mercoledì 19 ottobre 2011

Il vero Gandhi - nulla di cui essere orgogliosi



Ho imparato la lezione della non-violenza da mia moglie, quando ho cercato di piegarla alla mia volontà. La sua determinazione nel resistere al mio volere da un canto, e la sua quieta sottomissione alla sofferenza provocata dalla mia stupidità, dall'altro, hanno finito per farmi vergognare di me stesso e convincermi a guarire dalla ottusità di pensare che ero nato per dominarla; in questo modo è diventata lei la mia maestra della non-violenza.
Harijan, 24 dicembre 1938

Più la pratico più vedo con chiarezza quanto io sia lontano dalla piena espressione dell’ahimsa nella mia vita
Harijan, 16 novembre 1947

Non devo…compiacermi nel credere, né consentire agli amici…di farlo, che abbia potuto manifestare alcuna eroica e dimostrabile non-violenza io stesso. Tutto quello che posso affermare è che veleggio in quella direzione senza un attimo di tregua.
Harijan, 11 gennaio 1948

Se oltrepassiamo la patina di semidivinità che le agiografie ufficiali hanno conferito alla figura di Gandhi e ci inoltriamo nei resoconti della sua quotidianità, come ad esempio quelli contenuti nelle due biografie di due nipoti del Mahatma, Rajmohan Gandhi (2006) e Uma Dhupelia-Mesthrie (2005), che sono cresciuti a contatto con persone che hanno convissuto con lui, dobbiamo accettare il fatto che fu un pessimo padre e marito. Prenderne coscienza ci aiuta però ad umanizzarlo, a riportarlo tra noi, nella concretezza delle vicende di ogni giorno, delle nostre debolezze, meschinerie, paure, insicurezze, violenze. A dire il vero, abbattere il mito e riscoprire l’uomo è l’unico modo per far sì che le sue meravigliose illuminazioni – che tali rimangono – possano davvero toccare le nostre vite (Hardiman, 2003).

La biografia di Uma Dhupelia-Mesthrie, pronipote di Gandhi – che ebbe quattro figli: Harilal, Manilal, Ramdas e Devdas – è quella che dedica la maggiore attenzione al rapporto tra Gandhi, i suoi figli e la moglie, pur concentrandosi soprattutto sulla vita di Manilal, il secondogenito, il figlio più fedele ed ossequiente, il più mite di tutti. È una lettura che ci guarisce dalla tendenza tutta umana a idealizzare i nostri eroi e, in una certa misura, ci incoraggia, ci restituisce fiducia nei nostri mezzi, ci fa capire che a questo mondo non ci sono superuomini, ma solo esseri umani, nel bene e nel male.

Gandhi impedisce al figlio Manilal di realizzare il suo sogno di diventare medico perché gli serve un giornalista, gli proibisce di sposare la donna che ama, Fatima Gool, perché è musulmana (p. 175), gli vieta di imparare a suonare il pianoforte perché è inutile. Pur avendo la possibilità di mandare uno dei figli a studiare in Gran Bretagna con una borsa di studio, preferisce mandare un nipote, con gravissimo scorno di Manilal, che adorava lo studio. Gli ingiunge però di non studiare legge o medicina perché “siamo poveri e vogliamo rimanere tali. Il denaro serve solo per vivere”. Una delle poche volte che Manilal si ribella è quando Gandhi gli impedisce di salire sulla panoramicissima “Montagna Tavolo” (Tafelberg, Table-Mountain) durante un soggiorno a Città del Capo, spiegandogli che una volta in India sarebbe potuto salire sull’Himalaya, che contiene migliaia di “Montagne Tavolo”. In quell’occasione Manilal lo accusa per la prima volta di crudeltà e difende il suo diritto di giovane di potersi svagare, specialmente dopo essere stato in prigione per aver sfidato il governo sulle orme del padre. Il padre però, in seguito, lo redarguisce: “per quel che posso vedere, non hai fatto alcun progresso spirituale durante il tuo periodo in cella” (p. 119).

Manilal viene castigato per aver aiutato economicamente il fratello Harilal. Viene mandato senza un soldo a Madras, dove dovrà riguadagnare la somma consegnata al fratello, prima di poter tornare, ma senza usare il nome di suo padre per farsi aprire delle porte. Un’esperienza talmente straziante che anche anni dopo si metteva a piangere nel ricordarla. Gandhi costringe i figli a seguire meticolosamente il suo stile di vita ed il suo regime alimentare perché non vuole che commettano i suoi errori di gioventù. Per far rigar dritti i figli minaccia o pratica il digiuno finché questi non ammettono l’errore, si pentono e promettono di non sbagliare più. Questo perché “sottoponendosi alla sofferenza nella propria persona si può convertire al proprio punto di vista chi sbaglia” (p. 108). Quando Manilal un giorno bacia un’altra adolescente, suo padre digiuna per sette giorni per punirlo. Per farlo desistere Manilal gli deve promettere che non si sposerà mai senza il consenso paterno. Gandhi usa piuttosto spesso il digiuno per educare i figli, anche a distanza, quando lui si trova in India e Manilal in Sud Africa, nonostante il fatto che aveva chiaramente stabilito che il digiuno non poteva essere usato come arma di ricatto morale e conversione al proprio punto di vista, perché ciò costituiva una violenza. A volte il digiuno è la pena inflitta ai figli. Un giorno, durante un digiuno punitivo imposto a Manilal, dice, crudelmente, alla sua presenza: “se [Manilal] muore nel corso del digiuno, non bisognerà rammaricarsi. Se qualcuno muore nel tentativo di autopurificarsi quale altro momento sarebbe più opportuno per l’arrivo della morte?” (p. 109).

