Nel 1918 non si
poteva parlare di un anti-semitismo diffuso. Mi ricordo ancora le difficoltà
che incontrava chi anche solo si azzardava a pronunziare la parola “ebreo”.
Rimanevano a bocca aperta o reagivano violentemente. I nostri primi tentativi
di far capire alla gente chi era il vero nemico parevano senza speranza.
Adolf Hitler, Mein Kampf
Conviene…esaminare
spassionatamente anzi: sospettosamente quali germi di totalitarismo, di
intolleranza, di perdita della ragione, di violenza e di esclusivismo si
possano nascondere dietro ogni grande idea o causa che si pretenda generosa o
umanitaria o addirittura salvifica.
Alexander Langer
Non è mai stato effettuato uno studio approfondito
dell’antisemitismo e del razzismo in Trentino. Un vero peccato, perché il
materiale abbonda (Antonelli, 1981; Rasera, 1986; Steurer / Rasera, 1988). Lo
storico roveretano Fabrizio Rasera terminava il suo saggio con queste parole:
“Se avessimo lo stomaco sufficientemente forte per sopportare la lettura di
tanta cartaccia ripugnante, questa controstoria in nero la faremmo volentieri”.
Ha perfettamente ragione, lo stomaco dev’essere molto ma molto robusto, perché
l’olezzo del liquame è appena sopportabile. Il lavoro di Antonelli ne contiene
già a sufficienza, da far impallidire Julius Streicher, editore nazista del
famigerato settimanale “Der Stürmer”. Un secolo fa, il giornale cattolico
trentino “Fede e Lavoro” impiegava toni, improperi, minacce, metafore,
simbolismi, terminologie scatologiche che siamo abituati ad associare all’estremismo
di destra più retrivo. La stampa cattolica locale, impegnata con tutta l’anima
a combattere “la camorra giudaico-massonica-liberale-socialista” descrive i
socialisti come “putredine”, “bestie che scrivono”, “porci”, “vampiri degli
operai”, “rosticceri di carne umana”, “sgualdrine socialiste”, “canaglia degna
della fogna”, “protoplasma dell’uomo primitivo”, ”maiali più che uomini”,
“razza di vipere”. Dirsi liberali “è più peccato che chiamarsi o l’essere
bestemmiatore, ladro, adultero, od omicida, o qualunque altro malfattore”
(Antonelli, 1981, p. 61). Gli Ebrei sono intrinsecamente malvagi e traditori,
perché “sono stranieri nella nazione dove vivono e quindi non sono interessati
al suo sviluppo e anzi pronti a tradirla”. Strumenti del demonio, dissanguano i
cristiani (cf. Simonino) ed hanno ordito un complotto internazionale per
scristianizzare il mondo. I cristiani, invece, coerentemente con la scelta di
raffigurare il dibattito locale come uno scontro apocalittico, sono
“commilitoni” e “valorosi”, “colla bandiera alla testa del poderoso esercito di
Dio”, “consegnati in caserma pronti all’assalto”, guidati dal “Vicario di
Cristo che è il nostro Duce supremo”, “armi in resta, coraggio indomito nel
cuore”, in una “falange irremovibile”, pronti a “marciare alla conquista dei
pubblici poteri al fine di salvaguardare i diritti religiosi, nazionali ed
economici del nostro popolo”. La laicità ed il socialismo sono una “malattia”,
una “pestilenza”, “un’infezione morale”, “il germe del rancore e dell’odio, il
microbo della fatale corruzione”, un “contagio”, un “morbo”, “un’erbaccia
pestifera”. Per salvare il corpo sociale cattolico occorre “entrare nelle
nostre valli, rigogliose nella loro naturale bellezza. Succhiamo il sangue puro
di quelle arterie vitali del paese e portiamolo al cuore languente!”
