domenica 23 ottobre 2011

Alcide Degasperi, l’Ebreo Errante e l’Arcadia trentina



Nel 1918 non si poteva parlare di un anti-semitismo diffuso. Mi ricordo ancora le difficoltà che incontrava chi anche solo si azzardava a pronunziare la parola “ebreo”. Rimanevano a bocca aperta o reagivano violentemente. I nostri primi tentativi di far capire alla gente chi era il vero nemico parevano senza speranza.
Adolf Hitler, Mein Kampf

Conviene…esaminare spassionatamente anzi: sospettosamente quali germi di totalitarismo, di intolleranza, di perdita della ragione, di violenza e di esclusivismo si possano nascondere dietro ogni grande idea o causa che si pretenda generosa o umanitaria o addirittura salvifica.
Alexander Langer

Non è mai stato effettuato uno studio approfondito dell’antisemitismo e del razzismo in Trentino. Un vero peccato, perché il materiale abbonda (Antonelli, 1981; Rasera, 1986; Steurer / Rasera, 1988). Lo storico roveretano Fabrizio Rasera terminava il suo saggio con queste parole: “Se avessimo lo stomaco sufficientemente forte per sopportare la lettura di tanta cartaccia ripugnante, questa controstoria in nero la faremmo volentieri”. Ha perfettamente ragione, lo stomaco dev’essere molto ma molto robusto, perché l’olezzo del liquame è appena sopportabile. Il lavoro di Antonelli ne contiene già a sufficienza, da far impallidire Julius Streicher, editore nazista del famigerato settimanale “Der Stürmer”. Un secolo fa, il giornale cattolico trentino “Fede e Lavoro” impiegava toni, improperi, minacce, metafore, simbolismi, terminologie scatologiche che siamo abituati ad associare all’estremismo di destra più retrivo. La stampa cattolica locale, impegnata con tutta l’anima a combattere “la camorra giudaico-massonica-liberale-socialista” descrive i socialisti come “putredine”, “bestie che scrivono”, “porci”, “vampiri degli operai”, “rosticceri di carne umana”, “sgualdrine socialiste”, “canaglia degna della fogna”, “protoplasma dell’uomo primitivo”, ”maiali più che uomini”, “razza di vipere”. Dirsi liberali “è più peccato che chiamarsi o l’essere bestemmiatore, ladro, adultero, od omicida, o qualunque altro malfattore” (Antonelli, 1981, p. 61). Gli Ebrei sono intrinsecamente malvagi e traditori, perché “sono stranieri nella nazione dove vivono e quindi non sono interessati al suo sviluppo e anzi pronti a tradirla”. Strumenti del demonio, dissanguano i cristiani (cf. Simonino) ed hanno ordito un complotto internazionale per scristianizzare il mondo. I cristiani, invece, coerentemente con la scelta di raffigurare il dibattito locale come uno scontro apocalittico, sono “commilitoni” e “valorosi”, “colla bandiera alla testa del poderoso esercito di Dio”, “consegnati in caserma pronti all’assalto”, guidati dal “Vicario di Cristo che è il nostro Duce supremo”, “armi in resta, coraggio indomito nel cuore”, in una “falange irremovibile”, pronti a “marciare alla conquista dei pubblici poteri al fine di salvaguardare i diritti religiosi, nazionali ed economici del nostro popolo”. La laicità ed il socialismo sono una “malattia”, una “pestilenza”, “un’infezione morale”, “il germe del rancore e dell’odio, il microbo della fatale corruzione”, un “contagio”, un “morbo”, “un’erbaccia pestifera”. Per salvare il corpo sociale cattolico occorre “entrare nelle nostre valli, rigogliose nella loro naturale bellezza. Succhiamo il sangue puro di quelle arterie vitali del paese e portiamolo al cuore languente!”
Il feroce, livoroso antisemitismo della stampa cattolica trentina incuriosisce almeno quanto disgusta, perché si diffonde in migliaia di copie in una terra abbandonata dagli Ebrei dopo il 1475, per protesta contro le torture e la feroce uccisione di alcuni membri della comunità israelita locale, falsamente incolpati della morte di un bambino, il piccolo Simone, poi diventato oggetto del culto al beato Simonino. Un culto la cui persistenza è particolarmente significativa, perché solleva non solo la questione del razzismo e dell’intolleranza in una terra che, dopo le guerre mondiali, si è fatta paladina della pace