelle parole dell’Apologia: “Certo sono più sapiente io di quest'uomo, anche se poi, probabilmente, tutti e due non sappiamo proprio un bel niente; soltanto che lui crede di sapere e non sa nulla, mentre io, se non so niente, ne sono per lo meno convinto, perciò, un tantino di più ne so di costui, non fosse altro per il fatto che ciò che non so, nemmeno credo di saperlo” (Socrate, Apologia).
Democrito diceva che “bisogna sforzarsi di capire molto, non di avere una molteplice erudizione”. Socrate sa cos’è l’ingiustizia, ma non cosa sia un’eccellenza virtuosa, una vita migliore. Per questo invece di insegnare agli altri come comportarsi agisce astenendosi, evitando, negandosi, ignorando le ingiunzioni. La sua integrità, la sua piena presenza a se stesso ed agli altri, la sua attenta concentrazione, gli consentono di affermare di essere riuscito ad evitare gli errori più comuni e prevalenti. Si sforza di mostrare integrità e purezza nel suo agire, nella sua condotta, e di aiutare gli altri rendendosi disponibile per delle conversazioni, per far pensare gli altri e se stesso. Ne è convinto anche il dostoevskijano padre Zosima: solo quando uno conosce se stesso e si confronta a viso aperto, onestamente, può arrivare ad amare il prossimo e Dio. Senofonte ci tramanda il pensiero di Socrate su questo punto fondamentale: “Quelli che conoscono se stessi sanno ciò che loro conviene e discernono quel che possono e quel che non possono; facendo quel che sanno si procurano ciò di cui hanno bisogno ed agiscono bene, astenendosi da quel che non sanno, non sbagliano ed evitano di agir male”. In un altro passo: “Non gli premeva di rendere i suoi amici abili a parlare, ad agire e fronteggiare una situazione: riteneva che, prima, dovessero avere un retto sentire. Infatti, quanti, privi del retto sentire, erano in grado di far tutto ciò, riteneva fossero più ingiusti e più abili a compiere il male”.

Socrate e il Male

E non è dunque chiaro che non desiderano le cose cattive quelli che non le riconoscono come tali, ma che desiderano quelli che ritengono essere buone, e che, viceversa, sono cattive? Cosicché, quelli che non le conoscono come cattive e reputano che siano buone, appare evidente che desiderano le cose buone. O non è così? […] Nessuno, dunque, o Menone, desidera le cose cattive, se non vuole essere siffatto. Che altro significa essere infelice, se non desiderare e procurarsi cose cattive? […]Dunque, in termini generali, le cose che l'anima intraprende e nelle quali persevera, quando il senno fa da guida, vengono portate ad un felice compimento ; quando invece a fare da guida é la dissennatezza, terminano esattamente al risultato opposto.
Menone

Non dei corpi dovete prendervi cura, né delle ricchezze né di alcun’altra cosa prima e con maggior impegno che dell’anima in modo che diventi buona il più possibile.
