Ho trascorso un anno della mia
vita a Vancouver e in almeno un paio di occasioni mi sono recato nel quartiere
dove risiedeva Michael “Mischa” Seifert, il boia del lager di Bolzano, senza
esserne consapevole. A dire il vero, a quel tempo ero convinto che quasi tutti
i nazisti in fuga si fossero rifugiati in Sudamerica e negli Stati Uniti, se
potevano tornare utili al governo americano nella lotta al comunismo. Che uno
di loro (forse più di uno?) potesse risiedere anche a Vancouver, a circa sei
chilometri da casa mia, non mi aveva mai attraversato l’anticamera del
cervello.
Seifert è morto nel carcere
militare casertano di Santa Maria Capua Vetere, nel 2010, mentre scontava una
condanna all’ergastolo per l’uccisione di 11 internati nel campo di transito di
Bolzano (Polizeilisches Durchgangslager Bozen), tra il dicembre del 1944 e l’aprile
del 1945 quando lui, ucraino, serviva il Reich con la divisa delle SS, prima di
rifugiarsi in Canada, dopo la sconfitta. Ecco come lo descrive un ex-internato,
Alfredo Poggi: “Stupratore ed assassino di donne incinte, torturatore, sadico
seviziatore. Un vero e proprio mostro che trovò nel nazismo il suo habitat
naturale. La difesa della democrazia da ogni arbitrio totalitario è un baluardo
contro questi mostri, è un dovere morale ma anche una forma di autodifesa. L’alternativa
alla democrazia è una giungla di mostri in libertà, assoldati per fare il
lavoro sporco, in virtù di un loro terribile handicap – l’assenza di empatia –
che si dimostra particolarmente utile in un sistema che vede nella naturale
empatia della maggior parte degli esseri umani un ostacolo e non la promessa di
un futuro migliore. Questo è quel che succede quando la democrazia si estingue”
(Giorgio Mezzalira e Carlo Romeo, 2002, p. 65). Altre figure ripugnanti erano
quelle di Albino Cologna, un ex alpino infieriva su tutti con il vigore di chi
doveva dimostrare di non essere cedevole come gli Italiani che ora combattevano
contro l’ex alleato e il maresciallo tirolese Hans Haage che, a detta di un
testimone, “quando si trattava di ordinare o di dare bastonature, restava
imperturbabile come chi sa di compiere soltanto un dovere: sorvegliava la
triste faccenda per vedere se tutto era compiuto secondo gli ordini e se per
caso l'esecutore dimenticava un colpo di verga, egli tranquillamente si
avvicinava, prendeva il bastone che era anche di legno fasciato di filo di
ferro e dava lui il colpo dimenticato. Poi come se si alzasse dal suo tavolo,
si voltava e senza alcuna commozione per i lamenti dei feriti ci guardava e se
ne andava sereno e tranquillo”.
Un male tutt’altro che banale,
un male deliberato, risoluto, radicato.
Non era di questo avviso la
filosofa tedesca Hannah Arendt che, in una lettera a Jaspers datata 4 marzo
1951 (cf. Stella, 2006, p. 58), scriveva: “Penso che il male non sia un male
radicale che va alle radici; penso che il male non abbia profondità e che
questa sia la vera ragione per cui è così terribilmente complicato pensarlo,
poiché il pensare, per definizione, vuole andare alle radici. Il male è un fenomeno
di superficie. Non è radicale, è invece semplicemente estremo. Noi resistiamo
al male non scivolando sulla superficie delle cose, ma fermandoci e iniziando a
pensare, cioè raggiungendo una dimensione altra dell’orizzonte della vita
quotidiana. In altri termini, quanto più si è superficiali, tanto più
allegramente si sarà a disposizione del male. Un esempio di questa
superficialità è l’uso di frasi fatte, ed Eichmann era un esempio perfetto”.
Qualche anno più tardi, nel 1964, in una lettera al teologo ebraico Gerhard
Scholem (Cf. ibidem, p. 62) precisava: “ho cambiato idea e non parlo più di
"male radicale". […] Quel che ora penso veramente è che il male non è
mai "radicale", ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità
né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero,
perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso "sfida" […]
il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare
alle radici, e, nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova
nulla. Questa è la sua "banalità". Solo il bene è profondo e può
essere radicale”.