e della solidarietà, ma anche quella della legittimità della tortura, quella vera e propria pestilenza della coscienza umana. È simbolicamente inquietante che si celebrasse il martire Simonino proprio il giorno del massacro delle Fosse Ardeatine (1944), per commemorare un bambino morto il giorno della fondazione del partito fascista (1919) e della presa del potere dittatoriale di Hitler (1933). Sono i corsi e ricorsi del “Male”. La stampa cattolica trentina del tempo, con la sua ossessione per l’idra giudaicomassoneliberalsocialista e i suoi riferimenti diretti ai famigerati “Protocolli dei Savi di Sion”, preparò idealmente il terreno per un potere che non si faceva troppi scrupoli nel neutralizzare i dissenzienti.
Fin troppo numerosi erano gli articoli intrisi di antisemitismo di “La Voce Cattolica” (di cui fu direttore Alcide De Gasperi), “Fede e Lavoro”, “Il Trentino” e “La quindicina internazionale”, ai quali collaborò lo stesso De Gasperi. Gli scritti e discorsi giovanili del padre dell’autonomia trentina, non lasciano dubbi sul peso che esercitò su di lui l’influenza reazionaria ed antisemita del borgomastro di Vienna, Karl Lueger, e degli ambienti cattolici nostrani e romani (De Gasperi, 1964; Valente, 2003; Conze / Corni / Pombeni, 2005). Alcuni estratti esemplificativi. Un’indicazione della feroce lotta sindacale tra cattolici e socialisti: “Noi non siamo contro gli ebrei, perché d’altra religione e d’altra razza, ma dobbiamo opporci ch’essi, coi loro denari, mettano il giogo degli schiavi sui cristiani. Quando in Austria cominciò la riscossa contro il capitalismo monopolizzato dagli ebrei, fu dannoso alla causa degli operai il vedere gli ebrei impadronirsi della rappresentanza dei loro interessi”. Un interessante parallelo tra Roma e Cartagine, interessante perché Cartagine fu vittima, nel migliore dei casi, di una metodica pulizia etnica e, nel peggiore, del primo genocidio documentato della storia: “Non saprei meglio caratterizzare le due armate in campo che paragonarle alla guerra fra Roma e Cartagine...Da una parte i cittadini viennesi, i professionisti, gli artigiani, il popolo onesto che lavora e i contadini della campagna che combattono per le mura avite e il focolare paterno, cioè Roma. Dall’altra i semiti di Cartagine, i capitalisti che hanno assoldato un esercito di mercenari, il cui grosso è formato dal proletario socialista internazionale... I rappresentanti dell’oro e della bancarotta politica, i fabbricatori della pubblica opinione, i padroni della borsa sono l’etichetta degli altri, che il vero nome è Allianz Israelit... Il loro capo è l’ebreo Ellenbogen. Dall’altra parte lo schieramento cristiano-sociale che ha assestato i colpi più fieri al capitalismo ebreo e ha introdotto il crocifisso nelle scuole, le monache negli ospedali, ha licenziato i maestri socialisti”. Wilhelm Ellebogen medico e politico socialdemocratico austriaco, propugnatore del suffragio universale, della tutela dei lavoratori e di quei diritti civili che oggi si danno per scontati, e per questo detestato da Karl Lueger, che minacciò anche dei pogrom anti-ebraici sull’esempio russo se gli Ebrei avessero continuato a sostenere la sinistra. È utile sapere che, in quegli stessi frangenti, nel 1908, in quella Vienna tendenzialmente ostile ai residenti ebrei, slavi ed italiani in cui Adolf Hitler costruì la sua coscienza politica, fu avanzata la proposta di tatuare un numero sul braccio di ogni Rom per prevenire eventuali borseggi durante una parata in onore dell’imperatore (Hamann, 1998). Ancora De Gasperi sul complotto giudeo-positivista-socialista: “La storia austriaca dell’Ottocento riassume ancora una volta la questione ebraica come discriminazione essenziale. Quando la giovane Europa conquistò dalle barricate la lotta politica, trovò che l’ebreo Carlo Marx aveva già fondato la Lega dei comunisti, che l’ebreo Lasalle aveva già un esercito in assetto di guerra, che l’ebreo Heinrich Heinecken e le colte ebree dominavano già nella letteratura ed ebrei dominavano nella industria libraria e una pleiade di