Questo grande
male... da dove proviene? Come ha fatto a contaminare il mondo? Da che seme, da
quale radice è cresciuto? Chi ci sta facendo questo? Chi ci sta uccidendo,
derubandoci della vita e della luce, beffandoci con la visione di quello che
avremmo potuto conoscere? La nostra rovina è di beneficio alla terra, aiuta l'erba
a crescere, il sole a splendere? Questo buio ha preso anche te? Sei passato per
questa notte?
Terrence Malick, “La sottile linea rossa”
Il più grande messaggero di pace della storia, Gesù il Cristo, ammoniva: “Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra. Non sono venuto a portare la pace, ma una spada” (Mt 10, 34; cf. 12, 51-53). Altrove, precisava: “Non sanno che sono venuto a portare il conflitto nel mondo: fuoco, ferro, guerra” (Tommaso, 16). Dichiarazioni piuttosto paradossali. Che cosa intendeva dire? Immagino fosse pienamente consapevole del fatto che il pensiero pacifista sarebbe stato ostacolato in ogni modo. Così è stato. I martiri della pace sono stati numerosi, i nemici della pace anche di più.
Realisticamente, poteva avere successo la satyāgraha
gandhiana, se posta di fronte a gente come Martin Bormann – “Gli Slavi devono
lavorare per noi. Quelli che non ci servono possono pure morire…La fertilità
degli Slavi è indesiderabile. Possono usare contraccettivi o praticare l’aborto,
più lo faranno meglio sarà. L’educazione è pericolosa. È sufficiente che
sappiano contare fino a cento…ogni persona educata è un futuro nemico”
(Memorandum, 1942) – e come Heinrich Himmler – “I più di voi sanno cosa
significa trovarsi davanti a cento cadaveri, a cinquecento o a mille. Aver
provveduto a tutto questo e, a parte le eccezioni costituite da alcuni episodi
di umana debolezza, essere rimasti ugualmente corretti: ecco cosa ci ha resi
duri” (discorso di Posen, 1943)? O avrebbe invece causato il sacrificio di
altri milioni di persone disarmate?
Siamo come le pecore tra i lupi? Il colmo dell’ironia è
scoprire che Hitler stesso lodava il pacifismo: “In verità, l’idea pacifista umanitaria va forse abbastanza bene una
volta che l’uomo del più alto livello abbia conquistato ed assoggettato il
mondo a tal punto da essere diventato il padrone assoluto di questo globo”.
La pace totalitaria, l’annichilimento del dissenso e della diversità.
La vita del corpo e
dell’anima non è una faccenda di pacifica contemplazione e quieta devozione.
Spesso, dentro e fuori di noi, c’è un terribile caos, una lotta disarmante e
crudele. Non è
sempre facile affrontarla ed esiste il pericolo che il senso di impotenza che
pervade la gente con forza sempre crescente ci porti a credere
disfattisticamente che la guerra non possa essere evitata perché è il risultato
di una mania di distruzione, propria della natura umana. Come vedremo, però,
l’intensità degli impulsi distruttivi non significa che essi siano invincibili
ed irrefrenabili. In fondo, se ci pensiamo bene, le democrazie entrano in
conflitto quasi sempre proclamando che si tratta di una guerra difensiva.
Generalmente gli esseri umani non sembrano contenti di assumere il ruolo di
aggressori. Qualcosa vorrà pur dire. Ma allora perché continuiamo a farci
prendere per i fondelli?
La mia ipotesi è che non ci sia niente di
irrimediabilmente sbagliato nella natura umana e che il problema sia invece che
noi tutti viviamo in oligarchie camuffate da democrazie liberali e laiche. La pace
non ha alcuna chance in questo tipo di società, che non condanna apertamente
l’egocentrismo, il narcisismo, il distacco emotivo, l’indifferenza, il
nepotismo, l’egoismo, la meschinità, la volgarità, la superficialità, la
manipolazione delle menti, la propaganda, l’arrivismo, l’anti-intellettualismo,
ecc. Questi vizi primari e secondari sono tollerati ed in certi ambienti sono
persino additati ad esempio, come segno di pragmatismo ed avvedutezza. Queste false democrazie, che ignorano lo
spirito delle loro carte costituzionali, dei loro valori fondanti, sono terreno
fertile per tutte le tragiche debolezze umane, dall’egotismo all’autoinganno,
dalla propensione alla fallacia logica al bisogno di appartenenza e fusione,
dalla dipendenza nei confronti delle figure autoritarie al manicheismo, al
conformismo, all’orgogliosa ignoranza, alla percezione selettiva, all’inerzia
ed all’isterilimento psichico e spirituale. Per questo continuano a farci fessi.