Apologia

Socrate spiega agli Ateniesi che non durerebbe un giorno se, da politico, si opponesse al volere delle moltitudini ed impedisse loro di commettere ingiustizie ed illegalità. In una società ingiusta il giusto non partecipa alla vita politica. Nell’Apologia Socrate spiega che se ne rimane nella sfera privata perché solo lì può combattere per ciò che è giusto. Chi vuole veramente combattere contro le ingiustizie deve farlo come privato cittadino, non come funzionario pubblico. Si parte dal basso, con Socrate, dalla quotidianità. Il filosofo ateniese si limita a fare in modo che le persone capiscano che danneggiando il prossimo danneggiano anche se stessi. Nel farlo rivela che, troppo spesso, a quel tempo come nel nostro tempo, il “processo “civilizzatore” si oppone alla crescita interiore perché si fonda su valori materialistici, illusioni spirituali, eccitazioni, trepidazioni, e tutto ciò che spinge l’uomo ad identificarsi con gli aspetti animali e meccanici di sé. Il benessere di questi aspetti produce odio, ingiustizia, violenza, guerra, in una cornice di moralismo integralista che Socrate contrasterà fino alla sua morte. I vizi mantengono l’uomo in schiavitù, bisogna combatterli per salvare la propria libertà. Socrate è libero, per quanto è possibile, da convenzioni, paura, brame materiali, gerarchie sociali. Rifiuta le passioni in nome della libertà. Sa che chi non teme la sofferenza e la morte è libero: nessuno potrà costringerlo a fare qualcosa. Sono la paura ed il desiderio che ci privano della libertà. Nella sua visione trascendentalista, che sarà poi fatta propria dai filosofi neoplatonici, ogni vizio ed ogni brama inchiodano l’anima al corpo ed alla materialità. “E pensi che tutti questi piaceri diano tanta gioia quanto il pensiero di diventar migliore tu stesso e di acquistare amici migliori? Per me, è il pensiero che ho sempre” – afferma il Socrate di Senofonte – che poi aggiunge: “Non aver bisogno di niente è divino, di pochissimo è vicinissimo al divino”. Che credesse in una vita dopo la morte è testimoniato dal fatto che nel Fedone egli afferma che l'unico suo desiderio è quello di morire, perché soltanto la morte gli consentirà di raggiungere la piena autenticità del proprio essere. Questo desiderio presuppone ovviamente la fiducia nell’immortalità dell’anima, un’anima che si corrompe, perde progressivamente la sua integrità se ego la ignora. Il Fedone è, a tutti gli effetti, una guida al misticismo occidentale (McEvilley, 2002): l’anima deve ritrarsi dai sensi, concentrarsi su se stessa, diventare quieta ed immutabile per arrivare a conoscere ciò che è quieto ed immutabile, separatamente dal corpo (Fedone, 64-67). Nel Sofista (248a), Socrate spiega che “interagiamo con gli altri attraverso l’anima, per riflesso ed il vero essere si trova sempre in uno stato di immutabilità”. Quel che manca, per Socrate, è la consapevolezza di questo processo ed è quest’ignoranza che ci fa sbagliare. Lo ripete o vi allude un gran numero di volte: non si compie il male consapevolmente. Nessuno pensa di essere un malvagio. Gli inquisitori spagnoli erano convinti di salvare delle anime dall’inferno. Hitler era convinto di salvare il mondo dalla piaga ebraica. La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. Ognuno ritiene di fare la cosa giusta, ma confonde il bene col male. Aristotele aggiunge il cruciale fattore della razionalizzazione utilitaristica del male: si compie il male ben sapendo che non è il bene ma nella prospettiva di un bene maggiore. In genere è solo per nascondere appetiti e brame irresistibili ed una generale debolezza di carattere. Un malvagio non si rende minimante conto del fatto che danneggia prima di tutto se stesso. Non c’è dunque malvagità senza ignoranza e debolezza morale, che comporta l’incapacità di tener testa ai propri appetiti. Il male è perciò un deficit caratteriale, è assenza di una corretta armonizzazione, sintonizzazione delle proprie disposizioni, eccesso, sproporzione, esagerazione nelle brame, indomabili, incontrollate. Se facciamo qualcosa di sbagliato è perché per un momento, oppure permanentemente, abbiamo perso di vista il nostro vero bene, visto che non ha senso ritenere che uno scelga deliberatamente di danneggiare se stesso (eccetto in casi patologici). Sbagliamo perché scegliamo quel che riteniamo sia meglio per noi nel breve termine invece di abbracciare una prospettiva di più ampio respiro. Meglio (per l’anima) sarebbe coltivare la virtù e difendere la propria integrità morale. Non saremo mai in grado di usare bene status, potere e denaro se la nostra