“Il decennio 2000-2010 ha visto un incremento delle scoperte e sarà il terzo migliore per quel che riguarda il rinvenimento di campi petroliferi e di gas naturale giganti negli ultimi 150 anni”
Se il petrolio sta per finire – teoria del picco di Hubert [http://it.wikipedia.org/wiki/Picco_di_Hubbert] –, perché si continuano a trovare nuovi campi petroliferi supergiganti?
“Da 50 anni si dice che petrolio e gas naturale stanno per finire. Si crede di conoscere le riserve con precisione e di poter calcolare il tasso di svuotamento concludendo che fra pochi decenni il petrolio finirà: però la teoria ha basi incerte. Il primo a sostenere (senza prove) che petrolio e metano sono prodotti della trasformazione di materiale biologico in decomposizione in molecole di idrocarburi fu Lomonosov nel XVIII secolo, ma l'ipotesi fu già confutata nel 1877 da Mendeleev, lo scopritore della tavola periodica degli elementi”.
“La teoria dell'origine abiotica del petrolio (sinonimi: abiogenica, abiotica, abissale, endogena, giovanile, minerali, primordiale) è una teoria, attualmente considerata non scientificamente valida, secondo la quale il petrolio si è formato da processi non biologici in profondità nel mantello e nella crosta terrestre. Questo contraddice la visione tradizionale che il petrolio è un combustibile fossile, prodotto da resti di antichi organismi. Il principale costituente del petrolio è metano CH4 (molecola formata da un atomo di carbonio legato a quattro atomi di idrogeno). La presenza di metano è comune nella Terra ed è un possibile indice della formazione di idrocarburi a grandi profondità, alta pressione e temperatura”.
CONFESSIONI DI UN EX SOSTENITORE DEL “PICCO PETROLIFERO”
di F. William Engdahl
tratto da www.engdahl.oilgeopolitics.net
Traduzione di Gianluca Freda
La buona notizia è che gli scenari apocalittici relativi all’esaurimento del petrolio mondiale da un momento all’altro sono falsi. La cattiva notizia è che il prezzo del petrolio continuerà a salire. Il nostro problema non è il picco petrolifero. E’ la politica. Le grandi compagnie vogliono tenere alto il prezzo del petrolio. Dick Cheney e i suoi amici gli daranno volentieri una mano.
Come nota personale, dirò che mi interesso di questioni petrolifere fin dalla crisi dei primi anni ’70. Nel 2003 rimasi molto impressionato dalla cosiddetta teoria del “picco petrolifero”. Essa sembrava spiegare l’altrimenti incomprensibile decisione di Washington di rischiare il tutto per tutto in una mossa militare contro l’Iraq.
I sostenitori del “picco petrolifero”, capeggiati dall’ex geologo della BP Colin Campbell e dal banchiere texano Matt Simmons, sostenevano che il mondo sarebbe andato incontro a una nuova crisi, l’esaurimento del petrolio a basso prezzo o addirittura un picco petrolifero assoluto, entro il 2012, forse già dal 2007. Si diceva che il petrolio fosse agli sgoccioli. Costoro collegavano la crescita dei prezzi del petrolio e del gasolio col declino della produzione in Alaska, nel Mare del Nord e in altri giacimenti per dimostrare le proprie ragioni.
Secondo Campbell, il fatto che fin dalla fine degli anni ’60 non fossero più stati scoperti giacimenti delle dimensioni di quello del Mare del Nord era una dimostrazione delle sue ragioni. Riuscì a convincere anche l’Agenzia Internazionale per l’Energia e il governo svedese. Questo, comunque, non dimostra che avesse ragione.
Fossili intellettuali?
La dottrina del picco petrolifero fonda la propria argomentazione sui tradizionali testi di geologia occidentali, molti dei quali scritti da geologi inglesi o americani, secondo i quali il petrolio sarebbe un “combustibile fossile”, un detrito o residuo biologico di resti di dinosauri o di alghe fossilizzati, quindi un prodotto in scorte limitate. L’origine biologica è al centro della teoria del picco petrolifero e viene anche addotta per spiegare come mai il petrolio si trovi soltanto in certe parti del mondo, dove esso sarebbe rimasto biologicamente intrappolato milioni di anni fa. Ciò vorrebbe dire, ad esempio, che resti di dinosauri morti sarebbero rimasti compressi, fossilizzati per decine di milioni di anni e intrappolati in giacimenti sotterranei a 4-6.000 piedi di profondità sotto la superficie terrestre. In alcuni rari casi, secondo questa teoria, grandi quantità di materiale biologico sarebbero rimaste intrappolate in formazioni rocciose a poca profondità sotto gli oceani, come nel Golfo del Messico, nel Mare del Nord o nel Golfo della Guinea. La geologia avrebbe quindi il solo compito di stabilire in quale punto degli strati terrestri si trovino queste cavità, chiamate riserve, all’interno di dati bacini sedimentari.