Io penso che questo equivoco –
la sottovalutazione della radicalità del male e la sopravvalutazione della
propria disposizione al bene – sia all’origine dell’incapacità umana di
compiere il vero bene. Quasi nessuno reputa di compiere il male, anche quando
lo fa. Quasi nessuno è in grado di capire le ragioni dell’altro, quando è un
nostro antagonista. Quasi nessuno è capace di uscire dal proprio egocentrismo e
mettersi veramente nei panni altrui, attribuendo al nostro prossimo una pari
dignità. Date queste premesse della natura umana, il nostro male non potrà mai
essere superficiale e il nostro bene sarà molto spesso equivoco, se non
malevolo, anche quando siamo certi di comportarci altruisticamente. Si va dal
volontario che non ammette di assistere gli altri per riempire un proprio vuoto
interiore e che quindi sfrutta la situazione tanto quanto l’assistito, al
comandante del campo di sterminio che va a dormire turbato perché le
circostanze non gli hanno permesso di “smaltire” la sua quota giornaliera di
Ebrei e si sente di aver tradito Hitler, la patria, i suoi commilitoni e l’umanità
tutta (“che, se sapesse quanto sono pericolosi questi Ebrei, gli mostrerebbe
una doverosa gratitudine”).
Vogliamo provare ad
identificare alcuni tratti comportamentali di una persona che potrebbe definire
malvagia? L’assenza o la carenza di empatia, il narcisismo, la megalomania, l’attitudine
a mentire e manipolare il prossimo, l’incapacità di provare scrupoli e rimorsi,
la superficialità emotiva, l’irresponsabilità, la misantropia, l’aggressività
(anche verso animali e l’intero ecosistema), la mancanza di autocontrollo, l’avidità,
la superbia, il fanatismo (l’ipermoralismo), la pretenziosità, l’invidia, il
parassitismo. Una persona che ottiene punteggi mediamente alti in questi
attributi può essere considerata malvagia, a mio parere. Immagino che la specie
umana possa essere distribuita lungo uno spettro continuo che va dall’antitesi
a questa costellazione di proprietà (l’occasionale santo o mistico) fino alla
loro massima espressione, che si riscontra negli psicopatici. Anche gli
psicopatici si differenziano tra loro. Ci sono psicopatici violenti e senza
controllo, che finiscono in carcere e psicopatici disciplinati che hanno
successo in vari ambiti sociali, dall’imprenditoria all’assistenza ospedaliera
o la cooperazione con il Terzo Mondo, ossia ovunque ci siano prede vulnerabili.
Alcuni sono ipermoralisti, diventano inflessibili, puntigliosi: seguono
pedissequamente le ricette morali come chi è alle prime armi tra i fornelli.
Questo perché non vogliono che qualcuno capisca che sono privi di morale, a
volte non lo ammettono neppure con loro stessi.
Non è una condizione invidiabile
quello dello psicopatico e ancor meno lo è quella delle loro vittime. Ma in
nessuno caso si può parlare di male banale. Come può essere banale un male che
disconnette dalla realtà, intorpidisce moralmente, assopisce l’empatia, spinge
a mettere sempre e comunque il proprio utile davanti a tutto il resto?
Impoverimento morale, durezza di cuore, la disattivazione del discernimento
morale, l’incapacità di sentire anche quando uno ha orecchi per sentire, di
vedere pur avendo occhi per vedere, una coscienza paralizzata che diventa
patologia sociale, nella direzione di una completa de-moralizzazione della vita
umana nella società. Che esistenza miserevole ed abietta è questa? Definirla
banale è indice di scarsa compassione e comprensione per chi vive in questo
modo, anche se è convinto che esso sia l’unico modo accettabile, l’unico modo
possibile. Sono persone che si comportano, letteralmente, come mostri,
distruggendo le vite di chi li incrocia, ma un briciolo di empatia dovrebbe
suggerirci che non hanno scelto loro di essere così, a meno che non esistano
anime che possono selezionare la propria reincarnazione, ma non è su questa
incerta base che si fonda un sistema morale.
Non ci può essere una genuina
moralità se manca la capacità della mente di separarsi da se stessa ed
osservare le sue operazioni dall’esterno e non c’è comportamento etico senza
attenzione. L’empatia, ossia l’amore impersonale è il legno, l’attenzione è la
scintilla. Su questo punto Hannah Arendt aveva ragione: Eichmann non aveva né l’una
né l’altra e “la sua incapacità di esprimersi era strettamente legata ad un’incapacità
di pensare, cioè di pensare dal punto di vista di qualcun altro” (Arendt,
2009). Eichmann era come l’Americano Tranquillo protagonista di un eccellente
romanzo-denuncia di Graham Greene scritto negli anni Cinquanta, quando l’autore
era già in grado di prevedere gli esiti funesti del coinvolgimento statunitense
nel Vietnam, allora una colonia francese che lottava per la sua indipendenza.
