Di norma si riconosce la necessità di imporre una
radicale eliminazione delle persone inadatte e prive di valore per mezzo della
sterilizzazione. Anche se la loro mediocre qualità non fosse un tratto
ereditario, come genitori creerebbero un ambiente indesiderabile per i
bambini.
Alva Myrdal (1941, pp. 115-116), premio Nobel per la Pace
(1982).
La legge sulle sterilizzazioni è un passo
importante nella direzione della depurazione del ceppo svedese, che sarà
liberato dalla trasmissione di materiale genetico che produrrebbe, nelle
generazioni future, individui indesiderabili in una popolazione sana di corpo e
di mente.
Karl Gustaf Westman, Ministro della Giustizia (1941)
L’idea che le persone debbano avere il diritto di
decidere in merito ai propri corpi è un punto di vista estremamente
individualistico.
Commissione governativa sulle sterilizazioni (1936)
La società svedese è caratterizzata dalla coesistenza di
aspetti ultramoderni ed elementi pre-moderni. Samförstånd è il termine che
indica la comprensione condivisa di una questione, che in generale tende a
confondere la linea che separa il consenso dal compromesso. Questo perché nella
società svedese la condivisione di un significato spesso coincide con una
mentalità compromissoria. Il risultato è una società che assorbe ogni
potenziale dissenso disciplinandolo tramite il politicamente corretto ed il
richiamo alla bontà intrinseca dell’accordo (ad ogni costo) ed un apparato
amministrativo che trasforma i conflitti sugli obiettivi da perseguire in conflitti
sui mezzi coi quali perseguirli, cioè i valori in fatti, che sono molto meno
pericolosi in termini di armonia sociale (Gould, 2001; Rosenberg, 2002;
Spektorowski, 2004).
Naturalmente questo meccanismo s’inceppa nel momento in
cui esistono visioni del mondo e concezioni della buona società sensibilmente
diverse. Non si accetta il diverso ed inatteso (persona o idea che sia), lo si
tollera. Convinzione di essere i migliori, sfiducia negli altri, diritto di
pontificare ed indicare agli altri cosa sia giusto e sbagliato (Brown, 2008).
Nel 1969 Susan Sontag caratterizzava la cultura svedese della prevenzione del
conflitto come semi-patologica, a rischio di generare continue inibizioni,
ansia, dissociazione morale. Nello stesso anno, un corrispondente straniero
David Jenkins (Jenkins, 1969), pubblica un atto di accusa intitolato “Svezia,
la macchina del progresso” in cui denuncia la “pronunciata devozione al
pragmatismo privo di emozioni”, un più consistente interesse per la natura che
per la gente, una “società organizzata come una macchina in cui si oliano gli
ingranaggi [le persone] per farli funzionare al meglio”. Jenkins notava che se
si ritiene di essere razionali, non si potrà mai credere di essere dottrinari,
e questo toglie spazio alle critiche legittime, in un sistema chiuso, al
servizio delle sue esigenze, tanto che i meccanismi belli ed intricati, ma
scarsamente flessibili, non possono soddisfare la varietà di variazioni
individuali. Jenkins pativa la propensione svedese a formalizzare, proceduralizzare,
organizzare, sistematizzare ogni aspetto della vita, la mancanza di curiosità o
l’inibizione a manifestarla, i cui effetti si potevano misurare nella mediocre
qualità del giornalismo svedese (infatti si dovette attendere fino agli anni
Novanta perché un coraggioso giornalista, per di più di origini polacche,
facesse esplodere il caso delle sterilizzazioni involontarie di migliaia di
donne svedesi). Più di tutto, Jenkins non capiva perché “nel diagramma della
curva a campana che ritrae la diversità umana, i due estremi della curva
debbano essere amputati per privilegiare chi si concentra intorno alla media”.
Un paio di anni più tardi arrivò sul mercato l’inchiesta più spietata
sull’esperimento svedese, ad opera di Roland Huntford (Huntford, 1971), corrispondente
britannico per la Scandinavia per il quotidiano progressista “The Observer”. Fu
un attacco doloroso perché, come quello della Sontag, proveniva da sinistra.
Huntford stigmatizzava l’obbligo (tacito) della neutralità, che vedeva come una
castrazione morale autoinflitta che impediva a chi sentiva il bisogno di agire
di trovare la forza e la convinzione di farlo. In Svezia, mancava il concetto
stesso di una coscienza soggettiva come guardiano della moralità delle azioni.
La Svezia si considerava la coscienza del mondo senso collettivo, non come
l’accordo di persone soggettivamente responsabili e cooperative. Huntford
ironizzava sul fatto che nella nazione scandinava si condannano le altre
nazioni e gli altri popoli per le loro azioni indesiderabili, mentre al tempo
stesso il dissenso interno è incasellato come espressione di un interesse
particolare nocivo per la collettività che, in quanto egalitaria, non può
tollerare istanze qualitativamente differenti. In Svezia il corpo sociale
assimilava tutti i vari interessi e il potere conferiva il diritto di farlo.
In Svezia, l’ideologia che ha sostenuto questa cultura
anti-pluralista si chiama folkhem ed è contraddistinta dalle virtù secondarie
della “comunità”, “solidarietà”, “armonia”, “sicurezza”, “identità”,
“avvedutezza”, “cooperazione”, “assistenza”, “operosità”. La folkhem è, in
breve, la progressiva estensione del caldo, sereno e confortevole ambiente
domestico agreste fino ad abbracciare l’intera nazione. Lo stato è quindi
pastorale – si prende maternamente cura dei cittadini (Samhällsmoderlighet) –,
democratico ma illiberale: la volontà generale diviene il patto regolativo
dell’intera società (Trägårdh, 2007). Molto lucidamente, Lars Trägårdh
chiarisce che, a fianco di Hegel, l’altro nume tutelare della cultura politica
svedese è Rousseau, del quale si premura di citare un passo del Contratto
Sociale (libro II), che secondo lui potrebbe essere assunto come motto dello
stato sociale svedese (Trägårdh, ibidem): “La seconda relazione è quella dei
membri tra di loro, o con il corpo intero; e questo rapporto deve essere nel
primo caso il più piccolo possibile, e nel secondo il più grande possibile; in
modo che ogni cittadino sia in una perfetta indipendenza rispetto a tutti gli
altri, e in una estrema dipendenza rispetto alla città...poiché non c’è che la
forza dello Stato che faccia la libertà dei suoi membri”.