Il feroce, livoroso antisemitismo della stampa cattolica
trentina incuriosisce almeno quanto disgusta, perché si diffonde in migliaia di
copie in una terra abbandonata dagli Ebrei dopo il 1475, per protesta contro le
torture e la feroce uccisione di alcuni membri della comunità israelita locale,
falsamente incolpati della morte di un bambino, il piccolo Simone, poi
diventato oggetto del culto al beato Simonino. Un culto la cui persistenza è
particolarmente significativa, perché solleva non solo la questione del
razzismo e dell’intolleranza in una terra che, dopo le guerre mondiali, si è
fatta paladina della pace e della solidarietà, ma anche quella della
legittimità della tortura, quella vera e propria pestilenza della coscienza
umana. È simbolicamente inquietante che si celebrasse il martire Simonino
proprio il giorno del massacro delle Fosse Ardeatine (1944), per commemorare un
bambino morto il giorno della fondazione del partito fascista (1919) e della
presa del potere dittatoriale di Hitler (1933). Sono i corsi e ricorsi del
“Male”. La stampa cattolica trentina del tempo, con la sua ossessione per
l’idra giudaicomassoneliberalsocialista e i suoi riferimenti diretti ai
famigerati “Protocolli dei Savi di Sion”, preparò idealmente il terreno per un
potere che non si faceva troppi scrupoli nel neutralizzare i dissenzienti.
Fin troppo numerosi erano gli articoli intrisi di
antisemitismo di “La Voce Cattolica” (di cui fu direttore Alcide De Gasperi),
“Fede e Lavoro”, “Il Trentino” e “La quindicina internazionale”, ai quali
collaborò lo stesso De Gasperi. Gli scritti e discorsi giovanili del padre
dell’autonomia trentina, non lasciano dubbi sul peso che esercitò su di lui
l’influenza reazionaria ed antisemita del borgomastro di Vienna, Karl Lueger, e
degli ambienti cattolici nostrani e romani (De Gasperi, 1964; Valente, 2003;
Conze / Corni / Pombeni, 2005). Alcuni estratti esemplificativi. Un’indicazione
della feroce lotta sindacale tra cattolici e socialisti: “Noi non siamo contro
gli ebrei, perché d’altra religione e d’altra razza, ma dobbiamo opporci
ch’essi, coi loro denari, mettano il giogo degli schiavi sui cristiani. Quando
in Austria cominciò la riscossa contro il capitalismo monopolizzato dagli
ebrei, fu dannoso alla causa degli operai il vedere gli ebrei impadronirsi
della rappresentanza dei loro interessi”. Un interessante parallelo tra Roma e
Cartagine, interessante perché Cartagine fu vittima, nel migliore dei casi, di
una metodica pulizia etnica e, nel peggiore, del primo genocidio documentato
della storia: “Non saprei meglio caratterizzare le due armate in campo che
paragonarle alla guerra fra Roma e Cartagine...Da una parte i cittadini
viennesi, i professionisti, gli artigiani, il popolo onesto che lavora e i
contadini della campagna che combattono per le mura avite e il focolare
paterno, cioè Roma. Dall’altra i semiti di Cartagine, i capitalisti che hanno
assoldato un esercito di mercenari, il cui grosso è formato dal proletario
socialista internazionale... I rappresentanti dell’oro e della bancarotta
politica, i fabbricatori della pubblica opinione, i padroni della borsa sono
l’etichetta degli altri, che il vero nome è Allianz Israelit... Il loro capo è
l’ebreo Ellenbogen. Dall’altra parte lo schieramento cristiano-sociale che ha
assestato i colpi più fieri al capitalismo ebreo e ha introdotto il crocifisso
nelle scuole, le monache negli ospedali, ha licenziato i maestri socialisti”.
Wilhelm Ellebogen medico e politico socialdemocratico austriaco, propugnatore
del suffragio universale, della tutela dei lavoratori e di quei diritti civili
che oggi si danno per scontati, e per questo detestato da Karl Lueger, che
minacciò anche dei pogrom anti-ebraici sull’esempio russo se gli Ebrei avessero
continuato a sostenere la sinistra. È utile sapere che, in quegli stessi
frangenti, nel 1908, in
quella Vienna tendenzialmente ostile ai residenti ebrei, slavi ed italiani in
cui Adolf Hitler costruì la sua coscienza politica, fu avanzata la proposta di
tatuare un numero sul braccio di ogni Rom per prevenire eventuali borseggi
durante una parata in onore dell’imperatore (Hamann, 1998). Ancora De Gasperi
sul complotto giudeo-positivista-socialista: “La storia austriaca
dell’Ottocento riassume ancora una volta la questione ebraica come
discriminazione essenziale. Quando la giovane Europa conquistò dalle barricate
la lotta politica, trovò che l’ebreo Carlo Marx aveva già fondato la Lega dei
comunisti, che l’ebreo Lasalle aveva già un esercito in assetto di guerra, che
l’ebreo Heinrich Heinecken e le colte ebree dominavano già nella letteratura ed
ebrei dominavano nella industria libraria e una pleiade di professori ebrei
avevano già conquistato le cattedre della scienza”. L’ebreo austriaco è
generalmente slavo, il che lo squalifica ancora di più agli occhi di De
Gasperi: “Va esaltata la lotta contro lo straniero e l’ebreo immigrato dalla
Galizia e dalla Russia, questo popolo senza patria e senza diritti”. In una
sinistra anticipazione delle misure punitive contro gli Ebrei austriaci dopo
l’Anschluss: “La liquidazione delle fortune ebraiche allarga le prospettive
degli affari per gli altri e i posti di avvocati e di medici rimasti vacanti
aprono uno sfogo alle carriere”. Infine, nel 1938, mentre lavora alla
Biblioteca vaticana, collaborando con il periodico “Illustrazione Vaticana”,
sotto lo pseudonimo di Spectator, auspica che “che il razzismo italiano si
attui in provvedimenti concreti di difesa e valorizzazione della nazione”.