Il tranquillo cittadino statunitense in questione è Alden Pyle, all’apparenza
un medico volenteroso e posato, che si rivela poi essere uno zelante (e
spietato) agente della CIA, disposto a massacrare decine di innocenti in nome
della causa anti-comunista. Qui mi interessa soprattutto riproporre la
caratterizzazione che Greene imprime al suo personaggio. “Non era capace di
immaginare il dolore o il pericolo per se stesso, allo stesso modo in cui non
riusciva a riconoscere negli altri il dolore che causava loro” (Greene, 1983,
p. 63); “mi accadde diverse volte di scorgere nei suoi occhi un’espressione di
dolore e disappunto quando la realtà non corrispondeva alle idee romantiche che
si era fatto, o quando qualcuno che amava o ammirava non riusciva a dimostrarsi
all’altezza dei suoi inarrivabili standard” (p. 75); “sarà sempre innocente, e
non si può dare la colpa ad un innocente, perché sono sempre incolpevoli” (p.
183). Greene, però, non si permetterebbe mai di definirlo banale. Pyle è così
abile da ingannare persino se stesso, razionalizzando il male che fa, ed usando
la sua attenzione nei confronti del mondo in modo altamente selettivo, per
rimuovere la consapevolezza della sua responsabilità nelle conseguenze più
spiacevoli delle sue azioni. Chi ha visto il film tratto dal libro di Greene si
ricorderà forse la scena in cui l’ottimo Brendan Fraser, nei panni di Alden
Pyle, si pulisce con nonchalance il pantalone dal sangue che ha causato l’attentato
terroristico da lui stesso orchestrato. Solo l’attenzione può liberarci dalla
schiavitù dei nostri pregiudizi, emancipando il corpo e la mente dalle brame,
desideri ed impulsi infantili e soprattutto dalla necrofilia, intesa in senso
più ampio, come l’aspirazione più o meno consapevole ad una condizione di
quiete, inattività, inorganicità, morte, l’inclinazione a ripiegarsi su di sé
che promette un senso di pace fetale e che esiste in tutti noi. Freud lo
chiamava Thanatos, istinto di morte, contrapponendolo a Eros, la biofilia.
Questa contrapposizione deriva dall’autocoscienza. L’uomo è nella natura ma al
tempo stesso la trascende, ne è prigioniero, ma è anche libero. È un’anomalia,
né carne né pesce. È uno straniero nel mondo, un nomade e subisce l’estenuante
impatto psicologico di questa estraneità, come ogni forestiero. Può scegliere
di affrontare la sua ambivalenza, accettandola, oppure può cercare di scappare,
come gli gnostici e gli asceti, che odiano la materia, o come i panteisti, che
invece la amano ed anelano la fusione con essa, al punto da essere disposti ad
eliminare ciò che li tormenta, l’intelletto e l’autocoscienza. È, ci spiega
Erich Fromm in tante sue opere, la regressione all’esistenza animale, allo
stato di pre-individuazione, il tentativo di eliminare ciò che è specificamente
umano. La frustrazione per il proprio fallimento – la regressione è
virtualmente impossibile – produce una violenza compensativa, il sostituto
patologico della vita che ci fa sentire meno passivi, più padroni delle nostre
circostanze (la volontà di potenza). Se non posso regredire io, farò in modo
che tutto ciò che mi circonda sia trasformato in una cosa, in un oggetto
inanimato, che potrò dominare a mio piacimento, come Michael Seifert, lo
straniero alienato che trasforma l’essere umano in una massa organica e l’organico
in inorganico. Fromm ci spiega che spargere sangue ci fa sentire vivi e potenti
e chiarisce che non è la violenza dell’inettitudine, ma di chi non si è
emancipato dal cordone ombelicale di Madre Natura. Essere uccisi è l’unica
alternativa logica all’uccidere e, paradossalmente, riafferma il bisogno di
trascendere questa vita inappagata. È questa sindrome che ci rende malvagi,
distruttivi e disumani. In noi convivono le due inclinazioni. In alcuni è più
forte l’una (necrofilia) in altri l’altra (biofilia), ma queste possono
alternarsi in varie fasi della vita. L’importante sarebbe mantenerle in
equilibrio, evitando gli estremi di chi soffoca la vita per proteggerla e di
chi la uccide per trascenderla. In entrambi i casi il problema nasce dalla
paura di non riuscire a tenerla sotto controllo, di non sapere che fare di noi
stessi e delle nostre contraddizioni. Eichmann ama la vita ariana ed è disposto
ad uccidere quella giudea, se ciò può avvantaggiare la vita giusta, la vita
vera, la vita come la sua (apice del narcisismo: la vita a sua immagine e somiglianza).