anima non è in buone condizioni. Per amare bisogna sapere, e sapere significa essere illuminati, ed essere illuminati significa amare e conoscere è amare e così via. Il filosofo non si accontenta della molteplicità degli individui e dell’apparenza ma cerca la conoscenza della vera natura di ogni essenza, perché conoscere la virtù significa comparteciparne, diventare la virtù. La conoscenza riorganizza una persona dall’interno, il suo intero essere (Repubblica 490a-b). Un sistema morale basato su adesioni emotive è illusorio ed ingannevole. L’ideale morale, la sapienza purificano da questa emotività. L’anima è distaccata dall’emotività del corpo e conosce tutte le cose (Fedone 69). “Sappi, insomma, che la vera virtù non è mai disgiunta dalla Sapienza, si accompagnino o meno alla virtù piaceri, terrori e altre siffatte passioni. In una parola, tutto ciò che è da lei separato e oggetto di mutuo cambio, non è vera virtù, ma scenario dipinto, cosa ignobile e servile che non presenta nulla di sano e di vero. Penso che proprio il purificarsi da tutte queste passioni costituisce la temperanza, la giustizia e la fortezza, e che il sapere stesso è un mezzo di purificazione” (Platone, 2007). Il piacere ed il dolore mettono l’anima ai ceppi del corpo. Ogni piacere serve a convincere l’anima che il punto di vista del corpo è quello giusto.
Gli archetipi platonici formano il mondo, manifestandosi nel tempo, ma rimanendo fuori dal tempo. Ciò che è bello lo è perché è partecipe della forma assoluta del Bello. Socrate crede che la conoscenza della virtù è necessaria per una vita virtuosa e concetti universali obiettivi di giustizia e bontà sono indispensabili per un’etica autentica. Senza queste costanti immutabili che trascendono i capricci e le stravaganze umane e delle loro istituzioni non ci sarebbe alcun fondamento utile per discernere i veri valori e si sprofonderebbe nel relativismo amorale. L’universale è superiore rispetto al particolare e non cambia, dunque è più reale. Solo la conoscenza che deriviamo dalle Idee è infallibile, solo quella è vera conoscenza. Le cose del mondo non esistono realmente, perché tutto è in un costante stato di trasformazione in qualcos’altro. Fortunatamente la mente umana è attrezzata per capire l’universale, essendo ordinata secondo le stesse strutture ed essenze archetipiche. È nella natura degli esseri umani la ricerca della felicità, ma la felicità si ottiene quando si vive un’esistenza in armonia con le esigenze dell’anima. Ricchezza, potere, fama nulla possono se la vita non è adatta all’anima (Tarnas, 1991).
Per vedere le cose come sono (e non come sembrano essere o come desideriamo che siano) occorre disciplina mentale e forza caratteriale. Ci si deve distanziare dall’oggetto per impedire alle nostre paure, fantasie ed affetti di interferire con la nostra obiettività. Gli egoisti ed egocentrici – e lo siamo tutti, sebbene in misura diseguale – sono incapaci di sviluppare se stessi e l’obiettività poiché ciò risulta dall’espandersi all’esterno non dal ritrarsi all’interno. La loro sorte è miserevole, diventano simultaneamente servi e tiranni. Infatti chi è tiranno non ha mai amici, è sempre signore di qualcuno e servo di qualcun altro. In genere è associato alle persone peggiori, agli sleali ed ai sicofanti.
C’è uno spettro di umanità che va da un basso livello di sviluppo emotivo, caratteristico di quelle persone che vivono essenzialmente per soddisfare i propri bisogni primari istintuali ed automatici e per l’auto-preservazione, ad un elevato tasso empatico che in alcuni casi arriva ad incorporare l’intera ecosfera e l’universo: i mistici e presumibilmente, a giudicare dalle sue parole, anche Socrate. Senza l’aiuto del prossimo, che fa le veci di Socrate, gli esseri umani non sono strutturalmente capaci di pensare in modo obiettivo, ma solo per approssimazione, mentre la pace, l’amore e la ricerca della verità e della felicità richiedono equanimità ed obiettività. Per Socrate, come per Camus, il peggior fallimento di una persona è quello di ingannare se stessi e vivere nella menzogna, in cattiva fede. Si rispettano gli dèi, ma si venera la verità, si usano parole giuste e veritiere, si agisce senza arroganza e superbia, senza pretendere necessariamente favori e contraccambi. Menzogna è parlare di cose che non si sanno e che persino non si possono sapere come se si sapessero e si potessero sapere. Spesso si accompagna alla generazione di scenari immaginari, che ci piacciono, completamente avulsi dalla realtà obiettiva. Si finisce per credere che sia reale e vero ciò che non lo è.