Non siamo malvagi di natura, ma…
Nessuno sa definire cosa sia la natura umana, eppure ci
sono scienziati e filosofi che continuano ad imputarle ogni nefandezza, sebbene
il diritto e la dottrina dei diritti umani possano fondarsi solo su una visione
positiva dell’umanità. Si attacca non solo la consapevolezza di quel che
potremmo realizzare se solo mettessimo a frutto le conoscenze scientifiche già
disponibili, ma soprattutto la fiducia nell’essere umano in quanto tale e nelle
sue capacità di scegliere con raziocinio e buon senso, che è poi l’essenza
della cultura umanista ed illuminista.
Secondo Konrad Lorenz tutti i nostri mali sono causati
dalla cessazione della selezione naturale. Siamo animali auto-addomesticati, e
come tali ci siamo degradati. Il sociobiologo Edward Wilson auspica interventi
genetici sulla nostra specie mirati ad imitare l’armoniosa comunità delle api.
Il filosofo politico britannico John Gray ha dichiarato che “chi ama la terra non sogna di diventare il
saggio custode del pianeta, sogna un’epoca in cui gli umani non contino più
nulla”. Richard Wrangham, docente di bioantropologia ad Harvard, reputa che
dentro ciascuno di noi alligni un Uomo Selvaggio, un atavismo, un retaggio del
nostro passato preistorico che condiziona il nostro comportamento. Secondo lui
“se presupponiamo che gli esseri umani
siano fondamentalmente simili agli scimpanzé…questa intuizione biologica (sic!)
ci insegna che gli uomini continueranno a cercare nuove opportunità per
massacrare i propri rivali e che non dobbiamo mai abbassare la guardia. La
brutta notizia è che dobbiamo lavorare sodo per impedire agli uomini di
coalizzarsi per uccidere gli avversari”.
La misantropia “scientifica” è gravida di questo genere
di stravaganti asserzioni. Esse partono da una premessa che la quotidianità
stessa rivela essere manifestamente errata, e cioè che gli esseri umani passino
il tempo ad aggredirsi invece di badare agli affari loro o cooperare tra loro. Se le cose stessero davvero così nessuna
società umana potrebbe operare. Questo abbaglio nasce dall’attaccamento a
due dogmi ben precisi: quello dell’innata malvagità dei maschi umani e degli
scimpanzé maschi e quello secondo cui la civiltà umana è solo una sottile
patina che fatica a trattenere le pulsioni spesso incontrastabili della
biologia evolutiva, inscritte nel nostro corredo genetico, che ci ha resi
eterni predatori e carnefici. Tutto questo naturalmente elude la questione delle
considerevoli variazioni nell’incidenza
di comportamenti violenti tra individui e tra culture ed il dato di fatto che
la stragrande maggioranza degli uomini non ha mai assalito, violentato o ucciso
qualcuno nella sua intera esistenza. Forse questi pensatori ritengono con
tragica supponenza di essere tra i pochi
esemplari della specie umana in grado di tenere a bada il selvaggio vigore dei
loro geni.
Eppure, lo studio del comportamento dei soldati in
combattimento dimostra che la gran parte degli esseri umani non prova alcun
piacere nell’uccidere o usare violenza contro un proprio simile. Anzi, la necessità di un rigido, meticoloso e
prolungato addestramento, che si avvale di ogni possibile tecnica inventata
dagli scienziati del comportamento per placare le remore ed ansie di una
coscienza colpevole (bestializzazione del nemico, trasferimento della
responsabilità verso le autorità, cameratismo, uso di psicofarmaci ed alcolici,
ecc.), è la prova migliore del fatto che
la guerra non è un “fatto naturale”.
Patriottismo ed idealismo non sono mai stati sufficienti
a convincere i soldati a massacrare e farsi massacrare, a vincere le
inibizioni, l’ansia, i rimorsi ed i sensi di colpa. Si è stimato infatti che,
durante i due conflitti mondiali, solo
il 15-20 per cento dei soldati al fronte sparava contro il nemico ed in molti
di questi casi si sparava in aria. Percentuali analoghe sono state riscontrate
dall’esercito inglese nella guerra delle Falkland. A Gettysburg, dei 27.574
fucili recuperati, il 90 per cento non aveva sparato un sol colpo, ed altri
6000 avevano sparato solo qualche colpo. In uno scontro con gli Zulu, 12
pallottole inglesi su 13, pur sparate a bruciapelo, riuscirono a mancare il
bersaglio. A Rosebud Creek, nel 1876, furono sparate 252 pallottole per ogni
nativo americano colpito. Quando si abbandonano le chiacchiere e ci si affida
ai dati empirici, ai fatti, si scopre che quel che ci hanno fatto credere erano
sciocchezze.