Se è ossessivo e pedante, come ogni necrofilo, lo fa per quella che giudica una
giusta causa.
Eppure non siamo ancora giunti
ad una vera spiegazione di questo fenomeno. Lo psicologo sociale tedesco Harald
Welzer ci aiuta a scavare ancora più in profondità (Welzer, 2004). Siamo
abituati a credere che i nazisti abbiano ritenuto di essere malvagi, ma se
invece non avessero violato il loro codice morale e avessero creduto di agire
in accordo con le più nobili aspirazioni ed inoppugnabili principi? Se proprio
la convinzione di agire moralmente avesse consentito di compiere il male senza
provare alcuna ripugnanza, ma anzi orgoglio ed una coscienza pulita?
Welzer osserva che i nazisti
hanno fatto quel che hanno fatto precisamente perché la loro impressione era
quella di aver conservato intatto il loro codice morale: a mali estremi,
estremi rimedi. Nel Terzo Reich un gran numero di Tedeschi aderiva ad un codice
morale che invece di condannare l’omicidio lo autorizzava, anzi, lo esigeva,
assieme alla persecuzione e degradazione di altri popoli (non solo quello
ebraico). Uccidere era giusto, necessario e quindi era un valore positivo,
questo perché se la gente percepisce come reale una certa situazione, le
conseguenze di questa situazione saranno reali. In altre parole, ciascuno di
noi non vede la realtà com’è, ma come il suo cervello (coscienza) gli permette
di vederla. Per questa ragione tendiamo sempre a confondere la nostra mappatura
della realtà con la realtà stessa, ossia i nostri desideri, paure e pregiudizi
con i fatti. Di conseguenza ci è possibile agire in buona fede anche quando
commettiamo il male. Il che non ci rende meno colpevoli di quel che facciamo,
visto che, stando così le cose, dovremmo sottoporre le nostre idee ad un
costante scrutinio, se non vogliamo che esse si impadroniscano di noi. I
nazisti non solo non lo fecero, spinti dalla necessità di sfuggire al sospetto
di essere dalla parte del torto, ma anzi accolsero come oro colato qualunque
affermazione del regime che rafforzasse la loro convinzione di essere persone
moralmente integre ed uccisero con maggiore vigore proprio perché ogni
assassinio giustificava quelli precedenti. Furono liberati da questa smania
omicida solo dal crollo del Terzo Reich e del suo paradigma ideologico. Ma
alcuni non riuscirono mai ad emanciparsi dalla gabbia dottrinaria nazista,
perché ciò li avrebbe posti di fronte alla realtà della loro mostruosità. L’estremismo,
in fondo, è un buco nero, quando le azioni che si compiono non consentono più
di tornare indietro: esiste un punto di non ritorno oltre il quale la verità va
negata in ogni modo se si vuole continuare a vivere con se stessi (Sabini
& Silver, 1998).