Lo storico Paolo Pombeni, uno dei curatori del volume “Alcide
De Gasperi: un percorso europeo”, ha affermato che, a questo proposito, “non si
può parlare di antisemitismo, per il semplice motivo che certe convinzioni
erano patrimonio comune di un ambiente in cui De Gasperi si era formato.
Ricordo che fino agli anni Sessanta a Trento è stato diffuso il culto del
Simonino, basato sul clamoroso falso storico di un bambino che sarebbe stato
assassinato ritualmente dagli ebrei. E nella Vienna d’inizio secolo dei
cristiano-sociali era ampiamente diffusa l'intolleranza verso un gruppo che
rappresentava la modernità, il cosmopolitismo e che inficiava le sicurezze
della tradizione”. Naturalmente, seguendo la medesima logica, non sarebbe
antisemitismo neppure quello del giovane Hitler, cresciuto nello stesso
ambiente. Queste parole di De Gasperi, che però, a differenza di Hitler, avrà
modo di riscattarsi abbondantemente, contribuendo in modo determinante a
proteggere l’Italia del dopoguerra da derive reazionarie (Sale, 2005),
dimostrano invece che il razzismo culturalista non è meno ributtante di quello
biologico-mistico del nazismo (Trinchese, 2006). In occasione dell’incontro sul
tema “De Gasperi, il Trentino, l’Europa”, lo storico trentino Giuseppe
Ferrandi, direttore della Fondazione Museo Storico in Trento, ha correttamente
spiegato che “le pagine antisemite di De Gasperi vanno lette nella lotta di
inizio novecento tra cattolici e socialisti. L’antisemitismo era uno degli
elementi forti della polemica antisocialista. Poi sono del parere che una
figura come quella di De Gasperi vada letta nella sua totalità, senza
omissioni, anche nelle ombre, nei condizionamenti politici che pure ci sono
stati”.
Bisogna capire perché due persone così radicalmente
diverse come De Gasperi e Hitler potessero condividere questo tipo di prospettiva
nei confronti di una minoranza, perché un chiarimento in tal senso potrebbe
rivelarsi utile alla difesa delle minoranze dei nostri giorni. Il De Gasperi
del periodo viennese deplorava le trasformazioni che avevano interessato la
terra che gli aveva dato i natali: “un paese negli abitanti dei suoi monti
cattolico, nelle sue classi colte, nella borghesia, in genere, pagano”. De
Gasperi aborriva la laicità, la modernizzazione, la progressiva
scristianizzazione della società in cui viveva, l’ascesa del socialismo ed
accusava gli Ebrei di essere dietro tutto questo (Pombeni, 2007). Condivideva
la propensione dei conservatori austriaci e di una corposa porzione del
cattolicesimo (Finzi, 1997) a prendersela con i socialisti ebrei, allo stesso
modo in cui i nazionalisti se la prendevano con i cosmopoliti ebrei, i
socialisti con i capitalisti ebrei e gli stessi ebrei assimilati con gli ebrei
integralisti e sionisti, mentre questi ultimi condannavano i primi, per aver
tradito l’ebraismo. L’antisemitismo funziona perché è astratto e perché il
bersaglio è una minoranza diffusa nella società. Meno Ebrei in carne ed ossa
s’incontrano, più facile è rafforzare lo stereotipo dell’Ebreo incarnazione di
tutti i mali della modernità. Fu il caso del Trentino, dove pure la presenza
ebraica era virtualmente inesistente e dove l’ “affaire Dreyfus” ebbe una
rinomanza enorme, visto che ancora oggi si sente l’espressione “l’affare
draifus” (sic!) in luogo di “sto affare”, “sta cosa”. In Trentino, come
altrove, l’antisemitismo rappresentò presumibilmente la reazione di animi
insicuri, alle prese con la globalizzazione generata dall’imperialismo europeo
e con un lancinante senso di anomia, di disgregamento delle norme tradizionali,
di cambiamento inarrestabile, percepito come inevitabilmente deleterio. Una
risposta che nacque dall’impatto improvviso ed inatteso su un comune sostrato
rurale di ideologie eminentemente urbane e borghesi che, proprio in virtù del
loro universalismo, non potevano che cercare di convertire, volenti o nolenti,
dei contadini peraltro gelosi delle proprie autonomie e tendenzialmente
autoritari. Ora, poiché l’identità collettiva era indissolubilmente legata al
sostrato rurale, l’esito finale fu l’emergere di un populismo ruralista che
cercava di individuare la quadratura del cerchio nella mediazione tra virtù
contadine, viste come indispensabili per la coesione nazionale, e spinte
emancipatorie provenienti dal mercato e dalla pur limitata società civile.