Purtroppo, a misura
che la responsabilità per i problemi collettivi è trasferita dalla società
civile allo Stato, lo spirito solidale ed il senso di responsabilità del
cittadino nei confronti del prossimo è destinato ad affievolirsi, inibito dalla
possanza dei servizi assistenziali collettivi (Colla, 1993). La mentalità
ingegneristica è la più idonea a gestire le dinamiche sociali perché pone
l’accento su una prassi decisionale efficace, rapida e pragmatica che
privilegia razionalità, disciplina ed assenza di sentimentalismi. Come ha
osservato l’antropologo svedese Åke Daun, in Svezia tutti i problemi hanno
un’unica soluzione appropriata, tutte le incoerenze e contraddizioni devono
essere scartate, perché sono intellettualmente insoddisfacenti, la riprova di
una mancanza di disciplina (Daun, 1977). Ciò che è razionale, pratico, pulito e
bello è anche vero, buono e giusto e ciò richiede un costante esorcismo
sociale, un’incessante lotta contro oscurità, infermità, disordine, sporcizia,
fetore, per la purificazione della società da tutto ciò che è inappropriato
(Henze, 1993).
Questa inclinazione, in Svezia come in qualunque altro
luogo del mondo (es. Singapore, Canada, Stati Uniti, Trentino-Alto Adige,
Giappone, ecc.), è associata alla ricerca del primato morale, che provoca quasi
sempre un’impennata di supponenza ed un processo di totemizzazione della
società che la rende indiscutibile. Un’estrema forma di autocompiacimento. Il
sentirsi dalla parte del vero, del buono e del giusto, parte di una comunità
culturalmente e spiritualmente esemplare, può dare origine a quell’intollerante
senso di intangibilità morale, propria del sacro, che rende ancora più difficile
il compito di chi punta il dito contro l’arbitrarietà di certe decisioni prese
in nome del bene comune e quindi, per definizione, insindacabili e moralmente
ineccepibili. Se il popolo svedese è intrinsecamente democratico, non potrà mai
cessare di esserlo e non avrà quindi alcun bisogno di un auto-esame (Trägårdh,
2007).
Inoltre, e questo è un aspetto della questione che è
raramente preso nella giusta considerazione, uno stato materno tende a formare
con i suoi cittadini un tipo di legame affine a quello che vincola madri e
figli, ma il potere di una madre sui figli è pressoché assoluto (almeno a
livello psicologico) e non è necessariamente benevolo. Il potere di generare la
vita e di nutrirla è anche quello che la fa appassire e la fiducia può mutarsi
in ricatto. Nessuno, tranne una madre, dovrebbe poter gestire un tale potere.
La sottile ironia di questo parallelo non sarà sfuggita a chi è al corrente
delle politiche eugenetiche svedesi, seconde solo a quelle naziste, per
virulenza e al terzo posto nel mondo, dopo Germania e Stati Uniti.
L’eugenetica era la scienza che
studiava le misure intese a generare una prole migliore rispetto alla norma.
L’eugenetica negativa doveva estirpare malformazioni e malattie ereditarie
mentre quella positiva doveva incoraggiare i “più adatti” a riprodursi e
spingere i “meno adatti” a non farlo. In diversi paesi nominalmente democratici
questa dottrina si tradusse in leggi che vietavano il matrimonio ai cittadini
classificati come inadatti alla procreazione, oppure li inducevano od
obbligavano a scegliere l’aborto selettivo, l’internamento in istituti
psichiatrici, la sterilizzazione, o la castrazione.
Nella Germania nazista la
sterilizzazione coatta/indotta fu accompagnata dall’uccisione di migliaia di
disabili fisici e psichici, comprese decine di pazienti di quel che fu il
manicomio di Pergine. In Svezia la violazione dei diritti fondamentali di
decine di migliaia di donne da parte dello Stato fu resa possibile dalla
colpevole deferenza dell’opinione pubblica nei confronti di esperti – spesso
auto-proclamatisi tali – che etichettarono ogni obiezione come dogmatica,
arretrata e malinformata.
La storia dell’eugenismo rivela l’accecamento
ideologico prodotto da un audace sperimentalismo che impedisce ai suoi
promotori di fare auto-critica, di porsi delle domande che non siano solo di
ordine meramente tecnico, di ascoltare le ragioni degli altri. Ma non solo,
essa rivela anche il moralismo di una comunità che si sentiva custode delle
virtù collettive e che per questo si trasformò in uno stato di polizia,
esattamente come in ogni caccia alle streghe, da Salem all’Olocausto. Tra i
capi d’accusa che determinarono la sorte di migliaia di donne, la colpa di
essere sessualmente inaffidabili (sexuellt opålitlig), volubili (hållningslös),
influenzabili (lättledd), dissolute (vidlyftig, lösaktig), o dedite ad uno
stile di vita asociale (asocialt levnadssätt) (Colla, 2000). A ciò si
aggiunsero gli affidamenti forzosi di migliaia di figli di coppie giudicate
inadeguate per il ruolo di genitori. In pratica, lo stato materno e
paternalista decise che era giunto il momento di sostituirsi ai genitori
naturali, troppo incompetenti per poter educare dei cittadini irreprensibili ed
industriosi. Il motto era “mettere in ordine la vita” (lägga livet tillrätta)
ed il cittadino era chiamato ad essere skötsam, ossia ordinato e coscienzioso.
La vita sociale e vita privata possono e debbono essere razionalizzate e per
aiutare i deboli serve una società forte ed eminentemente razionale. Si assiste
così ad una colonizzazione dell’inconscio, all’anestetizzazione delle facoltà
critiche, all’omogeneizzazione delle strutture mentali ed intellettuali, alla
regolamentazione dei ritmi quotidiani e cicli di vita (di una vita che
dev’essere ragionevole e degna di essere vissuta) che abbraccia i regimi
alimentari, lo sport, il tempo libero, le letture, persino la sessualità. È una
libertà condizionata, perché l’ideologia funzionalista e pragmatica lascia poco
spazio all’arbitrio soggettivo. La volontà del popolo, del corpo sociale, già
di per sé autoritaria, è comunque virtuale: i cittadini debbono inchinarsi di
fronte agli esperti in modo che si possa realizzare un contingentamento della
diversità (Frykman, 1994; Stråth, 2003).