Così Franz Stangl, comandante
austriaco dei campi di sterminio di Sobibor e Treblinka, aveva adottato come
massima di vita: “ciò che è giusto deve continuare ad essere giusto”. Il fatto
di sterminare popoli non era un problema, il suo problema era che nessuno lo
considerasse una persona ingiusta, insincera, scorretta, ecc. Lui si percepiva
e voleva essere percepito come un uomo di sani principi, equanime, imparziale,
efficiente e disponibile, andando anche oltre i suoi doveri professionali. Per
lui consentire ad un prigioniero di far morire suo padre in un ospedale del
lager piuttosto che in una camerata era il gesto di un uomo buono, che meritava
la gratitudine del prigioniero: “non c’è bisogno che lei mi ringrazi, ma se lo
vuole fare, lo può certamente fare” (Welzer, 2004). Stangl raccontò questo
aneddoto per dimostrare ai suoi accusatori che era rimasto un uomo integerrimo
ed umano, qualcuno che era perfettamente in grado di chiudere un occhio davanti
al regolamento, se così facendo poteva compiere un gesto altruistico. Questo
atteggiamento è solo apparentemente insensato e non è certo banale, anzi. Come
abbiamo detto in precedenza, esiste in tutti noi una fortissima riluttanza a
considerarci malvagi. Anche il criminale più efferato vuole che gli altri lo
giudichino umano, non vuole sentirsi completamente escluso dal consorzio umano,
ha bisogno di reputarsi sostanzialmente decente, nonostante tutto. Solo lo
psicopatico non si cura del giudizio altrui, se non nella misura in cui un’impressione
positiva può agevolare le sue manipolazioni. La conclusione di Welzer è che lo
sterminio non sarebbe stato portato a termine da perpetratori amorali. Degli
psicopatici saranno sicuramente stati coinvolti ad ogni livello ed avranno
anche fornito un contributo determinante, ma una tale organizzazione ed
efficienza richiedeva anche personale moralmente votato alla causa e non si può
ridurre il tutto a disfunzioni cerebrali innate o indotte nel corso della
crescita.
Il fatto è che chi compie il
male è quasi sempre convinto di fare il bene ed il peccato è l’orgoglio di chi
identifica il proprio tornaconto con la volontà di Dio o le leggi di natura: “so
cosa farebbe Dio se fosse al mio posto”, “so come Dio giudicherà queste azioni”.
Come si suol dire, il fanatico è uno che fa ciò che ritiene che Dio farebbe se
fosse veramente al corrente di come vanno le cose quaggiù.
A questo punto possiamo
tornare finalmente ad Adolf Eichmann che era un burocrate privo di idee, come
pensava Arendt, ma un fanatico dominato da certe idee, al punto da distorcere
la realtà per farla combaciare con i suoi desideri (Cesarani, 2006). Al punto
da organizzare lo sterminio di un nemico assoluto che, come spiega
efficacemente il filosofo politico Luigi Alfieri “è malvagio già nel suo mero
difendersi, è portatore di male già semplicemente perché non vorrebbe morire. I
buoni dovrebbero poter essere soltanto carnefici. […]. Il nemico non è un più
un nostro pari, con cui confrontarsi in una violenza equilibrata e in qualche
strano modo ancora ragionevole, ma, essendo portatore di male assoluto, deve
subire il male assoluto. È lui l'ostacolo che impedisce agli uomini di essere
tutti buoni, tutti felici, tutti belli, tutti nobili, tutti grandi, tutti
immortali: dunque non basta combatterlo e sconfiggerlo, bisogna annientarlo.
Perciò la forma “ideale” e paradigmatica di una “guerra” di questo genere è
quella in cui il nemico non si può difendere, quella della caccia all'uomo”
(Alfieri, 2003, p. 193).
Tale è l’alienazione di
Eichmann dalla realtà che un giorno arriva a lamentarsi dei casi della vita con
un prigioniero ebreo di nome Storfer, che conosceva molto bene prima della
guerra che è andata male: “che sfortuna incontrarsi in queste circostanze”,
commenta. Come se entrambi avessero in fondo gli stessi fini e gli stessi ruoli
e valori. Come se fossero stati scritturati per le rispettive parti e dovessero
seguire il copione, senza poter fare altrimenti, perché questa era la volontà
di poteri al di fuori della loro comprensione e controllo. Come se la
responsabilità per la presenza di Storfer in quel luogo non fosse sua. Anche in
questo caso, però, non c’è nulla di banale. Eichmann era sionista già dal 1933,
era cioè un fautore del contro-esodo degli Ebrei europei verso la Palestina.
Nel 1939 ordinò di punire severamente chiunque profanasse la tomba di Theodor
Herzl, padre del sionismo, a Vienna. Era presente alla trentacinquesima
commemorazione della sua morte, lo stesso anno. Frequentava le librerie
ebraiche e studiò un po’ di yiddish. Si recò in Palestina e confidò a degli
Ebrei che: “se fossi stato un ebreo, sarei diventato un fanatico sionista. Non
riesco ad immaginare di poter essere altro. Sarei stato il più zelante sionista
che si possa immaginare”. Li ammirava e li odiava. Era un uomo con una precisa
missione, non certo un comune funzionario. Le sue erano frasi di circostanza
rivolte a se stesso, non a Storfer. Ciò che contava era che gli altri
dipendessero da lui, che con la loro sofferenza e morte fornissero una prova
irrefutabile del suo potere su di loro. Freud la chiamava Bemächtigungstrieb,
pulsione di dominio e ne sottolineava il carattere non-sessuale. La vedeva all’opera
nella crudeltà infantile: l’individuo aspira a realizzare la sovranità totale
allo scopo di riaffermare il proprio io.