Purtroppo questo significò importare nella costellazione di attributi
dell’identità nazionale anche un bagaglio ideologico radicalmente ostile alla
modernità fluida, o liquida che dir si voglia. Mi riferisco al mantra del
sangue e del suolo ed al diffuso disprezzo per gli intellettuali e per quei
popoli trans-territoriali, liminali, come gli Ebrei, i Sinti ed i Rom, i
Tattare e i Sami (Svezia), i Karrner, gli Anabattisti/Hutteriti ed i Valdesi
(in Tirolo e nelle Alpi piemontesi), ecc., che non mostravano alcuna lealtà nei
confronti del territorio e che perciò venivano giudicati come impuri e trattati
come tali. Questa visione piuttosto peculiare della natura e della società
umana – un tipo di radicalismo reazionario, appunto – si frappose ad ogni
tentativo di costruire una società aperta e per ciò stesso plurale.
La democrazia liberale era percepita come brutta,
sformata, caotica, sciatta, scialba, non eroica, improvvisata, incoerente,
fluida, mediocre. Non c’era paragone con l’Arcadia del Bel-Tempo-Che-Fu, che
ogni autentico reazionario vorrebbe ricreare nel presente, in ossequio ad un
giudizio estetico che è anche bisogno psicologico: la globalizzazione
cosmopolita confonde e nel contempo omologa – si sostiene – in un magma
irrisolto e indefinito. L’utopismo e l’arcadismo sono sistemi di valori che
collocano l’armonia al loro centro: armonia dell’anima, di ciascuno con gli
altri, di ciascuno nella società nel suo complesso. Non c’è margine, non c’è
distanziamento tra appetito e sua soddisfazione, tra precetto ed propensione,
tra obbligo e azione. S’incontra un criterio estetico laddove uno si
aspetterebbe di trovarne uno etico, con grave nocumento per la causa della
giustizia.