Una teoria completamente alternativa sull’origine del petrolio esiste in Russia fin dagli anni ’50, quasi del tutto sconosciuta in Occidente. Essa afferma che la tradizionale teoria americana sulle origini biologiche del petrolio è un’indimostrabile assurdità scientifica. I suoi sostenitori evidenziano che i geologi occidentali hanno predetto più volte l’esaurimento del petrolio nel corso dell’ultimo secolo, solo per poi trovarne dell’altro, molto altro.
Questa spiegazione alternativa dell’origine del petrolio e del gas naturale non è solo una teoria. L’emergere della Russia, e prima ancora dell’URSS, come maggior produttore di petrolio e di gas naturale del mondo, si deve alla concreta applicazione di questa teoria. Ciò presenta conseguenze geopolitiche di impressionante magnitudine.
Necessità: la madre della ricerca
Negli anni ’50 l’Unione Sovietica si trovò isolata dal resto del mondo dalla “Cortina di Ferro”. La Guerra Fredda era già in moto. La Russia aveva poco petrolio per sostenere la propria economia. Trovare petrolio sufficiente all’interno dei propri confini era la massima priorità di sicurezza nazionale.
Gli scienziati dell’Istituto di Fisica della Terra dell’Accademia Russa delle Scienze e l’Istituto di Scienze Geologiche dell’Accademia Ucraina delle Scienze avevano iniziato fin dalla fine degli anni ’40 una fondamentale ricerca: da dove viene il petrolio?
Nel 1956 il Prof. Vladimir Porfiryev rese note le proprie conclusioni: “il petrolio grezzo e il gas naturale non hanno alcuna relazione con materiale biologico presente nel sottosuolo. Si tratta invece di materiali primordiali, eruttati da grandi profondità”. I geologi sovietici capovolsero l’ortodossia geologica occidentale. Chiamarono la propria ipotesi sulle origini del petrolio “teoria abiotica” – cioè non biologica – per distinguerla dalle teorie biologiche occidentali.
Se avessero avuto ragione, la disponibilità di petrolio sulla Terra sarebbe stata limitata solo dalla quantità di elementi costitutivi degli idrocarburi presenti nel sottosuolo al momento della formazione della Terra. La reperibilità del petrolio sarebbe dipesa solo dall’esistenza della tecnologia necessaria a trivellare pozzi a grande profondità e a esplorare le zone più interne della crosta terrestre. Avevano anche compreso che i vecchi pozzi potevano essere “rivitalizzati” perché continuassero a produrre (i cosiddetti “giacimenti auto-rigeneranti”). Essi sostenevano che il petrolio si forma nelle profondità della Terra, in condizioni di temperatura e pressione altissime, simili a quelle necessarie per la formazione dei diamanti. “Il petrolio è un materiale primordiale generato in profondità che viene trasportato ad alta pressione attraverso processi eruttivi ‘freddi’ all’interno della crosta terrestre”, sosteneva Porfiryev. Il suo team respinse l’idea che il petrolio fosse un residuo biologico di resti di piante e animali fossili, considerandola una bufala inventata per perpetuare il mito della disponibilità limitata.
Sfida alla geologia tradizionale
Quest’approccio scientifico radicalmente diverso di russi e ucraini alla ricerca petrolifera, consentì all’URSS di scoprire immensi giacimenti di gas e petrolio in zone considerate, dalle teorie dell’esplorazione geologica occidentale, del tutto inadatte alla presenza di petrolio. La nuova teoria petrolifera fu utilizzata nei primi anni ’90, molto dopo la dissoluzione dell’URSS, per trivellare gas e petrolio in una regione ritenuta per più di 45 anni geologicamente infruttifera: il bacino del Dnieper-Donets tra la Russia e l’Ucraina.
Seguendo la loro teoria abiotica o non-fossile sulle origini del petrolio, geochimici e fisici petroliferi russi e ucraini iniziarono un’analisi dettagliata della storia tettonica e della struttura geologica del basamento cristallino del bacino del Dnieper-Donets. Dopo un’analisi tettonica e strutturale della zona, compirono altre ricerche geofisiche e geochimiche.