professori ebrei avevano già conquistato le cattedre della scienza”. L’ebreo austriaco è generalmente slavo, il che lo squalifica ancora di più agli occhi di De Gasperi: “Va esaltata la lotta contro lo straniero e l’ebreo immigrato dalla Galizia e dalla Russia, questo popolo senza patria e senza diritti”. In una sinistra anticipazione delle misure punitive contro gli Ebrei austriaci dopo l’Anschluss: “La liquidazione delle fortune ebraiche allarga le prospettive degli affari per gli altri e i posti di avvocati e di medici rimasti vacanti aprono uno sfogo alle carriere”. Infine, nel 1938, mentre lavora alla Biblioteca vaticana, collaborando con il periodico “Illustrazione Vaticana”, sotto lo pseudonimo di Spectator, auspica che “che il razzismo italiano si attui in provvedimenti concreti di difesa e valorizzazione della nazione”.
Lo storico Paolo Pombeni, uno dei curatori del volume “Alcide De Gasperi: un percorso europeo”, ha affermato che, a questo proposito, “non si può parlare di antisemitismo, per il semplice motivo che certe convinzioni erano patrimonio comune di un ambiente in cui De Gasperi si era formato. Ricordo che fino agli anni Sessanta a Trento è stato diffuso il culto del Simonino, basato sul clamoroso falso storico di un bambino che sarebbe stato assassinato ritualmente dagli ebrei. E nella Vienna d’inizio secolo dei cristiano-sociali era ampiamente diffusa l'intolleranza verso un gruppo che rappresentava la modernità, il cosmopolitismo e che inficiava le sicurezze della tradizione”. Naturalmente, seguendo la medesima logica, non sarebbe antisemitismo neppure quello del giovane Hitler, cresciuto nello stesso ambiente. Queste parole di De Gasperi, che però, a differenza di Hitler, avrà modo di riscattarsi abbondantemente, contribuendo in modo determinante a proteggere l’Italia del dopoguerra da derive reazionarie (Sale, 2005), dimostrano invece che il razzismo culturalista non è meno ributtante di quello biologico-mistico del nazismo (Trinchese, 2006). In occasione dell’incontro sul tema “De Gasperi, il Trentino, l’Europa”, lo storico trentino Giuseppe Ferrandi, direttore della Fondazione Museo Storico in Trento, ha correttamente spiegato che “le pagine antisemite di De Gasperi vanno lette nella lotta di inizio novecento tra cattolici e socialisti. L’antisemitismo era uno degli elementi forti della polemica antisocialista. Poi sono del parere che una figura come quella di De Gasperi vada letta nella sua totalità, senza omissioni, anche nelle ombre, nei condizionamenti politici che pure ci sono stati”.
Bisogna capire perché due persone così radicalmente diverse come De Gasperi e Hitler potessero condividere questo tipo di prospettiva nei confronti di una minoranza, perché un chiarimento in tal senso potrebbe rivelarsi utile alla difesa delle minoranze dei nostri giorni. Il De Gasperi del periodo viennese deplorava le trasformazioni che avevano interessato la terra che gli aveva dato i natali: “un paese negli abitanti dei suoi monti cattolico, nelle sue classi colte, nella borghesia, in genere, pagano”. De Gasperi aborriva la laicità, la modernizzazione, la progressiva scristianizzazione della società in cui viveva, l’ascesa del socialismo ed accusava gli Ebrei di essere dietro tutto questo (Pombeni, 2007). Condivideva la propensione dei conservatori austriaci e di una corposa porzione del cattolicesimo (Finzi, 1997) a prendersela con i socialisti ebrei, allo stesso modo in cui i nazionalisti se la prendevano con i cosmopoliti ebrei, i socialisti con i capitalisti ebrei e gli stessi ebrei assimilati con gli ebrei integralisti e sionisti, mentre questi ultimi condannavano i primi, per aver tradito l’ebraismo. L’antisemitismo funziona perché è astratto e perché il bersaglio è una minoranza diffusa nella società. Meno Ebrei in carne ed ossa s’incontrano, più facile è rafforzare lo stereotipo dell’Ebreo incarnazione di tutti i mali della modernità. Fu il caso del Trentino, dove pure la presenza ebraica era virtualmente inesistente e dove l’ “affaire Dreyfus” ebbe una rinomanza enorme, visto