C’è chi preferisce linee nette e precise, confini ben
tracciati, colori ordinatamente disposti sulla tavolozza, al punto da vederli
in un passato che non è mai stato come se lo ricorda. C’è chi preferisce
credere che questi siano i canoni estetici corretti, che non esistano altri
modi di ammirare la bellezza, che la bellezza stessa è una, ordinata e
prevedibile. In molti, forse in tutti noi, alligna un’estetica dualista,
manichea, che aborre nuance, ibridità, indeterminatezza, sincretismi,
commistioni e fusioni. Ma non in tutti questa pulsione comprime ad un punto
tale le coscienze, da indurre alla richiesta di un’autorità disciplinatrice e
paternalistica, che addomestichi tutti i cittadini (benevolmente e “per il loro
bene”), inquadrandoli in una composizione il più possibile esteticamente
attraente, ossia inequivocabile ed autentica; penalizzando i comportamenti
trasgressivi e “fuori luogo” di chi non è privilegiato. Nella falsa che le
persone, se lasciate a se stesse, siano condannate al degrado,
all’abbrutimento, alla sciatteria, all’immoralità, alla volgarità, allo spreco
e, quindi, alla bruttezza e disarmonia, mettendo a repentaglio gli sforzi dei
fini esteti che governano l’Arcadia. Le persone vanno prese per mano per
salvarle da un istinto che altrimenti le porterebbe ad esplicitare la loro
naturale bruttezza ed indocile irrequietezza. Così si passa dall’idillio
dell’arcadia comunitaria all’utopia tecnocratica che, paradossalmente, dovrebbe
preservare la società dagli inquinanti della modernità. Il comune denominatore
è quello della semplicità (cioè dell’autenticità). Dall’ideale della semplicità
rustica del mondo agreste a quello della semplicità degli automatismi della
società digitale, una transizione che era già stata preparata dall’utopismo
rinascimentale della città ideale di Campanella, Alberti, Palladio, Filerete,
Vasari, di Giorgio e Leonardo (e prima ancora di Vitruvio), la Civitas Solis,
che fonde etica ed estetica (in greco kalokagathia). L’armonia
dell’architettura urbana avrebbero reso virtuosi gli abitanti di una società
ugualmente armoniosa “unita nel pensiero e nell’azione”. L’utopia
pastorale-arcadica come preludio all’utopia dirigistico-efficientista, nella
comune esaltazione di modi di vita semplici e frugali, il conseguente disprezzo
del lusso (moralismo ascetico), l’apprezzamento del “valore-lavoro”, il
vagheggiamento di un edificio politico fatto di solide armonie, di giuste ed
invariabili proporzioni, l’aspirazione umana all’unità, semplicità, sicurezza,
prosperità, serenità (quieta e stabile felicità), pace, virtù, prossimità agli
dèi, a Dio, all’Ordine, espressione del mito dell’eterno ritorno e del
desiderio del ritorno nel grembo materno. L’utopia, come l’arcadia, è il regno
della luce, dell’ortodossia più feroce: non può esistere un’utopia migliore e
quindi l’alterità cela in sé i germi della violenza, della sovversione,
dell’annichilimento. L’Ebreo è la personificazione di tutto ciò che si oppone
all’estetica dell’Arcadia e dell’Utopia e come tale va combattuto, perché la
società va salvaguardata da tutto ciò che mira alla sua disintegrazione. Nasce
la paura del contagio. Dall’Altro ci si protegge con l’isolamento xenofobico,
l’ostracismo, la violenza e la “guerra giusta”. La prospettiva di un mondo
futuro senza peccato, senza iniquità, senza sofferenza, dove il progresso
morale si accompagna a quello materiale giustifica la fratellanza per
coercizione e l’uguaglianza per imposizione. Una società di eguali, dove
l’uguaglianza è conseguenza di un’unanimità indiscussa ed offre ai cittadini
una facciata rispettabile dietro cui nascondere la paura della variabilità,
dell’incerto, dell’originale, del dissenso.
Simbolicamente, Utopia e Arcadia sono rappresentate
dall’isola, dal muro di cinta, dall’orologio che scandisce il mancato passaggio
del tempo in armonia con le leggi cosmiche, sincronizzando corpi e menti.
All’universo non è permesso di diventare diverso da quello che è. Nelle utopie
non si distingue tra somiglianza ed uguaglianza, intesi come equivalenti, e per
questo diviene possibile rappresentare il passato, il presente ed il futuro
monocromaticamente, come una transizione senza soluzione di continuità tra
Arcadia e Utopia. Nella Germania nazista questo processo di allineamento
sincronico si chiamava Gleichschaltung, un meccanismo autocinetico che
produceva incessantemente conformismo per consentire al potere di riprodursi
uguale a se stesso, per un intero millennio, secondo le aspettative dei fautori
del Reich millenario. Un’osservazione del filosofo francese Raymond Ruyer, che
fu prigioniero di guerra in Germania, è molto opportuna: il nazismo fu senza
dubbio “l’emergere in politica di un’utopia preparata da molto tempo in tutto
il pensiero tedesco” (Ruyer, 1950). Purtroppo, l’assuefazione dei cittadini
ebrei a quel basso continuo di retorica razzista impedì a molti di loro di
capire che i nazisti non si sarebbero limitati a parlare, ma intendevano
passare ai fatti (Pauley, 1992).
2 commenti:
Insomma, un bel pezzo di destro questo nostro Degasperi :-)
Bell'articolo, alla fine DeGasperi ne viene fuori anche bene... però alla fine schiarisce un bel po di dubbi che non mi ero mai posto...
Sempre attento Stefano...
Diaolin
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