Paradossalmente, il compito
autoimposto di estirpare le cause dell’ingiustizia, dello sfruttamento e
dell’antagonismo sociale ha dato vita all’hybris artificialistica della natura
umana indefinitamente plasmabile (Pazé, 2004). Si assorbe il dissenso interno,
si disciplinano gli antagonismi, appellandosi alla concretezza del realismo
(saklighet – Sachlichkeit) ed alla certezza del diritto (rättssäkerhet). Non si
discute più dei fini, ma solo dei mezzi migliori per conseguirli. Perciò non c'è
nessuna opposizione esplicita e formale alle raccomandazioni dei comitati di
esperti. I conflitti di valore si traducono automaticamente in conflitti sui
fatti e soprattutto sui mezzi: sarebbe infatti impossibile gestire un conflitto
se ci fossero in gioco valori divergenti e visioni del bene confliggenti. Invece
di una tradizione di consenso istituzionale servirebbe una cultura della
gestione del conflitto e della pluralità come fonti di creatività, innovazione,
miglioramento.
Una delle più significative contraddizioni della realtà
svedese riguarda la storia dell’accettazione, tardiva e a denti stretti, nel
suo ordinamento giuridico di quei diritti umani che, all’estero, sostiene con
vigore e coerenza. La “Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle libertà fondamentali” del 1950 fu sottoscritta dalla Svezia
in separata sede, tre settimane dopo gli altri paesi europei e non fu ben
accolta tra i giuristi e i politici svedesi. La strategia adottata in patria fu
quella di parlarne il meno possibile, come se fosse qualcosa di cui ci si
vergognava e la gente faceva meglio a non sapere. Fu più
facile abituarsi all’idea di insegnare agli altri paesi sfortunati i diritti
umani, esportandoli, che educare i propri cittadini a valorizzarli. Anzi, si
diffuse una vera e propria ossessione per la missione umanitaria di predicare i
diritti umani ai paesi in via di sviluppo, trasformando la Svezia in una
superpotenza morale del mondo (Huntford, 1971). Ritengo che la miglior chiave
di lettura di questo fenomeno sia la tentazione dell’hybris: la pretesa di
rinnovare il mondo in relazione al proprio modello preferito è il nucleo
centrale dell’imperialismo culturale; le altre culture sono inferiori e i
diritti umani sono impiegati aggressivamente come una daga che le fa a pezzi e
gli scettici diventano nemici dei diritti umani e perciò zittiti (a buon
diritto, appunto).
Ciò si deve alla prolungata e capillare influenza della
cultura del nichilismo dei valori promossa dall’eminente giurista Axel
Hägerström (1868 – 1939) e dai suoi allievi (Martin, 1997; Bjarup, 1999;
Bouquet & Voilley, 2000; Kinander, 2002; Lyles, 2006). Secondo
Hägerström la scienza è l’unica forma di conoscenza, tutto è scientificamente
conoscibile, la metafisica è insensata e va tralasciata e quindi può esistere
una scienza giuridica, branca delle scienze naturali, fondata su fatti empirici
e non su finzioni morali. I cosiddetti “realisti giuridici” della tradizione
hägerströmiana cercano di sradicare la credenza che i diritti umani e la
giustizia possano trovare una loro realizzazione nel diritto. Al contrario,
affermano che i valori non fanno parte del tessuto della società e del mondo,
che l’esistente è amorale, che chi crede il contrario è vittima dell’infezione
metafisica. Le proposizioni morali non hanno alcuna esistenza reale, sono solo
espressioni di sentimenti, interessi egoistici o illusioni, reazioni emotive e
psicologiche. Concetti morali come giustizia, diritti, equità, colpa, ecc. non
hanno un’esistenza indipendente dalla macchina sociale che li produce. Lo stato
è necessario al benessere dei cittadini, è pensato ed istituito per questa
finalità, ed il benessere lo si soddisfa con il welfare, non con i diritti.
Il
realismo giuridico svedese privilegia uguaglianza ed utile, trascurando libertà
e diritti: quando il testo di legge è esplicito, occorre solo applicare una
giusta misura di pressioni psicologiche e sollecitazioni sull’opinione
pubblica. Criticare sulla base di considerazioni etiche il sistema legale è
dissennato: nulla è vero o falso tranne ciò che possiamo asserire sulla scorta
dei dati della “scienza legale”. La gente può anche avere una sua morale nella
sfera privata, nessuno glielo impedisce, ma guai a chi afferma l’esistenza di
una moralità pubblica indipendente da quanto stabilito dalla legge. Le leggi
servono appunto a garantire l’armonia sociale e ad influenzare le opinioni dei
cittadini, la morale deriva dalle leggi, e non vice versa: sono le buone leggi
che fanno gli uomini buoni e non il contrario ed i valori sociali servono solo
a mantenere coese le nazioni e preservare la pace tra gli stati. In pratica il
diritto è una tecnica di controllo sociale razionale. Ne consegue che chi viola
la legge è un fautore del caos: il mantenimento dell’ordine sociale non va
messo in discussione e chi lo fa è dogmatico, superstizioso o disadattato ed il
suo atteggiamento è passibile di correzione. Molto assennatamente, la maggior
obiezione che è stata portata a queste formulazioni è che spiana la strada alla
filosofia del potere che tanto piace ai totalitarismi: “non esistono
proposizioni morali obiettive, perciò giusto è prendere ciò che decido sia
giusto prendere, perché ho il potere di farlo e chiamo diritto questo mio
potere” (Mindus, 2009).