Siamo violenti, siamo aggressivi, siamo egoisti, ma non
lo siano irrimediabilmente, non lo siamo incessantemente, spesso lo siamo contro
il nostro migliore istinto, contro “gli angeli migliori della nostra
natura”, diceva Lincoln.
Di norma, quindi, gli esseri umani non sono capaci di
uccidere un altro essere umano a distanza ravvicinata, neppure quando è in
gioco la loro stessa sopravvivenza. Il costo psicologico dell’uccidere un
proprio simile e, più in generale, del fare la guerra, è fatale alla psiche di
milioni di soldati. I soli Stati Uniti,
nella Seconda Guerra Mondiale, dovettero rimpatriare oltre mezzo milione di
uomini in seguito a collasso psichico. Dopo due mesi di combattimento continuo
il 98 per cento dei soldati subiva danni psicologici tali da ridurli ad uno
stato vegetativo. Le allarmanti statistiche sui suicidi, divorzi,
dipendenze, accattonaggio, ecc. tra i veterani del Vietnam parlano chiaro e
molti psicologi temono che l’uso di psicofarmaci in Iraq ed Afghanistan
produrrà un’epidemia di sociopatia tra i veterani.
Per questo gli strateghi consigliano di usare armi
automatiche, l’aviazione, armi a lunga gittata (obici, cannoni, missili) ed
armi robotiche. I fatti danno loro ragione: l’efficienza di combattimento è
cresciuta stabilmente. Insomma l’unico modo per convincere gli esseri umani ad
uccidersi tra loro è quello di robotizzarli e di distanziarli fisicamente e
psicologicamente il più possibile, oggettificandoli. Per poter fare la guerra una
società deve prima desensitivizzare e de-umanizzare chi la combatterà, nonché
il fronte interno. Si deve sopprimere l’empatia:
Chi è normale?
Le discipline scientifiche che si interessano della
specie umana hanno raggiunto un punto di convergenza nell’affermazione
dell’unicità dei singoli individui. Per la genetica ogni organismo è un
prodotto squisitamente univoco dell’interazione dei geni con l’ambiente in ogni
istante della vita di ciascuna persona. I genetisti di popolazione concordano
nel dire che se c’è da fare una suddivisione della specie umana, l’unica
distinzione netta e significativa è quella tra individui. I neurologi hanno
dimostrato che non esistono due cervelli che siano identici, neppure tra
gemelli omozigoti, perché le variazioni microscopiche di ogni cervello sono
enormi. Secondo i linguisti le parole e le frasi, nella loro struttura e
significato, hanno una storia che varia a seconda dell’esperienza e del
contesto di ciascuna persona. Insomma, l’evidenza empirica demolisce ogni tentativo
di essenzializzare e negare la straordinaria diversità dell’umano nelle sue
innumerevoli espressioni, cioè il suo fascino e bellezza. Idee e valori
personali potrebbero essere di enorme beneficio per la collettività, se fossero
re-indirizzati in una direzione costruttiva e non distruttiva.
Quel che conta è che, stando ai dati scientifici
disponibili, non esiste un’anima nera
dell’umanità. La malvagità, la crudeltà, l’egoismo, l’aggressività sono
fenomeni comuni all’intera specie ma in forme ed intensità sensibilmente
diverse, in diretta correlazione con il grado di soppressione dell’intelligenza
emozionale (cognizione sociale) e del pensiero morale, cioè dell’empatia – la
capacità di sentire e fare propri gli stati emotivi altrui – e della capacità
di prevedere le conseguenze delle proprie azioni. La propensione ad una
condotta morale deriva dalla capacità empatica ed è importante indirizzare la
nostra attenzione e i nostri sforzi in quella direzione.