che ancora oggi si sente l’espressione “l’affare draifus” (sic!) in luogo di “sto affare”, “sta cosa”. In Trentino, come altrove, l’antisemitismo rappresentò presumibilmente la reazione di animi insicuri, alle prese con la globalizzazione generata dall’imperialismo europeo e con un lancinante senso di anomia, di disgregamento delle norme tradizionali, di cambiamento inarrestabile, percepito come inevitabilmente deleterio. Una risposta che nacque dall’impatto improvviso ed inatteso su un comune sostrato rurale di ideologie eminentemente urbane e borghesi che, proprio in virtù del loro universalismo, non potevano che cercare di convertire, volenti o nolenti, dei contadini peraltro gelosi delle proprie autonomie e tendenzialmente autoritari. Ora, poiché l’identità collettiva era indissolubilmente legata al sostrato rurale, l’esito finale fu l’emergere di un populismo ruralista che cercava di individuare la quadratura del cerchio nella mediazione tra virtù contadine, viste come indispensabili per la coesione nazionale, e spinte emancipatorie provenienti dal mercato e dalla pur limitata società civile. Purtroppo questo significò importare nella costellazione di attributi dell’identità nazionale anche un bagaglio ideologico radicalmente ostile alla modernità fluida, o liquida che dir si voglia. Mi riferisco al mantra del sangue e del suolo ed al diffuso disprezzo per gli intellettuali e per quei popoli trans-territoriali, liminali, come gli Ebrei, i Sinti ed i Rom, i Tattare e i Sami (Svezia), i Karrner, gli Anabattisti/Hutteriti ed i Valdesi (in Tirolo e nelle Alpi piemontesi), ecc., che non mostravano alcuna lealtà nei confronti del territorio e che perciò venivano giudicati come impuri e trattati come tali. Questa visione piuttosto peculiare della natura e della società umana – un tipo di radicalismo reazionario, appunto – si frappose ad ogni tentativo di costruire una società aperta e per ciò stesso plurale.
La democrazia liberale era percepita come brutta, sformata, caotica, sciatta, scialba, non eroica, improvvisata, incoerente, fluida, mediocre. Non c’era paragone con l’Arcadia del Bel-Tempo-Che-Fu, che ogni autentico reazionario vorrebbe ricreare nel presente, in ossequio ad un giudizio estetico che è anche bisogno psicologico: la globalizzazione cosmopolita confonde e nel contempo omologa – si sostiene – in un magma irrisolto e indefinito. L’utopismo e l’arcadismo sono sistemi di valori che collocano l’armonia al loro centro: armonia dell’anima, di ciascuno con gli altri, di ciascuno nella società nel suo complesso. Non c’è margine, non c’è distanziamento tra appetito e sua soddisfazione, tra precetto ed propensione, tra obbligo e azione. S’incontra un criterio estetico laddove uno si aspetterebbe di trovarne uno etico, con grave nocumento per la causa della giustizia.
C’è chi preferisce linee nette e precise, confini ben tracciati, colori ordinatamente disposti sulla tavolozza, al punto da vederli in un passato che non è mai stato come se lo ricorda. C’è chi preferisce credere che questi siano i canoni estetici corretti, che non esistano altri modi di ammirare la bellezza, che la bellezza stessa è una, ordinata e prevedibile. In molti, forse in tutti noi, alligna un’estetica dualista, manichea, che aborre nuance, ibridità, indeterminatezza, sincretismi, commistioni e fusioni. Ma non in tutti questa pulsione comprime ad un punto tale le coscienze, da indurre alla richiesta di un’autorità disciplinatrice e paternalistica, che addomestichi tutti i cittadini (benevolmente e “per il loro bene”), inquadrandoli in una composizione il più possibile esteticamente attraente, ossia inequivocabile ed autentica; penalizzando i comportamenti trasgressivi e “fuori luogo” di chi non è privilegiato. Nella falsa che le persone, se lasciate a se stesse, siano condannate al degrado, all’abbrutimento, alla sciatteria, all’immoralità, alla volgarità, allo spreco e, quindi, alla bruttezza e disarmonia, mettendo a repentaglio gli sforzi dei fini esteti che governano l’Arcadia. Le persone vanno prese per mano