È stato detto che Machiavelli è il padre spirituale del
realismo giuridico scandinavo (Nergelius, 1990). In quest’ottica la politica
non ha nulla a che vedere con l’etica, ciò che conta è garantire la
sopravvivenza dello Stato controllando i cittadini. La politica è una questione
di potere, non di morale o di giustizia. Nel 1973 il ministro della giustizia
svedese Lennart Geijer dichiarò che: “Dietro l'idea che i tribunali proteggono
gli individui dalle autorità c'è una critica antidemocratica del sistema
parlamentare di governo. È un’idea pericolosa”. Così, in Svezia, non ci sono
corti di giustizia indipendenti e non se ne sente il bisogno, non ci sono
diritti oltre a quelli attribuiti dal parlamento. Per via di una sconfinata
fede nelle istituzioni: non ingannerebbero mai i propri cittadini; i politici
sono sempre al servizio della collettività, mai degli interessi
economico-finanziari. Per questo le norme eugenetiche furono promosse ed
applicate senza alcun problema fino agli anni Settanta, in violazione di tutte
le convenzioni sui diritti umani. Non vi era alcuna separazione dei poteri,
nessun controbilanciamento, nessuna voce dissonante, nessuna autorità
alternativa a cui appellarsi. Il potere era integralmente nelle mani della
maggioranza parlamentare (Trägårdh e Delli Carpini, 2004).
Karl Olivecrona (1897-1980), il più celebre allievo di
Hägerström, si diceva convinto che poiché il diritto si fonda sulla possibilità
di una sanzione punitiva, ossia sulla “violenza organizzata”, allora la
violenza è una necessità sociale. La violenza era perciò un qualcosa di intrinsecamente
buono e giusto nella prospettiva della sua utilità sociale, mentre il diritto
internazionale era privo di significato, perché non possedeva un apparato di
giustizia capace di punire i trasgressori. L’unica efficace norma
internazionale era la forza: una potenza militare più forte deve imporre il suo
volere ad una nazione più debole. Coerentemente, in "England eller Tyskland"
(“Inghilterra o Germania”, 1941) Olivecrona suggeriva che una vittoria nazista
sarebbe stata preferibile rispetto all’attuale anarchia internazionale e di
conseguenza si augurava che l’esempio di Pétain fosse seguito da altri leader
continentali, per porre fine ai conflitti e dare inizio ad una nuova
solidarietà paneuropea. Un altro discepolo di Hägerström fu Vilhelm Lundstedt,
uno dei fautori del funzionalismo sociale svedese, con la sua enfasi sulla
democrazia, a detrimento dei diritti. Analoghe convinzioni animarono i realisti
del socialismo, convinti che la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani
(elaborata da esperti provenienti da tutto il mondo) fosse uno strumento
dell’imperialismo americano. Più in generale, il realismo è uno strumento
duttile nelle mani dei potenti che spacciano i propri interessi e pregiudizi
per un fatto naturale.
Il razionalismo umanitario svedese
L’autocompiaciuta idea di una bontà innata è una
delle ragioni di quello che è successo…La tirannia delle buone intenzioni è il
lato oscuro del modello svedese che si tende a trascurare.
Arne Ruth, l’allora caporedattore alla cultura per il
Dagens Nyheter (1997)
Arriviamo così al nodo centrale della questione, quella
dell’inevitabile perniciosità del razionalismo umanitario. Un sociologo
svedese, Hans L. Zetterberg (1984), è stato il primo, che io sappia, ad
affrontare in modo sistematico le contraddizioni ed aporie del modello svedese
di umanitarismo razionalista. Tradizionalmente, spiega Zetterberg, lo “svedese”
ama la sicurezza (trygghet), la continuità e la prevedibilità e per questo
tende ad essere intollerante verso valori e costumi diversi dai suoi. Sa qual è
il suo posto, non si ritiene speciale, si comporta appropriatamente, mantiene
le sue emozioni sotto controllo, è puntuale e coscienzioso. C’è un prezzo da
pagare per l’ordine, la conformità e l’assenza di conflitti: un dibattito
pubblico stagnante, scarso pluralismo, marginale originalità. Una ramificazione
di questa mentalità è quella secondo cui pagando le tasse ci si sente assolti
dall’obbligo di prendersi cura degli anziani e dei bisognosi in generale,
perché ci deve comunque essere qualcuno incaricato di farlo. Un fenomeno che,
tra parentesi, è piuttosto comune anche in Giappone. I dibattiti sono condotti
da tecnocrati e non c’è alcuna indulgenza verso la spiritualità. Non ci può
essere spazio per la spiritualità e la spontaneità – cioè per il vero buon
cuore e buon senso –in un sistema in cui “la molteplicità del pensiero umano è
organizzata in sistemi, il vasto repertorio del comportamento umano in
istruzioni unificate” (Zetterberg, ibidem, p. 85). La razionalità routinizza la
vita quotidiana, ritualizza quella spirituale, contabilizza gli aspetti
economici e burocratizza quelli politici. “Fin dai tempi di Gustavo Adolfo –
continua Zetterberg – gli Svedesi tendono a guardare alla burocrazia come la
Ragione e la Giustizia incarnate. […] le regole hanno sostituito i governanti,
la tecnica ha sostituito l’autorità”. Questo per via di una persistente
sfiducia nelle emozioni umane: “una regola non può essere incostante, avida, o
malvagia ed è quindi preferibile all’imprevedibilità del fattore umano. Una
regola è la maggiore approssimazione possibile all’ideale della ragione pura;
compito dell’uomo è quello di osservarla alla lettera” (ibidem, p. 86). Vi è,
come abbiamo visto, una assoluta fiducia nei confronti delle autorità e del
potere in generale, quando è pubblico, e quasi nessuno pensa che ci debba
essere qualcuno che monitora i governanti (Quis custodiet ipsos custodes?).
Hans Magnus Enzensberger, che visitò la Svezia nel 1982 e pubblicò una serie di
osservazioni sulla società svedese, la chiamò “una condizione di innocenza
storica” e descrisse il problema in toni perentori: “I cittadini della Svezia
sono sempre pronti ad andare incontro alle loro istituzioni con lealtà e
fiducia, come se la benignità delle stesse fosse assolutametne fuori discussione.
