La “Collezione Quellmalz”
Alfred Quellmalz (1899-1979) è il musicologo tedesco che ha il merito di aver raccolto quell’importante patrimonio culturale che è il repertorio delle canzoni sudtirolesi, operazione completata in due anni, tra il 1940 ed il 1942, su incarico dello “Staatliches Institut für Musikforschung” berlinese. Il frutto di questi sforzi fu una collezione di 415 nastri con 3300 pezzi, 7000 brani strumentali, 23 documentari filmati e 2000 diapositive. Un vero e proprio tesoro etnografico. Quellmalz, ostracizzato per il suo passato nazista, ritornò in Alto Adige negli anni Cinquanta, per riprendere il filo del discorso interrotto dalla sconfitta del Terzo Reich e trovò un ambiente molto favorevole, per la comprensibile ragione che questo tipo di ricerca era servito a preservare la tradizione locale dal tentativo di annichilimento culturale intrapreso dal regime fascista e sarebbe rimasto comunque utile anche in un Alto Adige re-incorporato nel dopoguerra, nello stato italiano, e per questo scosso da forti tensioni. Il lavoro di Quellmalz e l’opera di chi lo sta valorizzando ai nostri giorni – ad esempio tramite il programma Interreg III-A di digitalizzazione delle sue registrazioni - merita un particolare encomio, ma ciò non ci deve distogliere dall’altrettanto doveroso compito di segnalare le ombre che hanno contraddistinto la suddetta operazione. Non è infatti corretto trasmettere all’opinione pubblica il messaggio che Alfred Quellmalz e gli altri colleghi ricercatori si sono sottomessi all’ideologia nazionalsocialista per convenienza e che la maggior parte di loro era spinta soprattutto da interessi prettamente scientifici.
Malauguratamente Quellmalz, Wolfram ed i loro colleghi sono figure che si potrebbero definire “problematiche” solo usando un eufemismo. Quellmalz non era un semplice membro del partito nazista ma un SS-Untersturmführer messo a capo dell’Istituto per la Ricerca Musicale Tedesca da Heinrich Himmler in persona. Lo stesso Richard Wolfram, acceso pangermanista, aderì al partito nazista nel 1932, prima dell’avvento del regime e soprattutto in un paese come l’Austria dove questo partito venne bandito nel 1934. Non di opportunismo ma di sincera militanza bisognerebbe parlare. Nel 1939, dopo l’annessione dell’Austria al Terzo Reich, Wolfram fu premiato dallo stesso Himmler con la direzione del nuovo istituto per lo studio del folklore in un ateneo viennese nazificato e purgato da ogni presenza ebraica. Wolfram e Quellmalz furono poi protagonisti della ri-educazione dei giovani antropologi scandinavi, che furono convertiti al verbo della swastika e del pangermanesimo, in modo che il loro spirito e la loro mentalità si armonizzassero al patrimonio genetico ariano che li contraddistingueva (Schwinn, 1990; Dow/Lixfeld 1994; Nußbaumer, 2001).
Quanto alla loro attività etnografica, i loro meriti in materia di scrupolosità, efficienza ed investimento in innovazione tecnologica non possono in alcun modo oscurare il fatto che il materiale raccolto doveva superare il vaglio della purezza etnica e dell’integrità morale germanica. Venivano cioè rimossi sia i riferimenti osceni ed impudichi sia tutte quelle “influenze nocive” che presumibilmente velavano la radice viva della civiltà e della razza ariana e la sua continuità. E dove si potevano trovare queste primigenie radici germaniche se non nell’estremo nord e nelle valli alpine, dove queste erano ritenute più autentiche, perché rimaste intatte per millenni? L’obiettivo principale era quello di rinsaldare la coscienza razziale di un popolo – l’unità di stirpe, suolo, tradizione e sangue – giacché, come chiariva Himmler, “un popolo vivere felicemente il suo presente ed il suo futuro a patto che sia consapevole del suo passato e della grandezza dei suoi antenati”. Bisognava risvegliare la voce degli antenati nella psiche dei discendenti, costruendo un grande ordine eterno e circolare che legasse morti, vivi e nascituri. Gli etnografi in questione erano consapevoli di questa loro missione e la condividevano interamente. Così come appoggiavano l’obiettivo geopolitico, cioè quello di legittimare l’espansione dei confini del Reich fino alla Pianura Padana, separando una volta per tutte friulani, ladini e romanci dal mondo neo-latino. Ultimo punto, ma non per importanza, questa documentazione sarebbe servita per giustificare il “trasferimento” dei sudtirolesi verso est. Infatti una sera a cena, Adolf Hitler spiegò agli ospiti della Wolfschanze che: “il loro trasferimento in Crimea non presenta difficoltà fisiche né psicologiche. Non devono far altro che navigare su un corso d’acqua tedesco, il Danubio, e sono arrivati” (Trevor-Roper, 2000). Questi erano i progetti hitleriani, usare i Sudtirolesi come guardiani delle frontiere orientali del Reich e come carne da macello nelle operazioni anti-partigiane. Fine dell’Ahnenerbe per quanto riguarda i Sudtirolesi era quello di “seguire il principio della standardizzazione, cioè dell’inquadramento della cultura popolare sudtirolese nell’immagine delle SS del germanesimo e imporre la sua applicazione anche ai sudtirolesi insediati nei nuovi territori” (De Bastioni, 2004)
Difficile capire come ci possano essere dei sudtirolesi neonazisti, se non per una profonda ignoranza.
Sia come sia, non stiamo parlando del semplice uso di registrazioni, fotografie e video per fissare una realtà in via di deterioramento, ma di una rivoluzione reazionaria nel vero senso della parola, dal latino re-volvere, volgere indietro, ritornare alla premodernità, corrotta dal Cristianesimo prima e dall’Umanesimo ed Illuminismo poi, o quantomeno Non a caso, nel dopoguerra, Wolfram tuonò contro il Rock and Roll ed i fumetti, che considerava responsabili dell’imbarbarivano delle menti e dei costumi dei giovani. Come se ciò non bastasse, la Forschungsgemeinschaft Deutsches Ahnenerbe e. V. (“società di ricerca dell’eredità ancestrale”) per cui lavoravano Quellmalz e Wolfram, che aveva sede a Dahlem, il quartiere di Berlino dove gli antropologi medici affiliati alla suddetta organizzazione compivano atroci sperimentazioni umane, fu anche un’organizzazione dedita alla sottrazione di documenti, testimonianze e manufatti dai musei trentini ed alla de-italianizzazione di un’area considerata originariamente germanica.
La documentazione è comunque importante. Centinaia di registrazioni su nastro magnetico e migliaia di pagine di annotazioni etnografiche sono un bene prezioso. La domanda che ci dobbiamo porre è se sia giusto impiegare materiale raccolto da studiosi nazisti che hanno prostituito l’etnografia. Penso che, in questo caso, la risposta debba essere affermativa, ma lo si deve fare con spirito critico e sempre tenendo ben presente che i valori ed i fini che guidavano le ricerche di quel periodo erano agli antipodi di quelli che dovrebbero ispirare l’etnografia dei nostri giorni.
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