Su questo pianeta
esistono decine di milioni di esseri umani completamente privi di empatia e
coscienza o con una coscienza residua, ridotta o menomata (narcisisti,
psicotici, psicopatici, sadici, istrionici, schizoidi, pedofili, ecc.). Sono nati così o lo sono
diventati in certi ambienti familiari caratterizzati da negligenza o abuso. Gli
individui privi di empatia si definiscono psicopatici:
Esistono diversi modelli eziologici che spiegano
l’insorgere della psicopatia, ma quello che mi convince di più considera la
psicopatia come una variazione estrema di certi tratti distintivi di una
personalità normale (qualunque sia il significato attribuibile a “normale”). È
altamente probabile che all’origine di questa patologia vi sia una disfunzione
o lesione del lobo frontale che determina la differenziazione tra
psicopatia/sociopatia congenita o acquisita. Non esistono stime univoche sulla
percentuale di psicopatici: il valore
oscilla tra il 2 per cento ed il 6 per cento della popolazione nei paesi del
Nord America e dell’Europa settentrionale e sembra diminuire gradualmente
procedendo oltre gli Urali e verso l’Africa o il Centro-America. Gli
psicopatici possono avere un grado elevato di intelligenza cognitiva ma sono
incapaci di interpretare gli stati emotivi altrui e di discriminare fra bene e male.
Pongono invariabilmente il proprio interesse davanti a tutto il resto. Di
conseguenza tendono ad essere seduttori,
bugiardi patologici, manipolatori, privi di scrupoli, rimorsi e di
autocontrollo, emotivamente superficiali, irresponsabili, sessualmente
promiscui, impulsivi, narcisi e megalomani. Insomma, sono dei perfetti
predatori di esseri umani che mirano ai più alti livelli di affermazione
sociale in termini di status e di potere. Il loro successo dipende dal grado di
tolleranza di una società nei confronti di questo tipo di personalità. Per
fortuna sono anche molto deboli nei ragionamenti contro-fattuali, quelli che
consentono di immaginare scenari alternativi derivanti da scelte
comportamentali diverse. Poiché non
riescono a visualizzare una sufficientemente ampia selezione di opzioni, è
possibile sfuggire alle loro trame.
Pur tenendo
conto del fatto che molti di noi non hanno le capacità e le competenze
necessarie a diagnosticare un disturbo mentale e che quindi non ha senso
etichettare questa o quella persona, bisogna comunque essere consapevoli del
fatto che il problema esiste. Secondo una dozzina di studi condotti in Nord America e
nell’Europa settentrionale e centrale, mediamente
fino al 14-15 per cento della popolazione soffre di disordini mentali,
spesso più di uno (ossessivo-compulsivi, schizoidi, paranoidi, antisociali,
dipendenti ed evitanti, istrionici, narcisisti, sadici e masochisti,
schizotipici, passivi-aggressivi, borderline). Quasi una persona su sette non è in grado di pensare obiettivamente
e vivere bene, serenamente. E queste statistiche non includono
anoressia, bulimia, psicopatia e i vari disordini psichici che limitano
drasticamente le normali attività delle persone.
La maggior parte delle persone non riesce a concepire
l’idea che altri esseri umani possano ragionare e sentire in un modo
sensibilmente diverso dal loro senza essere necessariamente “pazze”. È
altrettanto difficile accettare l’idea che le ideologie attivino solo ciò che è
latente. Non sono infatti le idee a
deformare la personalità di un individuo, ma il contrario. Le idee tirano
semplicemente fuori quel che di buono o cattivo c’è già dentro. Purtroppo
la maggior parte di noi ha bisogno di credere che tutto sia sotto controllo
perché la nostra autostima, la nostra psiche, necessitano di conferme, mentre
l’ammissione di errori di giudizio o di deficienze cognitive e morali
distruggerebbero le nostre fragili certezze e l’immagine di noi stessi che ci
siamo creati negli anni.
Come uccidere l’empatia in tre mosse
La pace si uccide sopprimendo l’empatia. La prima mossa è
quella di creare una rete di persone tendenzialmente anempatiche in un ambiente
tossico per l’empatia, cioè impregnato di stimoli esterni che indirizzano la
società verso una condizione di sociopatia prevalente. Chi ha letto le
sconvolgenti pagine della fondamentale ed informatissima inchiesta “Shock
economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri”, della giornalista canadese
Naomi Klein, non potrà fare a meno di
sospettare che l’assetto socio-economico della cosiddetta civiltà occidentale
renda più facile l’inserimento e la promozione di individui dalla coscienza
molto debole. Questi, favoriti dall’assenza di scrupoli e dal maniacale
perseguimento di obiettivi categorici, riescono ad esercitare un notevole ed
insospettato potere di influenza sulla società.
Contemporaneamente, questa
stessa civiltà sembra altresì votata a contribuire all’emergere di tendenze
psicopatiche o schizoidi in persone altrimenti psicologicamente “sane”.