Vennero trivellati un totale di 61 pozzi, di cui 37 si rivelarono commercialmente produttivi; un enorme successo esplorativo, con una percentuale di riuscita di quasi il 60%. Le dimensioni del giacimento scoperto erano paragonabili a quelle del North Slope in Alaska. Per fare un paragone, negli Stati Uniti la trivellazione “wildcat” [trivellazione casuale per cercare nuovi giacimenti a poca distanza da quelli già esistenti, NdT] viene considerata riuscita quando ha un tasso di successo del dieci per cento. Nove pozzi trivellati su dieci sono normalmente “asciutti”.
L’esperienza dei geofisici russi nella ricerca di petrolio e gas rimase avvolta nel consueto velo di segretezza sovietico durante gli anni della Guerra Fredda e rimase largamente sconosciuta ai geofisici occidentali; i quali continuarono a insegnare la teoria delle origini fossili e, di conseguenza, l’esistenza di precisi limiti fisici all’estrazione. Lentamente, alcuni strateghi all’interno del Pentagono o ad esso vicini, cominciarono – molto dopo l’inizio della guerra all’Iraq del 2003 - a rendersi conto che i geofisici russi dovevano aver scoperto qualcosa di enorme importanza strategica.
Se la Russia possedeva questo know-how e la geologia occidentale no, allora i russi avevano un asso nella manica di valore geostrategico smisurato. Non sorprende che Washington abbia deciso di erigere un “muro d’acciaio”: una rete di basi militari e scudi antimissile intorno alla Russia per tagliare i collegamenti dei suoi porti e dei suoi oleodotti con l’Europa occidentale, la Cina e il resto dell’Eurasia. Il peggiore incubo di Halford Mackinder – una convergenza cooperativa tra i maggiori stati eurasiatici fondata sul reciproco interesse, nata dalla necessità e dal bisogno di petrolio per la crescita economica – stava per avverarsi. Ironicamente, è stata proprio l’arrogante rapina delle ricchezze petrolifere irakene (e potenzialmente iraniane) da parte degli USA che ha fatto da catalizzatore ad una più stretta cooperazione tra i tradizionali nemici eurasiatici, Cina e Russia; e ha fatto sì che anche l’Europa occidentale iniziasse a prendere coscienza del fatto che le sue opzioni iniziano a restringersi.
Il Re del Picco
La teoria del picco petrolifero è basata su uno studio condotto nel 1956 da Marion King Hubbert, un geologo texano che lavorava per la Shell. Egli sosteneva che la produzione dei pozzi petroliferi avveniva secondo una curva a forma di “campana”, cioè una volta raggiunto un certo “picco” seguiva l’inevitabile declino. Aveva predetto che la produzione petrolifera americana avrebbe avuto il suo picco negli anni ’70. Uomo di grande modestia, aveva chiamato la curva di produzione che aveva scoperto “Curva di Hubbert” e il relativo picco “Picco di Hubbert”. Quando la produzione petrolifera americana iniziò a calare intorno al 1970, Hubbert guadagnò una certa fama.
L’unico problema era che il “picco” non era dovuto all’esaurimento di risorse nei giacimenti americani. Era dovuto al fatto che la Shell, la Mobil, la Texaco e gli altri partner della saudita Aramco avevano inondato il mercato americano di importazioni saudite “grezze”, esenti da dazi, a prezzi così bassi che molti produttori locali del Texas e della California non avevano potuto competere ed erano stati costretti a chiudere i loro pozzi.
Successo in Vietnam
Mentre le multinazionali americane del petrolio erano intente a garantirsi il controllo degli ampi e facilmente accessibili giacimenti di Arabia Saudita, Kuwait, Iran e altre zone in cui il petrolio era abbondante ed economico negli anni ’60, i russi erano impegnati a sperimentare la loro teoria alternativa. Iniziarono a compiere trivellazioni in una zona della Siberia che si presumeva infruttifera. Qui scoprirono undici grandi giacimenti e un giacimento enorme, sfruttando le stime geologiche eseguite secondo la loro “teoria abiotica”. Trivellarono un basamento di roccia cristallina e scoprirono oro nero in quantità comparabili a quelle esistenti nel North Slope in Alaska.