Un comportamento che risulterebbe incomprensibile ad uno spagnolo, un
irlandese, un italiano o un francese… e persino i Tedeschi, ai quali si
attribuisce un atteggiamento particolarmente corretto verso l’autorità, da un
paio di decenni non possono più competere con gli Svedesi […]. Le istituzioni
acquisiscono un’immunità morale sempre crescente, sconosciuta alle altre
società. Limitare il potere del bene, controllarlo, mettersi sulla difensiva:
solo a dei malvagi potrebbero venire in mente idee simili. E allora non
sorprende il fatto che questo potere si estenda irresistibilmente, penetri in
tutte le fessure della vita quotidiana e regoli tutti gli impulsi della gente
in una misura che non trova riscontro nelle società libere. E così avviene anche
che gli apparati istituzionali possano confiscare non solo la maggior parte dei
redditi, ma anche i valori morali dei cittadini. Sono loro che provvedono alla
solidarietà ed all’uguaglianza, alla difesa e alla protezione, alla giustizia e
al decoro: tutte cose troppo importanti per essere affidate alla gente comune”
(Enzensberger, 1989, pp. 16-17.
L’uomo comune deve solo accettare il fatto che
ciò che l’istituzione pubblica sancisce essere giusto e bene regolerà molto
presto anche la sua sfera privata. Ciò che è fattibile ed efficace secondo una
scienza esatta diventa anche giusto in ogni dimensione del vivere, dalle
prescrizioni mediche ai rapporti tra figli e genitori, “ogni forma di
costrizione è un contributo all’auto-realizzazione di soggetti inconsapevoli”
(Colla, 1994, p. 116). Anche la terapia coatta e la sterilizzazione
involontaria o estorta: tutto ciò che consente di scivolare dall’essere (Sven è
tranquillo) al dover essere (Sven deve stare tranquillo), abolendo per legge i
conflitti tra le persone e, progressivamente, le loro manchevolezze. Il
drammaturgo Per Olov Enquist (1984) parla a questo proposito di un tentativo
sperimentale di produrre il buon cittadino per legge e di abolire il male,
sempre per legge.
Zetterberg elogia i paesi scandinavi per essere stati i
primi a promuovere internazionalmente l’umanitarismo, il grande tema della
civiltà occidentale. Aggiunge però che non fu il razionalismo a giustificarlo,
altrimenti non ci si sarebbe fatti carico delle persone con certe disabilità,
deformità, ritardi mentali, anziani senili, ecc. L’eugenetica è un caso
esemplare in tal senso. Fu il bisogno di organizzare armoniosamente le
interazioni sociali, anche su scala planetaria “La Svezia ha organizzato
l’umanitarismo ad ogni livello della società, dalla culla alla tomba, come in
nessun altro luogo al mondo” (op. cit. 90). Ma per ottenere questo obiettivo,
rispondendo alle esigenze di giustizia ed uguaglianza totali, “l’umanitarismo
razionale dev’essere ripartito in base a criteri impersonali e predeterminati…e
così perde la sua anima...il cittadino medio è tranquillizzato dalla presunta
affidabilità dell’umanitarismo burocratizzato ed inizia a credere che il
sistema si prenderà cura di tutti gli altri, senza che lui se ne debba far
carico. […]. È questo dualismo nella prospettiva morale, questa preoccupazione
per l’umanitarismo formale che coesiste con una carenza di umanità spontanea
che è così paradossale in Svezia… ovunque intervengano misure di welfare, i
normali contatti sociali si spezzano. Una regola crudele per un’attività
umanitaria” (ibidem, pp. 90-91).
Molto semplicemente, i singoli non possono
competere con la MegaMacchina assistenziale e anche quando tentano di farlo,
come fu il caso di un'insegnante che si occupava anche dei servizi di accoglienza
ai rifugiati, Annika Östman, rischiano una severa punizione. L’insegnante in
questione fu sanzionata per aver portato un profugo in ospedale usando la sua
auto e per averlo accudito nel tempo libero. Ciò le valse l’accusa di essere
inadatta al suo ruolo, che presuppone l’indifferenza personale, il disinteresse
ed il perseguimento dell’utile collettivo (Colla, 1993).
Una visione
complessiva in cui ciascun individuo è sostituibile giustifica l’indifferenza
personale. In un modello in cui nessuna persona è affidabile quanto l’apparato,
nessuna soluzione personalizzata è efficace quanto la pianificazione schematica
e razionale. Curioso che un paese socialista, la cui filosofia antropologica
dovrebbe essere per definizione ottimistica, faccia suo l’assunto misantropico
che le persone non sono per definizione capaci di realizzare la propria
felicità senza danneggiare gli altri. Si ha il paradosso di una premessa
essenzialmente reazionaria applicata ad un programma di ingegneria sociale
progressista, promosso da governi social-democratici.
Questa penosa incongruenza che pure è stata rilevata
anche dagli antropologi svedesi – “abbastanza paradossalmente, le
manifestazioni svedesi di solidarietà riflettono un'attitudine di scarsa
affettività nei confronti delle disgrazie altrui” (Daun, 1977) – non è però
percepita come tale dalla società nel suo complesso, perché la sfera pubblica è
quintessenzialmente innocente e la sfera privata confluisce in quella pubblica,
senza soluzione di continuità. Non vi è una reale possibilità di astrarsi dal
sistema per guardarlo criticamente dall’esterno, se non si è espatriati o
stranieri. Purtroppo, in una comunità coesa ed egoista, spaventata
dall’alterità, incapace di gestirla, si hanno “diritti” ossia, per meglio dire,
ci spettano delle prestazioni da parte del servizio pubblico, se ci si rende
utili, se si è cittadini industriosi; altrimenti si è esclusi (Colla, 1999).
La cosa sorprendente è che, nonostante il numero
crescente di severi ed argomentati ammonimenti, sopravvive ancora adesso, anche
in ambienti accademici, il mito dell’eccellenza svedese, testimoniato dal fatto
che si tratta della nazione con la minor povertà e disparità sociale nel mondo,
un mito che avrebbe gratificato oltremodo il Grande Inquisitore di Dostoevskij.