Klein dimostra che i vizi e le dottrine di pochi hanno causato una buona fetta
del male nel mondo negli ultimi decenni. Stiamo parlando di esseri umani di
vasto potere ed ingenti risorse che si comportano esattamente come un branco di
avvoltoi o iene, avventandosi sull’animale ferito per scarnificarlo.
L’aggressione avviene attraverso guerre, colpi di stato, omicidi eccellenti,
torture, ricatti, indebitamenti coatti, controllo dell’informazione e
manipolazioni varie. Non è certamente un
male “banale”, quotidiano. Realisticamente, la maggior parte delle persone
non si comporterebbe così. Sono ricchi, sono istruiti ma commettono il male e
non sentono rimorsi. Non è falsa coscienza, è assenza di coscienza. Perché?
Numerosi studi sulla responsabilità imprenditoriale hanno rivelato che le multinazionali tendono a seguire le
logiche e norme di condotta tipiche degli psicopatici. Sono genuinamente
amorali, guidate unicamente dall’esigenza di generare profitto, programmate per
crescere costantemente e distruggere i concorrenti più deboli. Non appena il
sistema giuridico non può perseguirle, l’impunibilità si traduce in violazione
sistematica delle leggi e dei diritti. Gli esempi sono ormai innumerevoli.
In generale un essere umano si astiene dall’uccidere
qualcuno non perché ci siano leggi che lo vietano e puniscono gli assassini, ma
perché sa/sente che è sbagliato. Il giroscopio interiore della coscienza
stabilisce quali siano gli imperativi categorici e mantiene il più possibile
fisso il baricentro morale. Le grandi
aziende, specialmente le multinazionali, non possiedono questo senso morale ed
è legittimo chiedersi se ce lo abbiano le nazioni, per quanto intensi siano gli
sforzi di ammantarsi di una qualche legittimità superiore. È difficile
discernere la differenza tra l’esportazione della democrazia e quella di un
prodotto. Nel caso iracheno la differenza la fanno le centinaia di migliaia di
vittime.
Gli ambienti patogenetici come questo sono il terreno di
coltura ideale del fanatismo. Il fanatico, diceva George Santayana, “è un uomo
che raddoppia gli sforzi quando si dimentica dei fini”. Comune a tutti i
fanatici è l’amore per l’odio: “Odio, dunque sono”, oppure “ci odiano, dunque
siamo”. C’è il fanatico che non tollera critiche al governo perché sono
antipatriottiche e lui si identifica con la patria. C’è il fanatico che
denuncia complotti internazionali contro la sua terra, la sua fede, il suo
stile di vita (es. Eurabia). Ci sono poi i fanatici dalla “coscienza infelice”,
quelli che detestano il loro tempo e la gente che li circonda e si sentono
ostaggi nati troppo presto o troppo tardi. Vorrebbero stravolgere la loro
epoca, muovendo la storia in avanti più celermente, oppure ricreando il tempo
che fu, e sono disposti a sacrificare del “materiale umano” nel farlo. Ci sono
fanatici che credono che ciascuno di noi sia stato plasmato dalla propria
cultura e tradizione e che per questo esiste un rapporto quasi mistico tra noi
ed i nostri antenati che va preservato ad ogni costo. Ogni fanatico si ritiene prima di tutto una vittima – piccola, fragile
e vulnerabile – e per questo è innocente, puro ed infallibile per definizione.
Le vittime sono incolpevoli e non riconoscono o non si curano del dolore che
causano agli altri. Ma in fondo l’odio nasce proprio dal disprezzo per se
stessi e da un senso di colpa represso. Il fanatico ha bisogno di un nemico che
ripristini la fiducia in se stesso, nel significato della sua esistenza e nella
giustezza della sua casa. Perde di vista l’obiettività, confonde il bene con i
suoi desideri ed il male con tutto ciò che si oppone alla loro realizzazione,
si aggrappa al dogmatismo e rifugge il dialogo.
I politici più cinici e scaltri sanno fare buon uso dei
fanatici, che sono facilmente sedotti dalla trappola dell’autorità e potere. Li
asserviscono educandoli all’odio, che annulla la personalità ed impedisce la
comunicazione fra gli uomini, e li ricompensano con altro odio, un odio che ha
bisogno di essere costantemente alimentato, pena il rischio di rivolta contro i
loro stessi compagni d’odio o persino i loro capi. È un odio mistificante che
si fa passare per amore e lealtà, quando invece non è altro che l’impulso
egoistico e materialista di chi tenta disperatamente di garantirsi stabilità
psichica e la certezza della sopravvivenza fisica. I suoi sforzi sono condannati
al fallimento e svelano la sua mediocrità e l’ordinaria immoralità del suo
contesto, popolato da mostri – i nazionalismi, i razzismi, i campanilismi, gli
integralismi – che torcono l’anima delle loro vittime, per poi tramutarle in
carnefici. È fin troppo facile per noi esseri umani ripudiare un comportamento
morale razionalizzando le nostre azioni.