La violenza, la non-violenza e la non-resistenza al male in Socrate

Nemmeno se ci viene fatta ingiustizia si deve rendere ingiustizia, come invece pensa la maggior parte della gente. […] Dunque né si deve rendere ingiustizia di ricambio né far male a nessuno degli uomini, neanche se si sia patito qualche male da costoro
Critone

È più vergognoso compiere ingiustizia che riceverla
Gorgia

La miglior illustrazione socratica dell’origine della violenza umana e delle tecniche che ci possono consentire di mitigarne gli effetti, se non proprio di tenrla a bada tutto il tempo si trova nel Fedone. Socrate, dopo aver dialogato con Simmia, conclude: “Dunque tutte queste considerazioni devono formare nei veri sinceri filosofi un’opinione tale da indurli a ragionare pressappoco così: pare che ci sia come un sentiero a guidarci verso la verità, perché fino a quando abbiamo il corpo, e la nostra anima è mescolata con un siffatto malanno, noi non riusciremo mai a raggiungere ciò che desideriamo. Infatti il corpo ci dà infinite brighe per la necessità del nutrimento; e se poi esso si ammala, nuovi impedimenti si frappongono alla nostra ricerca del vero. È ancora il corpo che ci riempie di amori, di passioni, di terrori, di immaginazioni, di vanità infinite, per cui non ci riesce di fermare il pensiero su cosa alcuna finché siamo in sua balìa. E le guerre, le rivoluzioni, le battaglie, chi le produce se non il corpo e le sue passioni? Le guerre, infatti, scoppiano per la brama di ricchezze, e queste noi siamo stretti a procurarcele per il corpo, incatenati come siamo al suo servizio, per cui non abbiamo più tempo di dedicarci alla filosofia. Il peggio è poi che se per un momento riusciamo ad essere liberi dal suo servizio e ci proponiamo di meditare su qualche cosa, ecco che tutto d’un tratto si pianta nel mezzo della nostra meditazione e tutto turba e scompiglia disanimandoci, così che per causa sua non siamo più in grado di contemplare la verità. Resta, quindi, dimostrato che, se noi vogliamo pervenire alla visione più pura del vero, dobbiamo distaccarci dal corpo e contemplare la verità con la sola anima. Allora soltanto, quando saremo morti, e non da vivi, come il ragionamento ci costringe ad ammettere, noi potremo possedere ciò di cui ci professiamo amanti: la Sapienza, cioè. […] Bisogna riconoscere, dunque, o Simmia, che tutti coloro i quali rettamente filosofano è come se si esercitassero a morire; perciò a loro la morte fa molto meno paura che agli altri” (Platone, 2007).