Anche le sue credenze
dimostrano che Eichmann era una figura fuori del comune. Era un panteista
ossia, nel gergo nazista, un Gottgläubiger, uno che non giura sulla Bibbia ma
ad un Creatore che corrisponde al “movimento dell’universo”. La sera prima dell’esecuzione
spiegò al suo confessore, il pastore evangelista William Hull: “nella mia
concezione, Dio, per via della sua onnipotenza, non è un punitore, non è un Dio
irato, ma piuttosto un Dio che abbraccia l’intero universo, l’ordine nel quale
sono stato collocato. Il suo ordine regola tutto. Tutto l’essere e il divenire –
incluso me – è soggetto al suo ordine” (Cesarani, op. cit.). Come per i suoi
camerati panteisti, così per lui l’uomo è insignificante, e non c’è alcuna
imposizione di vincoli morali e responsabilità globali. Il Dio-nella-natura di
Eichmann era talmente potente che tutto era già prestabilito e quindi l’individuo
non aveva né libero arbitrio né responsabilità. L’Ordine era un qualcosa di
mistico, vasto, una potenza superna, sovrumana alla quale si doveva obbedire.
Al processo gli chiesero se provasse alcun rimorso: “Il rimorso è una cosa da
bambini”. E lui i bambini ebrei li picchia a morte, come quello che si era
permesso di rubare un paio di pesche dal suo giardino a Budapest. Rivela al suo
subordinato von Wisliczeny, tutt’altro che banalmente, che: “Mi contorcerò per
le risa nella mia fossa, perché avere sulla coscienza la morte di sei milioni
di ebrei mi dà un’incomparabile soddisfazione”.
Condannato, richiede il
permesso di impiccarsi da solo. Riferisce al processo che già nel gennaio di
quell’anno, prima di essere catturato, era stato informato del fatto che
avrebbe subito un processo e che non avrebbe raggiunto i 65 anni di età. Per
questo afferma: “Sapere questo mi spinge a informarvi di tutto quel che so su
di me, senza alcun riguardo per la mia persona, che non ha più alcuna
importanza ai miei occhi”. Nel suo memoriale, compilato durante il processo, a
Gerusalemme, e mai pubblicato, scrive di sentirsi alienato da questo mondo: “Mi
sto progressivamente stancando di vivere come un viaggiatore anonimo tra due
mondi” (p. 133). L’incipit del suo memoriale è emblematico: “Il 19 marzo del
1906, alle cinque di mattina, a Solingen, ho fatto il mio ingresso nella vita
nella forma di una creatura umana” (Als ein Menschenkind, trat ich am 19. März
1906 in das Leben). Il giornalista olandese Harry Mulisch non è d’accordo: “Non
è un vero essere umano, si limita a prendere l’aspetto di un essere umano. É un
essere umano differente”.
Non si sente colpevole né
davanti alla legge, né davanti alla sua coscienza. Crede nella reincarnazione e
quindi non si autocompatisce. Il 15 agosto del 1961, trentesimo anniversario
del suo fidanzamento con Vera, sua moglie, nel memoriale Eichmann scrive: “La
morte non è peggiore della vita, e migliaia di vite ci attendono dopo la nostra”.
Più oltre, integra quest’affermazione, con riflessioni più articolate: “La
morte non fa altro che condurmi a nuove vite. Attenzione, non ad una nuova
vita, ma come l’ho scritto, al plurale. La morte dell’organico è una necessità
naturale nell’ottica del progressivo divenire della vita e serve al compimento.
Ogni trasformazione è un rinnovamento e nient’altro, dunque perché nutrire
paura ed ansietà? Non c’è nulla nell’universo che possa rimanere in uno stato
di quiete, tutto è perennemente in flusso e non c’è la morte come tale, perché
non c’è alcun nulla….Quando contemplo quest’opera devo dire che è un disegno
che mi allieta. Ciò che è tetro e oscuro scompare e ne sono lieto. […]. Conosco
la parte che mi è stata assegnata e so come recitarla fino alla fine di tutto.