Nel 2006, in
occasione di un discorso alla Dag Hammarskjöld Foundation intitolato “What
Next? Visions of Global Solidarity, as Seen from Sweden” (Cosa
viene dopo? Visioni
di solidarietà globale da una prospettiva svedese”), Brian C. W. Palmer,
docente di teologia ad Harvard, ha descritto il suo sogno di un “processo di
globalizzazione social-democratico” ispirato dalla stessa eccitazione con cui
giornalisti, accademici, sindacalisti ed idealisti venivano in Svezia a
studiare “le frontiere della modernità sociale”. A sentire Palmer, nel
dopoguerra, mentre il bacino del Mediterraneo veniva descritto come “un
bastione neofeudale di papismo, patriarcato, gerarchia, disordine e
disuguaglianza”, la Svezia trovò nell’internazionalismo un sfogo per i suoi
sentimenti patriottici. Nacque il patriottismo internazionalista, con risultati
lodevoli, come la netta condanna dell’apartheid e il voto in favore
dell’indipendenza algerina in controcorrente rispetto alle altre nazioni
occidentali. Ora lo studioso aspira ad una rete del welfare globale sul modello
svedese, un progetto che dovrà prendere le mosse dall’assunto che “i vincoli
collettivi sono indispensabili per un’autentica solidarietà” e che quindi si
renderanno necessari “energici disciplinamenti” della popolazione globale.
Sembra così facile, per alcuni, dimenticare le lezioni della storia.
L’hybris svedese
La centralità del tema dell’autopurificazione,
della pulizia morale, di un esempio etico da seguire e di precisi dettami
teorici, ha influenzato l’aspirazione genetica di una società modello, composta
di cittadini coscienziosi e dalla ferrea rettitudine morale.
Luca Dotti
Sforziamoci di diventare un gruppo di costruttivi
fanatici, che con tenace ostinazione si rifiutano di accettare l'impossibile,
il negativo. Possiamo ancora realizzare ciò che vogliamo fare. Insieme. Un
futuro glorioso!
Ingvar Kamprad, fondatore dell'IKEA
La Svezia fu, dopo la Germania, la nazione che sterilizzò
più cittadini. Furono oltre 60mila e per il 95% donne. In proporzione alla
popolazione, fece peggio del Terzo Reich, sebbene in un arco temporale molto
più lungo, fino agli anni Settanta, quando le leggi eugenetiche furono
finalmente abrogate, molti anni dopo la loro condanna ufficiale da parte di
Olof Palme (Nordstrom, 2002; Etzemüller, 2003). Circa il 15% delle persone
sterilizzate aveva meno di vent’anni. Tra il 1943 ed il 1945 un terzo degli
aborti fu eseguito per ragioni eugenetiche. Tra il 1934 ed il 1939 solo un
quinto sterilizzazioni fu eseguito su richiesta ed anche in quel caso bisogna
tener conto delle pressioni sociali, della relativa ignoranza e dell’estrema
vulnerabilità delle richiedenti (ci si sterilizzava come condizione per essere
ammessi in una clinica, per ottenere una promessa di libertà per i malati
internati o la concessione della dispensa per contrarre matrimonio, per
effettuare un aborto). Tra il 1935 ed il 1941 il 35% delle sterilizzazioni fu
quasi certamente coatto (Zylberman, 1999).
Evangelici e pietisti furono in
prima linea nella predicazione del verbo eugenetico. Solo il partito comunista
e le frange estreme del partito socialdemocratico si opposero. Il programma
eugenetico svedese declinò non per ragioni morali ma perché gli psichiatri
svedesi si riunirono e dichiararono che la genetica aveva confutato la credenza
nella ereditarietà diretta di certi tratti comportamentali e quindi non sarebbe
più stato possibile garantire che le sterilizzazioni eugenetiche avrebbero
sortito gli effetti desiderati (Zylberman, 2004).
Nella Svezia del tempo tutti i cittadini erano uguali, ma
alcuni erano meno uguali degli altri e dovevano essere sterilizzati per il loro
bene e per non risultare nocivi al corpo sociale ed alla nazione, in caso di
procreazione. La classica tirannia delle buone intenzioni che dissimula
catastrofici pregiudizi ed inscalfibili preconcetti (Pred, 2000). Dal 1914 in poi una serie di
leggi chiuse la porta a nomadismo ed immigrazione non razzialmente e
culturalmente integrabile. Nel 1934 arrivò la prima legge che colpiva i
sinneslöa (gli imbecilli, mentalmente deprivati). “La nuova legge sulla
sterilizzazione del 1941 radicalizzò queste argomentazioni, bersaglio
principale diventarono non più genericamente gli “imbecilli” ma i comportamenti
asociali” (Marta, 2005, p. 105).
Una biografia di Alva Myrdal, scritta dalla
figlia Sissela Bok (1991) – la più penetrante e lucida delle tre biografie sui
Myrdal, tutte estremamente critiche e pubblicate dai loro tre figli, Jan,
Sissela e Kaj, che evidentemente sentivano il dovere di smitizzare i propri
genitori – ci può guidare attraverso la foresta di motivazioni e dogmi che
informarono queste decisioni scellerate. La Bok ricorda che i genitori, tra i
principali e sicuramente i più internazionalmente celebri artefici del
programma eugenetico svedese, martellarono in testa ai figli il principio del
rendersi utili (att vara till nytta) ma anche il disprezzo per la debolezza e
l’errore, che scivolava nel disprezzo per chi è debole e sbaglia. Gli stessi
genitori non si concedevano il lusso di essere deboli e di essere nel torto e
per questo non erano mai veramente felici. In queste memorie, che sono benevole
rispetto a quelle dei fratelli, Gunnar è dipinto come un pessimo padre che non
si prende cura dei figli, non si alza mai la notte se c’è bisogno di lui,
troppo concentrato a salvare la Svezia e il mondo per accorgersi dei malesseri
e delle esigenze familiari.
Cronicamente egocentrico, Gunnar era perfettamente
in grado di ferire chiunque fosse più debole di lui, sviliva i rivali,
insisteva con le ironie crudeli anche quando gli effetti erano visibili, come
se non dovesse mai rispondere delle sue azioni. Non considerava i figli e i
ragazzini in generale come persone di pari dignità perché, a suo dire, non
erano pienamente razionali fino ai 13 anni. Bok commenta amaramente: “È
rischioso crescere con dei genitori energici come Alva e Gunnar che invocano
ideali così audacemente e ciecamente, schiacciando i propri figli, a tratti
menomandoli psicologicamente e spiritualmente, e tutto questo nel segno della ragione
e dell’utilità sociale” (p. 189).