È possibile che l’anima ricerca disperatamente la via del ritorno all’origine, cioè alla destinazione e, nella sua disperazione, affanno e sviamento, cozza contro tutto e tutti, nella speranza di trovare un passaggio, una via di fuga da una realtà implacabile e densa. Questo lo pensava Diotima, la maestra di Socrate (Simposio, 210) e non è un’idea estranea all’Immanuel Kant della “Critica del Giudizio”: “la sublimità dunque non sta in nessuna cosa della Natura, ma solo nell'animo nostro, in quanto noi possiamo riconoscerci superiori alla Natura”. L’anima riflette meglio quando si libera dalle distrazioni corporali, quando ignora il corpo. Il corpo è solo un’interferenza nella contemplazione del vero. Nel Simposio Socrate parla di Eros, la guida per la crescita spirituale e spiega che si comincia con l’amore per i bei corpi, che può essere di stimolo, ma quasi sempre conduce alla gelosia, alla possessività, invidia, egotismo, ecc. Questo è seguito dall’amore per tutti i bei corpi, che è più distaccato, non legato ad un corpo specifico ad esclusione di tutti gli altri. È più difficile mantenere un senso di possesso: si passa da “è mio!” a “sono anche miei”. Il terzo stadio è quello in cui si amano non i bei corpi ma le belle anime. Succede allora che l’anima, guardando nelle altrui anime, comincia a (ri)conoscersi (Alcibiade 133b). Al quarto stadio c’è l’amore per le leggi giuste che preservano l’armonia nella comunità, allontanandosi sempre di più dalla sfera materiale. Al quinto l’amore comincia ad ammirare i principi universali dietro ad ogni fenomeno particolare. Nell’ultimo stadio c’è la visione della bellezza universale che sostiene l’universo, la mente ha raggiunto un completo distacco dal corpo, raggiungendo la conoscenza e la virtù assolute e diventa immutabile. È utile porre a confronto questa ricostruzione del processo di conscientizzazione con gli stadi di maturazione cognitiva, morale e spirituale proposti dagli psicologi e pedagogisti Jean Piaget (1896–1980) e Lawrence Kohlberg (1927–1987).
È con il Critone che apprendiamo la filosofia socratica dell’astensione dal rendersi complici di iniquità. Il messaggio centrale di questo dialogo giovanile è che l'importante non è vivere, ma vivere bene. Il discepolo Critone vuole che Socrate si metta in salvo prima dell’arrivo di una nave sacra che segnerà il suo destino, l’esecuzione della sua condanna a morte. È preoccupato perché teme che la gente finisca per schernire i discepoli e gli amici di Socrate che non l’hanno tratto in salvo quando potevano. Che esempio darebbero? Socrate replica che non ci si deve preoccupare delle opinioni di chi, come non è capace di commettere grandi iniquità non è neppure in grado di fare del gran bene. Ci si cura solo dell’opinione delle persone assennate: “se fosse vero, Critone, che i più siano capaci di fare i mali più grandi, per essere anche capaci di fare i beni più grandi, sarebbe una bella cosa. Ma in realtà non sono capaci né di una cosa né dell’altra; perché non hanno la possibilità di rendere nessuno né saggio né stolto, ma fanno quel che capita” (44d). Critone assicura Socrate che chi gli vuole bene è pronto a mettere a sua disposizione tutto quel che serve per salvargli la vita: non bisogna darla vinta ai nemici e poi il maestro ha ancora molto da insegnare. Socrate non è turbato dall’idea di morire: ha sempre ribadito che il corpo è molto meno importante dell’anima e per questa ragione il semplice vivere è di valore secondario: ciò che deve importare è vivere bene, ossia secondo giustizia. “Se, per prestare ascolto all’opinione degli incompetenti, rovineremo quella parte che è resa migliore da ciò che è salutare ed è corrotta da ciò che è malsano, potremo ancora vivere quando essa sarà corrotta? Questa parte è il corpo: non è così? […] Potremo vivere quando sia corrotta quella parte che è rovinata dall’ingiustizia e avvantaggiata dalla giustizia? O pensiamo che sia da meno del corpo questa parte…?” (47d-e) Socrate spiega che quella, l’anima, è la parte più pregevole e poi continua: “esamina se anche questo ci rimane assodato o no: se ciò che si deve apprezzare di più non sia il vivere, ma il vivere bene”. Critone risponde: “Rimane assodato”. Al che Socrate insiste: “E che il vivere bene è la stessa cosa che vivere onestamente e giustamente, rimane assodato o no?”. Critone conferma: “rimane assodato” (48b).