Dopodiché, negli anni ’80, andarono in Vietnam e si offrirono di finanziare al governo locale i costi di trivellazione per dimostrare l’efficacia della propria teoria geologica. La compagnia russa Petrosov eseguì trivellazioni nel giacimento offshore vietnamita noto come “Tigre Bianca”; penetrò per 17.000 piedi la roccia basaltica e riuscì ad estrarne 6.000 barili al giorno, abbastanza per rimpinguare l’economia vietnamita ridotta alla fame. Nell’URSS i geologi russi, che avevano studiato la teoria abiotica, la perfezionarono e l’URSS diventò, a metà degli anni ’80, il primo produttore mondiale di petrolio. Pochi, in Occidente, capirono perché o si disturbarono a chiederselo.
Il Dr. J. F. Kenney è uno dei pochi geofisici occidentali che abbiano insegnato e lavorato in Russia, sotto l’insegnamento di Vladilen Krayushkin, che aveva scoperto l’enorme giacimento del Dnieper-Donets. Kenney mi disse una volta in un’intervista che “solo per produrre la quantità di petrolio estratta fino a oggi dal giacimento di Ghawar (Arabia Saudita) occorrerebbe – ammettendo un’efficienza di conversione del 100% - un cubo di resti fossili di dinosauro di 19 miglia per lato”. In parole povere, un’assurdità.
I geologi occidentali non si curano di fornire prove scientifiche della loro teoria delle origini fossili. Si limitano ad affermarla, come una sacra verità. I russi, invece, hanno prodotto interi volumi di testi scientifici, quasi sempre in lingua russa. Alle maggiori riviste occidentali non interessa pubblicare un punto di vista così rivoluzionario. Dopo tutto sono in gioco carriere e intere professioni accademiche.
Chiudere la porta
Nel 2003 l’arresto di Mikhail Khodorkovsky, capo della Yukos Oil, avvenne poco prima che egli vendesse la quota di maggioranza della Yukos alla ExxonMobil dopo un incontro in privato con Dick Cheney. Se la Exxon avesse acquistato quella quota, oggi controllerebbe il più grande consesso mondiale di geologi e ingegneri addestrati nelle tecniche di estrazione abiotica.
Dal 2003 in poi la disponibilità degli scienziati russi a condividere le proprie conoscenze si è drasticamente ridotta. Le offerte di collaborazione con gli USA e con altri geofisici petroliferi fatte nei primi anni ’90 vennero accolte – secondo quanto affermano alcuni geofisici americani – con un freddo rifiuto.
Perché allora iniziare una guerra altamente rischiosa per il controllo dell’Iraq? Per un secolo gli USA e le grandi aziende occidentali hanno controllato il petrolio del mondo attraverso il controllo dell’Arabia Saudita, del Kuwait o della Nigeria. Oggi, con molti grandi giacimenti in via d’esaurimento, le compagnie vedono il petrolio di stato dell’Iraq e dell’Iran come il maggior magazzino mondiale di petrolio a basso costo e di facile estrazione. Con l’enorme domanda di petrolio proveniente dalla Cina, e ora anche dall’India, diviene per gli Stati uniti un imperativo geostrategico acquisire il controllo diretto e militare di queste riserve mediorientali al più presto possibile. Il vicepresidente Dick Cheney viene dalla Halliburton, il più grande fornitore del mondo di servizi geofisici per l’estrazione petrolifera. L’unica potenziale minaccia al controllo del petrolio da parte degli USA viene dalla Russia e dai giganti dell’energia russi, passati ora sotto il controllo dello Stato. Hmmmmm.
Secondo Kenney, i geofisici russi utilizzavano le teorie del brillante studioso tedesco Alfred Wegener almeno 30 anni prima che i geologi occidentali “scoprissero” Wegener negli anni ’60. Nel 1915 Wegener pubblicò il suo studio L’origine dei continenti e degli oceani, che ipotizzava l’originaria unità delle terre emerse, più di 200 milioni di anni fa, in un blocco chiamato “pangea”, poi separatosi negli attuali continenti attraverso un processo che egli chiamava “deriva dei continenti”.
Fino agli anni ’60 alcuni presunti scienziati americani, come il dr. Frank Press, consigliere scientifico della Casa Bianca, definivano Wegener un “lunatico”. Alla fine degli anni ’60 i geologi furono costretti a rimangiarsi le loro parole quando Wegener offrì l’unica interpretazione che permise loro di scoprire le grandi risorse petrolifere del Mare del Nord. Forse tra qualche decennio i geologi occidentali rivedranno la loro mitologia dell’origine fossile e capiranno finalmente ciò che i russi hanno capito fin dagli anni ’50. Nell’attesa, Mosca possiede oggi un immenso asso energetico nella manica.
Per approfondire:
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