Fa riferimento al senso di colpa luterano, la
paura di non essere sufficientemente eccellente ed integerrima. Nel discorso
tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel, Alva Myrdal dichiara:
“ho sempre guardato allo sviluppo del mondo come una battaglia tra le forze del
bene e quelle del male”. La figlia osserva che era più facile per lei cercare
di identificarsi con le potenze benevole e vedere nei conflitti un qualcosa che
proveniva dall’esterno: pensarsi al servizio del bene rafforza le proprie
convinzioni e rinvigorisce lo spirito e l’autostima ma impedisce anche di
compiere gli indispensabili esami di coscienza, il vaglio delle proprie reali
motivazioni ed intenzioni, elimina scrupoli ed esitazioni, mette fuori gioco
l’obbligo di dover render conto agli altri ed a se stessi. Quando uno è
convinto di essere al servizio della ragione, della giustizia, dell’uguaglianza
e del bene non ci sono mai equivoci ed autoinganni e chi non la pensa come noi
è automaticamente classificabile come irrazionale, superstizioso, ignorante o
persino malvagio. A questo proposito, Bok cita proprio il caso del padre Gunnar,
con la sua fede nietzscheana nella sua eccezionalità, che lo esonerava da ogni
tipo di responsabilità verso le persone in carne ed ossa, nella sua
instancabile ricerca della promozione del progresso umano. Gunnar non credeva
che ci fossero aspetti della tradizione degni di essere preservati; tutto ciò
che era tradizionale era un ostacolo sulla via del progresso, il peso con cui i
morti zavorravano i vivi. Ciò valeva anche per l’istituzione familiare, ormai
obsoleta. Per Alva e Gunnar i bambini dovevano essere tolti ai genitori per
essere allevati in asili nido collettivi, come nelle peggiori utopie
totalitarie (distopie), perché solo così sarebbero diventati non parassiti ma
bensì persone adatte alla vita (livsriktiga), un’espressione che ricorda
sinistramente la formula nazista della vita indegna di essere vissuta
(unlebenswertes Leben), alla base del programma di sterminio dei malati mentali
e delle popolazioni incompatibili con l’esistenza su questo pianeta, come gli
Ebrei e i Rom-Sinti.
Entrambi erano persuasi di argomentare razionalmente,
mentre le altrui erano solo opinioni. Quasi tutte le riforme che caratterizzarono
il welfare svedese erano illustrate o accennate nei loro libri e quindi è
indubbio che esercitarono un’influenza enorme sugli schemi adottati per
perfezionare il materiale umano indigeno, rendendo i cittadini a parole più
indipendenti, ma solo nell’ottica di una loro maggiore utilità sociale. La Bok,
molto accortamente, accenna al parallelo con la pratica pedagogica descritta
nell’Emilio di Jean-Jacques Rousseau: “Emilio doveva essere plasmato alla
perfezione…ogni passeggiata, ogni conversazione, ogni domanda dovevano servire
a trasformarlo nel genere di persona che Rousseau ammirava di più, come argilla
umana” (p. 176).
I desideri dei due coniugi eugenisti furono esauditi solo in
parte: almeno un terzo delle sterilizzazioni furono coatte. Il numero di quelle
involontarie, ad esempio per evitare una denuncia o per uscire da un manicomio
(denunce e ricoveri erano elargiti molto generosamente nella Svezia del tempo,
bastava anche una segnalazione di vicini o parrocchiani invidiosi o irritati),
dev’essere anche maggiore.
Le sterilizzazioni puramente volontarie furono
sporadiche. Un membro del parlamento svedese, forte oppositore delle
sterilizzazioni, già nel 1923 aveva ben chiaro in mente dove questa
legislazione poteva condurre quando domandò agli altri deputati: “perché
dovremmo privare queste persone, che non sono di alcuna utilità per la società
e per se stessi, della capacità di procreare? Non sarebbe più premuroso
togliere loro la vita? Questo tipo di ragionamento equivoco sarà il risultato
dei metodi proposti” (Runcis, 1998).
Ciò nonostante i bambini divennero
proprietà dello stato e perciò andavano tutelati come una risorsa preziosa per
la collettività. I coniugi Myrdal avrebbero voluto oltrepassare i limiti
sanciti dalle legge e premevano per un più ampio (ed indiscriminato) impiego
della sterilizzazione coatta, dell’aborto selettivo e della sottrazione dei
minori ai loro genitori (Ekerwald, 2001). Alva Myrdal, la più moderata dei
coniugi, in “Nazione e Famiglia” (1941) ribadiva la necessità e l’urgenza di
assicurare la produttività ottimale dei cittadini futuri (“materiale umano”) e
di risolvere il problema degli “sfortunati residui”, “rimuovendo quelli che non
tengono il passo degli ordinari parametri di efficienza”. Altrimenti il loro
numero sarebbe aumentato “fino a sommergere le nazioni occidentali sotto un
insostenibile fardello assistenziale” (p. 92). La popolazione non era più
capace di rigenerarsi e servivano misure immediate: “i difettosi non dovrebbero
essere inclusi nei vari gruppi sociali ma computati a parte” (p. 96) e gli
interventi più decisi dovevano aggirare l’ostacolo del consenso informato.
Piero S. Colla è, a mio modesto avviso, lo studioso
italiano (e non solo) che ha più efficacemente sviscerato la questione
dell’umanitarismo misantropico svedese in un saggio magnifico per chiarezza,
concisione e completezza, intitolato “Per la nazione e per la razza. Cittadini
ed esclusi nel “modello svedese” (Colla, 2000). Desidero ripercorrere con i
lettori, per sommi capi, i momenti salienti della sua analisi, invitandoli
comunque a dedicare del tempo alla lettura dell’opera, che è un breve ma
esauriente corso di educazione civica applicata ad un caso-studio molto
emblematico.
Colla interpreta il pensiero eugenetico come
un’estensione dei canoni igienici alla sfera morale. In Svezia non si riconosce
all’individuo una dignità morale indipendente dalla sua capacità di dare un
reale contributo al benessere collettivo, a riprova del fatto che alterità ed
utopia non possono convivere: l’impulso ordinatore finisce per sfociare nel desiderio di eliminare ciò che stona. Colla – e questo è un punto essenziale –
afferma molto giustamente che in una democrazia la ricerca del bene comune è
l’unica maniera per espandere i diritti del corpo sociale a discapito dell’autodeterminazione
personale. Questa compressione dei diritti dei singoli viene legittimata
attraverso la retorica umanitaria della ricerca del benessere universale e
l’appello all’incontestabilità del piano di razionalizzazione della vita
sociale e della vita biologica.