È quindi giusto o no mettersi in salvo? Socrate è dell’idea che non si debba mai commettere un’ingiustizia, neppure per ricambiarne una che si è subita. “Noi diciamo che in nessun modo si deve commettere volontariamente ingiustizia o che in qualche modo si può e in un altro no? Il commettere ingiustizia non è come spesso anche in passato abbiamo ammesso mai e in nessun modo né buono né bello? …sia che i più lo riconoscano sia che no, sia che dobbiamo subire mali ancor più gravi di questi o meno gravi, la cosa sta proprio come dicevamo allora, cioè che in ogni modo il commettere ingiustizia è, per chi la commette cosa brutta e cattiva? Lo diciamo o no? […] Dunque neppure se si subisce ingiustizia, bisogna ricambiarla, come credono i più, perché non bisogna commettere ingiustizia in nessun modo. […] Dunque non si deve né ricambiare l’ingiustizia né far male a nessuno degli uomini qualunque cosa si subisca da essi. […] Tra quelli che sono di questo parere e quelli che non lo sono, non è possibile una decisione comune, anzi necessariamente si disprezzano reciprocamente vedendo le rispettive decisioni. Perciò osserva anche tu molto attentamente se ti associ e condividi la mia opinione: in tal caso cominciamo a decidere partendo da questo punto, che non è mai cosa retta né commettere ingiustizia né contraccambiarla né, quando si subisce un danno, vendicarsi ricambiandolo” (49).
Ma se le leggi sono ingiuste? Non è forse giusto violare delle leggi ingiuste che oltraggiano il buon senso e la moralità dei cittadini? La fuga non è dunque una forma di disubbidienza civile, un gesto di condanna dell’iniquità? Socrate – curiosamente, dato che per tutta la vita sceglieva di dibattere con persone in carne ed ossa e non con astrazioni prive della facoltà di esprimersi –s’immagina che le leggi parlino con lui e gli domandino ragione del suo comportamento e delle sue intenzioni. Il suo giudizio complessivo nei loro confronti non è troppo dissimile da quello espresso da Paolo nella lettera ai Romani (13, 1): le leggi e le autorità vanno rispettate comunque. È vero che c’è la scelta tra ignorarle emigrando e osservarle restando ma Socrate è sempre rimasto al suo posto, dimostrando il suo attaccamento alla polis e di conseguenza alle sue leggi. Infrangerebbe un tacito accordo. Non sono le leggi che l’hanno offeso, ma i giudici e non c’è ragione di temere la “giustizia” di esseri umani privi di lucidità, di una polis che non è stata all’altezza dei suoi migliori principi.
Eppure questo stesso Socrate fu di uno dei primi esempi di disobbedienza civile a noi pervenuti. Nel 404 a.C. i Trenta Tiranni gli avevano ingiunto di arrestare Leone di Salamina, ma lui aveva deliberatamente ignorato l’ordine, ritenendo che la fonte dell’autorità fosse illegittima, come le sue disposizioni.
Giovanni Reale definisce Socrate un rivoluzionario. Ma in che senso? Nel senso nonviolento, perché si fa strumento della persuasione e della disobbedienza (Reale, 2001). Ma il Socrate del Cratilo sembra più simile al Gesù del “porgi l’altra guancia” ed al Tolstoj fautore della non-resistenza di fronte al male.