[…]. Ciò mi consente di prendere le distanze dalle inezie quotidiane e tutta la
seriosità di ieri svanisce. Questa è la vera libertà, nata dalla consapevolezza
che nessun uomo sia capace di defraudarmi della mia pace interiore. Oggi ci è
di vantaggio l’apertura mentale, non l’ansiosa diffidenza, il pregiudizio, l’invidia,
l’odio. Sono ancora egoista, ma non più a spese degli altri”.
Fa riferimento a degli dèi
terreni (irdische Götter) nei quali crede, identificandoli con la dirigenza
nazista: “Ho servito gli dèi con tutto il mio essere e la mia fede. Non c’era
nulla che non avrei fatto per loro”. Però i due titoli da lui proposti per il
suo memoriale furono “Falsi dèi” o “Conosci te stesso”, l’esortazione apollinea
dell’Oracolo di Delfi, fatta sua da Socrate, l’antitesi di Eichmann. Sul
frontespizio doveva figurare un passaggio del “mito della caverna” di Platone: “giudicherebbe
più vere le ombre che vedeva prima delle cose reali che gli fossero mostrate
adesso”.
La sua coscienza, che equipara
all’anima, era per lui un sancta sanctorum nel quale non avevano accesso gli dèi
terreni, per quando lui fosse un credente devoto: “Su questo ero davvero
ostinato”. Si contraddice: allora non era vero che obbediva agli ordini e che
il dovere veniva prima della coscienza. Considera le affiliazioni religiose
importanti per l’educazione, ma giudica più importante liberarsi da ogni legame
che interferisca con il rapporto tra lui ed il suo dio. Sull’antisemitismo
spiega che la sua “non era una famiglia né anti-semita né pro-semita: non era
una questione rilevante”. A scuola il suo compagno di banco era ebreo e divenne
il suo migliore amico, un’amicizia che durò finché non se ne andò da Linz, nel
1933: “Non ce ne fregava un fico secco se uno era ebreo o no” (kümmerten uns
den Teufel ob Jude oder Nichtjude). Eppure era entrato nelle SS già nel 1932.
Non ha una coscienza: per lui si poteva essere SS e continuare a frequentare l’amico
d’infanzia ebreo. Studia l’ebraico da autodidatta con un testo dal titolo “Hebräisch
für Jedermann” (”Ebraico per tutti”). Poi si rivolge ad un rabbino per
migliorarlo.
Il crollo del Reich lo
sconvolse, ma se ne fece una ragione: “Alla fine sono riuscito a riconoscere
nel movimento cosmico, nel movimento dell’universo, il vero e più originale
significato dell’intera esistenza. Ora che tutto era di nuovo al suo posto, il
mio essere poteva calmarsi, perché non mancavo di guida; ero come prima, spinto
in avanti. Tutto era chiaro, semplice, persuasivo e mi rendeva felice”. Spiega
che l’anelito verso la verità (der Hunger nach der Wahrheit) è ciò che ci rende
umani, senza di esso la vita umana sarebbe più triste e difficilmente
sopportabile. Verità sulle cose ultime che non si trovava certo nella Bibbia. “Un
tale dio, arrabbiato e vendicativo, era inconcepibile; troppo umano, per nulla
divino”. E allora “ho creduto che fosse più semplice e sicuro incontrarmi da
solo con il mio Signore, senza avvalermi della mediazione di pastori
evangelici, se non altro perché anche loro sono soggetti alle debolezze umane,
così come lo stesso Protestantesimo è una creazione umana”. Di qui la sua
scelta di non giurare sulla Bibbia ma a Dio testimone, perché sono un credente
in dio (gottgläubig): “E infatti lo sono. Ma non lo personalizzo. Credo in una
forza creativa onnipotente che tutto dispone, ciò che era, che è e che sarà.
Credo in Dio (scrive “das Gott” in luogo di “der Gott”, sottolineando il “das”,
ossia il genere neutro, per evidenziare la trascendenza della classica
distinzione di genere) e io sono l’uomo, un rivolo nel grande flusso del
divenire, nel nostro essere, conformemente alla sua volontà e tolleranza”.