Il Golem
La seconda mossa necessaria ad ingannare l’opinione
pubblica incline alla pace ed indebolire l’empatia consiste proprio nel dar
vita ai summenzionati mostri ideologici, i golem. Abbiamo visto che in cima
alla piramide dell’iniquità risiedono solitamente gli individui cronicamente
privi di coscienza o dalla coscienza affievolita – a causa del mancato sviluppo
della corteccia cingolata anteriore o per ragioni biografiche (es. infanzia
traumatizzante).
Al livello inferiore s’incontrano i fanatici, quelli che
una coscienza ce l’hanno ma l’hanno consegnata ad un Moloch ideologico (Razza,
Etnia, Fede, Classe, Patria, Corporazione, ecc.).
Ancora più in basso sono collocati gli utili idioti, masse di conformisti de-individuati disposti a
servire il maschio-alfa o il “comune sentire”. Hanno una mentalità
autoritaria, quella di chi è forte coi deboli e debole coi forti. Anche il loro
è male, ma solo questo è il male
superficiale denunciato da Hannah Arendt, un male di ordine inferiore, appunto,
che si può spiegare antropologicamente e sociologicamente senza ricorrere alle
categorie della patologia mentale o dell’estremismo. Non sono fanatici o
psicopatici a tempo pieno, ma agiscono in un contesto che genera tendenze di
questo tipo. Sarebbero perfettamente in grado di comprendere i loro errori e
pentirsi, una volta che le circostanze lo consentissero.
Il problema è che troppe
persone continuano a credere che la Patria, lo Stato, l’Azienda, la Marca, la
Squadra siano entità reali, vive, animate, con una propria identità e
coscienza. Come umanizziamo gli animali, così antropomorfizziamo istituzioni,
imprese, organizzazioni, ecc., cioè oggetti ed astrazioni. Riversiamo
in loro affetti, risentimenti, sogni, aspettative, paure, desideri, ecc. e non
ci accorgiamo che non è diverso dal credere in Babbo Natale. Soprattutto, non
ci accorgiamo che ciascuno di questi
golem è un mortale nemico dell’empatia perché per sua natura tende a dividere,
a rendere le società più fredde, centripete, irreggimentate, rigide, turgide,
confinate.
I golem avversano la fluidità, la sensualità,
l’eterogenea frammentazione del reale, sono programmati per devivificare e
desensitivizzare la realtà, per narcotizzare l’empatia. I golem non amano la vita, perché questa scorre ed è promiscua,
mentre la società fredda è intransigentemente moralista, convinta di detenere
la verità definitiva, in tutta la sua interezza, di rappresentare la purezza,
l’autenticità assoluta, l’innocenza incarnata. Pur di vivere, pur di
preservare la sua forma materiale, l’amante delle astrazioni (patria, etnia,
lingua, cultura, società, stato, ecc.) tende a reificarle, a crederle vere,
concrete, tangibili, dotate di volontà e coscienza. Un muro di auto-inganni,
idolatria e feticci si frappone tra lui e la verità. Paradossalmente ed
autolesionisticamente si lega a ciò che non è mai stato vivo, nell’illusione
che lo sia. Tutto questo in luogo dell’amore per ciò che è vitale, spontaneo,
creativo, evolvente, caldo, amorevole, fluido, imprevedibile, cangiante,
liquido, sensuale, impuro, promiscuo come lo è la vita – panta rei, tutto
scorre.
Le società
calde, femminee, sono in perenne ebollizione, amano la complessità, la
pluralità, la malleabilità, la sofficità, la liquidità, la costante
trasformazione, l’ignoto e rifuggono ciò che è inturgidito, fisso, immobile,
definito, tassidermico, tassonomico, corazzato, aggressivo, granitico,
immutabile, ecc. Sono attratte dal vivente, dall’impulso vitale d’amore,
dall’integrazione del tutto.
I suddetti golem dipendono dal nostro consenso per la
loro esistenza; se non li rigenerassimo continuamente, si estinguerebbero.