per salvarle da un istinto che altrimenti le porterebbe ad esplicitare la loro naturale bruttezza ed indocile irrequietezza. Così si passa dall’idillio dell’arcadia comunitaria all’utopia tecnocratica che, paradossalmente, dovrebbe preservare la società dagli inquinanti della modernità. Il comune denominatore è quello della semplicità (cioè dell’autenticità). Dall’ideale della semplicità rustica del mondo agreste a quello della semplicità degli automatismi della società digitale, una transizione che era già stata preparata dall’utopismo rinascimentale della città ideale di Campanella, Alberti, Palladio, Filerete, Vasari, di Giorgio e Leonardo (e prima ancora di Vitruvio), la Civitas Solis, che fonde etica ed estetica (in greco kalokagathia). L’armonia dell’architettura urbana avrebbero reso virtuosi gli abitanti di una società ugualmente armoniosa “unita nel pensiero e nell’azione”. L’utopia pastorale-arcadica come preludio all’utopia dirigistico-efficientista, nella comune esaltazione di modi di vita semplici e frugali, il conseguente disprezzo del lusso (moralismo ascetico), l’apprezzamento del “valore-lavoro”, il vagheggiamento di un edificio politico fatto di solide armonie, di giuste ed invariabili proporzioni, l’aspirazione umana all’unità, semplicità, sicurezza, prosperità, serenità (quieta e stabile felicità), pace, virtù, prossimità agli dèi, a Dio, all’Ordine, espressione del mito dell’eterno ritorno e del desiderio del ritorno nel grembo materno. L’utopia, come l’arcadia, è il regno della luce, dell’ortodossia più feroce: non può esistere un’utopia migliore e quindi l’alterità cela in sé i germi della violenza, della sovversione, dell’annichilimento. L’Ebreo è la personificazione di tutto ciò che si oppone all’estetica dell’Arcadia e dell’Utopia e come tale va combattuto, perché la società va salvaguardata da tutto ciò che mira alla sua disintegrazione. Nasce la paura del contagio. Dall’Altro ci si protegge con l’isolamento xenofobico, l’ostracismo, la violenza e la “guerra giusta”. La prospettiva di un mondo futuro senza peccato, senza iniquità, senza sofferenza, dove il progresso morale si accompagna a quello materiale giustifica la fratellanza per coercizione e l’uguaglianza per imposizione. Una società di eguali, dove l’uguaglianza è conseguenza di un’unanimità indiscussa ed offre ai cittadini una facciata rispettabile dietro cui nascondere la paura della variabilità, dell’incerto, dell’originale, del dissenso.
Simbolicamente, Utopia e Arcadia sono rappresentate dall’isola, dal muro di cinta, dall’orologio che scandisce il mancato passaggio del tempo in armonia con le leggi cosmiche, sincronizzando corpi e menti. All’universo non è permesso di diventare diverso da quello che è. Nelle utopie non si distingue tra somiglianza ed uguaglianza, intesi come equivalenti, e per questo diviene possibile rappresentare il passato, il presente ed il futuro monocromaticamente, come una transizione senza soluzione di continuità tra Arcadia e Utopia. Nella Germania nazista questo processo di allineamento sincronico si chiamava Gleichschaltung, un meccanismo autocinetico che produceva incessantemente conformismo per consentire al potere di riprodursi uguale a se stesso, per un intero millennio, secondo le aspettative dei fautori del Reich millenario. Un’osservazione del filosofo francese Raymond Ruyer, che fu prigioniero di guerra in Germania, è molto opportuna: il nazismo fu senza dubbio “l’emergere in politica di un’utopia preparata da molto tempo in tutto il pensiero tedesco” (Ruyer, 1950). Purtroppo, l’assuefazione dei cittadini ebrei a quel basso continuo di retorica razzista impedì a molti di loro di capire che i nazisti non si sarebbero limitati a parlare, ma intendevano passare ai fatti (Pauley, 1992).

2 commenti:

Guglielmo ha detto...

Insomma, un bel pezzo di destro questo nostro Degasperi :-)

El Diaolin ha detto...

Bell'articolo, alla fine DeGasperi ne viene fuori anche bene... però alla fine schiarisce un bel po di dubbi che non mi ero mai posto...

Sempre attento Stefano...

Diaolin