Storicamente, in Svezia, ma potrebbe accadere
altrove, questo paradigma è servito a scatenare una vera e propria caccia alle
streghe che ha smagliato la trama delle garanzie giuridiche ed ha autorizzato
la violazione del giuramento di Ippocrate. Con un’enorme dose di ipocrisia, i
medici svedesi, nel violare il giuramento di Ippocrate, si convincevano che la
sterilizzazione non era una grave lesione personale perché non metteva a
repentaglio la salute. Infatti, “ovunque l’ipotesi di mutilare la persona in
nome dell’utilità pubblica venga presa in considerazione e respinta, questo
avviene nel nome della Legge, della Religione o della simpatia naturale con il
proprio prossimo, non della scienza né del benessere universale, la scienza e
l’economia ne rivendicano la necessità” (op. cit. p. 15).
Nell’ambito della
logica funzionalista e tecnocratica si tenderà a vedere in una vita non
socialmente utile un infortunio, a far corrispondere la distinzione qualitativa
tra persone con una distinzione di valore, ad enfatizzare l’imperativo della
difesa dell’armonia sociale dalle forze irrazionali esterne ed interne, a
promettere e ricercare una palingenesi interna al corpo sociale. Obiettivo
prioritario sarà quello della qualità totale del “materiale umano”
(människomaterial) ed il valore dell’esemplare umano dipenderà dal suo
contributo fattivo alla sforzo produttivo della nazione.
Nei dibattiti
parlamentare svedesi si arrivò perfino a parlare di “forniture di materiale” e
di scarti (avfallsprodukter) a proposito dei poveri da sterilizzare. È un modo
di pensare rigidamente gerarchico, ossia anti-democratico ed illiberale: si
privilegia il più forte perché i deboli compromettono l’ordine sociale e solo
una casta selezionata può preservarlo. Non c’è spazio per la contestazione del
cittadino ordinario: “una critica dell’ordine etico e politico basata sul
postulato dell’impossibilità costitutiva, per un attore sociale, di argomentare
in termini di giusto-ingiusto o di ricavare dall’ordine della tradizione un catalogo
di diritti trascendenti l’immanenza della realtà sociale, sanciva
l’illegittimità per un privato, o per un gruppo di interesse circoscritto, di
opporsi ad un governo della cosa pubblica guidato dalla razionalità” (ibidem,
p. 73).
Le obiezioni sono estremismi dottrinari, sentimentalismi dozzinali
indegni di uno stato moderno. Una commissione, commettendo un vero e proprio
crimine contro il pensiero giuridico moderno, si permise di stabilire che le
obiezioni alle sterilizzazioni formulate sul terreno delle premesse etiche e
legali sono irrilevanti. I due unici tentativi di far confluire i principi
garanti dei diritti dei singoli cittadini fallirono rispettivamente nel 1938 e
nel 1945.
Che il dibattito fosse in realtà un monologo del potere lo si può intuire
se si considera che, nella stesura delle leggi per la sterilizzazione
eugenetica le autorità svedesi si affidarono a due specialisti aderenti al
nazismo come il medico tedesco Alfred Ploetz e lo psichiatra svizzero Ernst
Rüdin, direttore dell’istituto “Kaiser Wilhelm” per la genealogia, la
demografia e la psichiatria di Monaco e principale consulente medico delle
politiche eugenetiche naziste.
Le autorità svedesi non erano minimamente
interessate alla ricerca della verità, ma piuttosto alla costruzione di un
consenso scientifico fittizio che convincesse gli ultimi dissenzienti. Nello
scoprire che migliaia di cittadine svedesi furono sterilizzate per “esuberanza
sessuale”, “volubilità”, “asocialità”, “imprevedibilità”, “incostanza”,
“anticonformismo”, “pigrizia”, cioè a dire per la carente cura di sé e mancanza
del giusto rispetto nei confronti delle norme sociali prevalenti, Colla si
domanda: “Esiste forse un limite al di là del qual il principio dell’utilità
sociale si svincola da ogni necessità di giustificare le proprie ragioni
davanti al diritto?” (ibidem, p. 115).
La lezione che traiamo dal caso svedese è che ci si
inganna se si crede di poter associare automaticamente progressismo ed
emancipazione; ed è una lezione che vale per mole altre realtà.
Penso ad
esempio alla città di Amburgo nel Terzo Reich. Progressista, cosmopolita, con un numero di voti per il nazismo relativamente basso e tra
le meno contagiate dal virus razzista: eppure il suo distretto fu quello che,
in proporzione, sterilizzò ed inviò nei campi di sterminio il maggior numero di
residenti (Ebbinghaus, Kaupen-Haas, Roth, 1984).
Fu la città che fornì il
maggior sostegno all’ascesa di Hitler e quella che gli rimase più fedele, a
dispetto dei bombardamenti a tappeto che la rasero al suolo. Gli Amburghesi si
compiacevano dell’efficienza con cui gli Ebrei erano stati rimossi dai gangli
dell’amministrazione pubblica e come quest’ultima era stata debitamente
nazificata, senza incontrare alcuna vera resistenza, neppure negli ambienti
accademici o in quelli ecclesiastici. Tutto filò liscio, a differenza di tanti
altri casi (Schmid, 2005).
Come si spiega un tale paradosso? È necessario
ritornare, con Weber, all’ethos protestante. Nel corso della Rivoluzione
francese e delle guerre napoleoniche Amburgo difese con le unghie e coi denti
il suo “robusto repubblicanismo”, che imponeva ad ogni cittadino di fare tutto
il possibile per assicurare il benessere della città-stato. Gli ideali,
anch’essi repubblicani, della rivoluzione francese erano giudicati
incompatibili con la tradizione locale per il loro carattere individualistico:
ciò che contava era l’autonomia della città, non l’autodeterminazione dei
cittadini. Sobrietà, parsimonia e duro lavoro erano e sono rimaste le virtù predilette, non
l’autodeterminazione dei singoli cittadini e la coltivazione di un paesaggio
interiore (Aaslestad, 2005).
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