Eppure non ce la sentiamo di lasciarli morire, lasciamo che assorbano le nostre
energie creative e vitali, ci lasciamo dominare da questi despoti, senza
ribellarci. Facciamo loro indossare delle maschere allegre e giovali, benevole
e rassicuranti, ma mostri sono e mostri rimarranno, perché è nella natura dello
scorpione pungere la rana che lo sta aiutando a guadare il corso d’acqua.
La sopravvivenza di questi mostri dipende dalla quantità
di energia che riescono a strappare a chi li venera. Sono espressioni di quella
forma di vita che nella lingua hopi si chiama Powaqqatsi “la vita che consuma le forze vitali di altri esseri per promuovere
la propria vita”. Sono come l’Anticristo di Solovev, che “credeva in Dio ma nel profondo del suo
cuore preferiva se stesso”.
L’adoratore del golem commette un grossolano errore di
falsa coscienza: percepisce un io insufflato, ma si tratta di un’illusione.
Beandosi della sua “meritata” grandezza, non muove un dito per irrobustire
l’individualità reale. Si autoinfantilizza e permette che il sistema ne tragga
beneficio, mantenendolo in quello stato per addomesticarlo meglio. Perde la
capacità di prendere le distanze, di ponderare la sua situazione e guardare la
società in cui vive con un certo distacco, con l’occhio di un forestiero o di
un nemico. Perde la capacità di essere un agente di pace e non di guerra. Finisce per lasciarsi arruolare in progetti
che non sono mai stati suoi, magari autodistruttivi, ma ai quali si accoda per
senso del dovere e sconfinata fiducia nella logica retrostante. È
l’alienazione finale: non è più sé
stesso, ma l’idea che qualcuno si è fatto di lui; è pronto per essere
sacrificato, magari in una guerra tra golem.
Il Terrore
Chi ha paura di morire non si cura della sorte del
prossimo, non si cura della pace. “E
quando tornate a casa, date una sberla a vostro figlio e ditegli è la sberla
del Ministro della Paura... guardatevi con sospetto, odiatevi, sparatevi...è
straordinario...”. Questa è una battuta tratta da uno sketch del magnifico Antonio Albanese, ma rappresenta
accuratamente la realtà. L’insicurezza induce alla regressione, la frustrazione
all’aggressività, l’ansia all’autoritarismo, sino all’insorgere delle dittature
che sanciscono quella che Fromm ha
chiamato la fuga dalla libertà, che è anche una fuga dalla pace. L’ex agente
dell’organizzazione clandestina Gladio, Vincenzo
Vinciguerra, ha svelato sotto giuramento qual è la terza mossa della
strategia volta all’annichilimento dell’empatia, ossia la disseminazione della
paura di morire: “Si dovevano attaccare
i civili, la gente, donne, bambini, persone innocenti, gente sconosciuta molto
lontana da ogni disegno politico. La ragione era alquanto semplice: costringere
... l’opinione pubblica a rivolgersi allo stato per chiedere maggiore sicurezza”.
Lo scaltro Agente di Guerra sa che i
golem operano al meglio solo se la parte “sana” della popolazione teme di
morire e perciò si aggrappa ai golem per fare in modo che la loro estinzione
non sia priva di significato.
La gente ha un’enorme paura della propria insignificanza,
della propria fragilità e vulnerabilità. Troppe persone non vedono
l’egocentrismo come un problema perché sono ossessionate dalla sopravvivenza
personale, che rimane l’obiettivo primario della nostra componente animale. Abbiamo paura di morire ed il modo
migliore di controllarci è attraverso il terrore (ed il senso di colpa).
Tutti noi ci troviamo a lottare per conciliare la realtà della nostra mortalità
fisica e la speranza (o fede) nell’immortalità dello spirito, in modo da
riaffermare il significato della nostra esistenza in un universo apparentemente
assurdo. I golem sono dei crudeli tiranni che produciamo per aprirci un varco
di senso in un cosmo apparentemente indifferente alle vicende umane e
soprattutto dall’oblio che segue il decesso di chi non ha lasciato un segno
indelebile nella storia.
Un antropologo statunitense, Ernest Becker, ha esaminato
questo secondo fattore, la paura dell’estinzione fisica e storica, ed è giunto
alla conclusione che molte delle nostre azioni sono dettate dalla necessità di
produrre un’interconnessione di significati e simbologie in grado di generare
l’illusione della trascendenza della morte (Becker, 1982). Quindi non si tratta
della semplice reazione di chi si sente fisicamente vulnerabile. Tutti noi
vogliamo che la nostra esistenza abbia un senso, che conti qualcosa, che dia un
contributo significativo ad un’entità durevole – la Chiesa, la Scienza,
l’Etnia, la Società, la Razza, la Nazione o la Patria, la Comunità, la Cultura,
l’Arte, la Rivoluzione, la Storia, l’Umanità, la Professione, ecc. – e la
prospettiva della nostra morte rende quest’esigenza ancora più pressante.