Seguendo questa volontà, non poteva commettere il male, perché il Governo della
Creazione non poteva errare e, conformandosi ad esso, la vita sarebbe diventata
necessariamente migliore per tutti. In fondo, continuava, “nella vita organica
non esiste nulla di intenzionalmente maligno, anzi, essa è piuttosto benigna,
fatta eccezione per l’uomo. […]. Il fatto è che sono nella vita dell’essere e
che la vita è un divenire-affermarsi dell’essere. E fino a quando l’essere e la
vita continuano, io sono quest’eterno andirivieni, questo morire e divenire,
sono immortale. E non vedo come la vita possa essere un peso – sebbene io mi
trovi in una cella – e faccio fatica a capire perché uno si dovrebbe sentire
tormentato dalla paura di morire…Il fato di un popolo, com’è decretato dalla
natura, non può essere nulla di terribile. È per me impensabile, quando
contemplo il naturale corso delle cose, credere che l’Ordine che c’include nel
suo piano lasci che solo la futilità e la sofferenza determinino il nostro
destino…Il pensiero della pienezza di forme di vita attraverso le quali dovrò
esistere per un impulso naturale, mi rallegra. È la nostra inadeguatezza che il
motivo per cui noi umani dobbiamo ancora sopportare e causarci così tanto
dolore e sofferenza. L’uomo è soggetto ad un perpetuo processo di compimento
nel divenire. Eppure siamo solo al principio della nostra formazione e ciò che
ora ci causa paura e terrore sarà smussato dalla mola del divenire. La
sofferenza e l’oppressione dei popoli delle epoche passare erano molto più
grandi delle nostre e nei tempi futuri i nostri discendenti, sulla base di un’analoga
scala, concorderanno con noi. […]. Un ordine benevolo non desidera certamente
il decadimento. Non nutro alcun dubbio in merito e questo dà a me, che sono
stato collocato in una sequenza organica di eventi, una sensazione di gioia e
calore. […]. È impossibile che la volontà dell’ordine sia che la sua creazione
debba degenerare nella paura, nell’ansia e nel dolore. […]. Perciò non posso
condividere la posizione sartreana che la vita, come la morte, siano assurde.
Mentre posso ammettere che siano di scarsa importanza, dal punto di vista del
divenire nell’essere, esse riguardano la mia persona”.
Ciò che lo avvicinò al nazismo
fu quel che definiva “l’idealismo romantico di un primitivo”, una concezione in
cui “potevo indulgere nell’entusiasmo per la natura, senza limiti, a briglia
sciolta, e ciò mi conferiva una meravigliosa sensazione di pace interiore”. In
ogni occasione, di fronte a problemi e difficoltà, quando sentiva di non poter
cambiare nulla “perché non era né causa né effetto, ma solo un balocco dello
stato”, quello diventava il suo taumaturgico “armadietto dei farmaci”
(Medizinschrank). Durante il nazismo “c’era l’opportunità di far svanire l’individuale
nel collettivo e fondersi ideologicamente nel pensiero di massa. Questa era una
prospettiva che non mi disturbava perché mi spettava in ogni caso – non mi sono
mai assunto responsabilità che andassero oltre quelle relative ai bisogni della
mia famiglia”. Essere nelle SS in tempi di pace garantiva il soddisfacimento di
ogni necessità materiale, in tempi di guerra significava molto probabilmente la
morte: “ma se ti sei già rassegnato a pensare in termini collettivistici è una
vita relativamente confortevole; ovviamente meno dal punto di vista della vita
corporea, ma a me sta a cuore la vita interiore”.
Ricordava che nel 1938 era
rimasto colpito da alcuni saggi massonici su Giordano Bruno, sul suo panteismo
e sulla sua ribellione alla Chiesa, ma aggiungeva che lui non era un Giordano
Bruno e se si fosse opposto sarebbe stato fatto sparire in men che non si dica:
“è facile oggi parlare dell’uomo come sovrano della sua volontà, della
preservazione dei propri valori personali, dell’etica dei principi
(Gesinnungsethik) e così via. Anch’io una volta ci tenevo alla libertà dell’individuo
e contrastavo ogni assoggettamento spirituale. Desideri e sogni ad occhi aperti
mi intossicavano, temporaneamente. Ma poi ho capito e ora vi posso dire:
provate a metterlo in pratica. Nel bel mezzo di una guerra omicida, sotto un
governo totalitario, quando siete dei subordinati e ricevete degli ordini.
Vedrete la differenza, allora, tra teoria e pratica”. E, in ogni caso, “a cosa
servono la mera conoscenza e volontà, se poi le tue azioni non hanno alcun
affetto? Nessuno può dire che questo succede solo negli stati totalitari. L’emisfero
occidentale ha fornito e fornisce un mucchio di esempi”.
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