Nel Gorgia, Socrate discute con Polo dell’ingiustizia e di come essa corrompa l’anima. Socrate paragona gli effetti dell’ingiustizia sull’anima a quelli della povertà per il corpo. Ma il male dell’anima è il peggiore e “deve la sua superiorità a qualcosa di straordinario, ad un grande danno o ad un male portentoso, dal momento che non la deve al dolore”. L’ingiustizia, come l’intemperanza è un male massimo. Perciò la colpa massima ricade su chi sfugge ad un giusto verdetto e la sua anima sarà la più corrotta, ma non potrò accorgersene, perché sarà troppo ignorante per poterlo fare: “vedono il suo aspetto doloroso, ma restano ciechi di fronte alla sua utilità e ignorano quanto sia più infelice vivere con un’anima malata che con un corpo malato, cioè con un’anima corrotta, ingiusta ed empia. Per questo fanno ogni tentativo per non scontare la pena e non essere liberati dal massimo male, si procurano ricchezze e amici e cercano di diventare il più persuasivi possibile nel parlare”. Se ne deduce allora che commettere un’ingiustizia non è il male principale, quello più terribile. Peggiore ancora è lo sfuggire alla giusta sanzione. Tuttavia non era questa la condizione di Socrate, anzi. Socrate, usando il sofisma del colloquio con le leggi, accetta un’ingiusta condanna, emessa da un tribunale ingiusto, sulla base di accuse ingiuste e, nel farlo, sceglie di essere un cattivo esempio per chi, nella comunità, lo ha ammirato e ha cercato di emularlo. Infatti, da quel momento in poi, nessuno potrà più dire che subire un’ingiustizia passivamente sia sbagliato, mentre sottrarsi all’iniquità diventerà un atto di viltà ed una mancanza di rispetto verso leggi che non hanno colpa per la loro malinterpretazione da parte degli uomini. Questo tipo di comportamento da parte della cittadinanza di una democrazia non potrà che incrementare il tasso di iniquità ed ingiustizia in seno alla polis, esattamente l’opposto del risultato che si prefiggeva Socrate. Per ben due volte, nel 406 a.C. e nel 404 a.C. Socrate si era rifiutato di eseguire degli ordini per non commettere ingiustizie. Non era forse tenuto a farlo una terza volta, per non commettere un’ingiustizia nei confronti del suo insegnamento? Chi scrive non reputa che questo messaggio sia coerente con lo spirito di quanto affermato da Socrate nel corso della sua esistenza e si domanda se Platone abbia descritto i fatti come avvennero o abbia voluto “interpretarli” per armonizzarli con il suo temperamento chiaramente anti-democratico.
È lecito, tra l’altro, domandarsi come il Socrate del Gorgia si sarebbe comportato nella Russia sovietica, nella Germania nazista, nella Cina dei nostri giorni o nell’America della Guerra al Terrore, quella dei “danni collaterali”, degli “omicidi extra-giudiziari”, dei “metodi d’interrogatorio più aggressivi” e delle “tecniche avanzate di interrogatorio” (leggi: tortura), delle “consegne straordinarie” (extraordinary renditions, cioè deportazioni illegali), dei “combattenti nemici illegali” (leggi: :inapplicabilità delle convenzioni di Ginevra), del Patriot Act, di Guantánamo, di Abu Ghraib, Abu Selim e delle altre prigioni segrete. Forse, in tali frangenti, Socrate avrebbe condiviso la critica rivolta dal saggio scita Anacarsi a Solone: “Si racconta che Solone abbia accolto amichevolmente Anacarsi, e che l’abbia ospitato a casa propria per qualche tempo, quando già aveva intrapreso la sua attività pubblica e andava compilando le sue leggi. Quando Anacarsi lo venne a sapere, derise l’impegno di Solone: egli credeva di trattenere le ingiustizie e le violenze dei suoi concittadini tramite degli scritti che non differivano in nulla dalle ragnatele; come le ragnatele, essi avrebbero trattenuto, fra chi vi incappava, i deboli e gli umili, mentre i potenti e i ricchi le avrebbero spezzate. Ma Solone – si racconta – gli rispose che gli uomini rispettano quei patti che a nessuno dei contraenti conviene trasgredire, e che egli rendeva le sue leggi adeguate ai concittadini, in modo da mostrare a tutti che agire rettamente era meglio che andare contro la legge. Tuttavia, i fatti si svolsero come Anacarsi aveva immaginato, più che come aveva sperato Solone” (Plutarco, Vita di Solone, 5, 3-6).

1 commento:

Anonimo ha detto...

Grande.