Scrivere un libro di successo può essere un buon modo di placare l’ansia
esistenziale, ma in generale si opta per la fusione delle identità personali in
miti collettivizzanti – progetti
d’immortalità – che negano la morte: l’ossessione per l’estinzione della
propria cultura ed identità di popolo coincide con l’ossessione per la propria
morte e per la possibile mancanza di significato della propria esistenza e
dell’ordine cosmico. Il culto per le
celebrità rappresenta forse, inconsciamente, un mezzo per continuare a vivere
fondendosi nel mito dell’eroe, sperando di acquisirne le proprietà magiche
della permanenza ed invulnerabilità. Il problema è che questi progetti di
immortalità sono indissociabili dall’affermazione di una verità assoluta che ci
gonfia di un orgoglio narcisistico ed acritico e ci scherma da prospettive
alternative, giudicate invariabilmente false, spingendoci ad attaccare i promotori di sistemi di
immortalità diversi dai nostri. È la guerra.
Difendere l’umanità dai suoi detrattori
Come si contrastano le strategie empatocide? Come si
possono tutelare delle oasi di pace negli anni a venire? Abbiamo una vera
scelta? C’è sempre una scelta, anche se ci conforta l’illusione che sia tutto
predeterminato o troppo più vasto e potente di noi per subire la nostra
influenza. Innanzitutto è indispensabile
astenersi dal dare ai loro corifei e paladini ciò che vogliono, ciò che
pretendono, in special modo la nostra anima. La crudeltà, la tortura
distruggono la coscienza/anima dei responsabili e feriscono quella delle
vittime. Occorre mantenere le distanze, per quanto possibile. L’antropologo
francese René Girard ci ricorda che non si deve mai scherzare col fuoco: “Hanno la violenza dalla loro, ma non
possono esercitarla apertamente. L’importante è ottenere il libero consenso
della vittima al suo supplizio – spezzare la resistenza di Giobbe, ma senza
costrizione apparente – l’esigenza di una vittima consenziente caratterizza
tanto il totalitarismo moderno quanto certe forme religiose e parareligiose del
mondo primitivo”. Per questo è essenziale giovarsi della nostra
conoscenza del fenomeno per auto-immunizzarci.
La ponerocrazia, il “governo dei malvagi” (dal greco
ponēros, “malvagio, nocivo”), odia visceralmente la vita spirituale ed odia
l’empatia, che è l’alimento della vita più elevata, quella spirituale. Dunque
si può sconfiggere attraverso l’amore
per l’umanità, la coscienza e la natura, l’integrità (la volontà di essere
onesti con se stessi e con gli altri rispetto alle proprie motivazioni),
l’indipendenza di giudizio, la forza di volontà, l’assertività e la libertà,
l’immedesimazione nell’altro e non la proiezione della propria auto-percezione
nell’altro. Si devono coltivare il senso di indignazione, di oltraggio, di risentimento
di fronte ad infamie ed ingiustizie. Si deve ricercare la giustizia e tutelare
il libero arbitrio. La volontà di seguire la voce della ragione, della
conoscenza e della coscienza contro la voce delle passioni irrazionali è
l’unica che ci permetta di approssimare la verità, la comprensione obiettiva
della realtà e del proprio ruolo in essa. Bisogna cercare la verità sopra ogni
altra cosa. La vigilanza, la circospezione e la curiosità, che portano alla
conoscenza, sono la nostra miglior difesa, l’autocompiacimento il nostro tallone
d’Achille.
La conoscenza ci protegge perché più si conosce, meno si
ha paura, meno ci si angoscia e meno pericoli si corrono perché si capisce cosa
sia necessario per proteggersi. La
conoscenza è sconfinata, non ha limiti, dunque il suo valore è infinito.
La conoscenza ci fa capire che è nostro preciso dovere difenderci dai bulli, se non vogliamo che
siano loro a determinare il futuro della nostra specie e della nostra civiltà:
http://www.informarexresistere.fr/2012/01/02/la-collera-dei-miti-sullimmoralita-di-pacifismo-e-nonviolenza/#axzz1iZkF2V7T
L’albero che volle farsi artigiano e l’artigiano che sciolse le sue catene
L’albero che volle farsi artigiano e l’artigiano che sciolse le sue catene
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