Ogni punizione dev’essere pubblica perché “non ci doveva essere alcuna privacy nelle loro vite; erano legati alla comunità e le loro azioni erano pubbliche” (p. 109). Esasperato, una volta cresciuto Harilal dice a suo padre che avrebbe preferito essere bastonato piuttosto che subire l’umiliazione di una pubblica strigliata.

Nei ricordi di infanzia di Manilal non c’erano divertimento e giochi, ma solo lezioni e disciplina, necessarie a renderlo più simile al padre (p. 83), per il suo bene e nel suo interesse: “come un medico, devo farti ingoiare bocconi amari” (p. 119). Perfino l’amico Rabidranath Tagore, Nobel per la Letteratura nel 1913, per un breve periodo simpatizzante per i fascismi europei, osserva che i figli di Gandhi sono “troppo austeri”, “imbevuti di disciplina laddove necessitavano di ideali” (p. 136). L’autrice scrive che “Gandhi…fu un padre autoritario, severo e motivato da un ideale. Cercò realmente…di plasmare Manilal a sua immagine e somiglianza. Non permise ai figli di sviluppare le loro esperienze del mondo, ma si sforzò sempre di fornire un ambiente controllato per proteggerli dagli errori che potevano commettere”, ma aggiunge anche che “c’era anche gentilezza e sincero amore nei confronti dei figli” (p. 83).

Anche il migliore amico di Gandhi, Hermann Kallenbach, aveva una personalità autoritaria. La sua pronipote, Isa Sarid ricorda così i venti anni trascorsi con lui: “da bambina lo rispettavo, riverente e lo ammiravo, eppure ero sempre un po’ intimorita…Si aspettava da me obbedienza assoluta, non erano tollerate obiezioni e non potevo fare a meno di risentirmi per le regole rigide che governavano la mia esistenza. Ho pianto molte lacrime, lacrime di mortificazione e di risentimento” (p. 127).

Dalla cella Gandhi scrive lettere a Manilal istruendolo su cosa leggere, che lavoro fare, come prendersi cura della famiglia e persino dove metter su casa. Infatti impedisce loro di trasferirsi in un ambiente urbano, perché è un grande sostenitore della vita rurale, spiegando: “ciò significherebbe che tutti i miei ideali sono sbagliati e che tu non credi in loro o non ne sei all’altezza. […] se non puoi onorare la memoria di tuo padre, non dovrai comunque disonorarla” (p. 233-234). Sceglie per lui la moglie – la figlia di un suo facoltoso sostenitore – pur ribadendo la sua opposizione al matrimonio. Infatti non crede nell’amore, se non tra fratello e sorella. È solito dire che l’amore per una donna è “un’infatuazione o un desiderio carnale” (p. 176). Sceglie di astenersi dal sesso perché sarebbe stato di disturbo nella sua attività politica. Chiarisce il suo pensiero a questo riguardo in una conversazione con Manilal, che in quel momento ha 26 anni, cercando di dissuaderlo dallo sposarsi: “non sei mio prigioniero ma mio amico. Ti darò un consiglio onesto; puoi riflettere su ciò che dico e poi agire come meglio credi. Non vorrei mai che facessi qualcosa di peccaminoso solo per paura di me. Non voglio che tu veneri me o chiunque altro. A mio avviso tu non dovresti sposarti. Il tuo bene non si trova nel matrimonio…non indulgere in sogni ad occhi aperti; abbiamo mille desideri e non possono essere tutti soddisfatti” (p. 173). In un’altra occasione, quattro anni dopo, quando Manilal ha 30 anni, ripete quando detto in precedenza: “finché non pensi al matrimonio, sarai assolto dai tuoi peccati….credimi, non c’è felicità nel matrimonio…non posso immaginare un’altra cosa tanto orribile quanto un rapporto sessuale tra uomo e donna” (p. 174). Nell’attacco o nella chiusura delle sue lettere Gandhi si preoccupa sempre di precisare che suo figlio è un uomo libero e che i suoi non sono ordini, ma nel testo i suoi desideri sono inequivocabilmente enumerati ed argomentati. Così, ad un nuovo tentativo di chiedere il permesso di sposarsi, Gandhi lo avverte: “se ti fidanzerai, potresti non essere più capace di rendere alcun servizio [alla causa]” (p. 175). Gandhi arriva persino ad imporre alla figlia di Manilal e della nuora Sushila un nome che quest’ultima detestava, perché nella mitologia indù era associato ad una figura tragica, martirizzata. I due genitori dovettero acconsentire a darglielo come secondo nome, ma fu proprio quello, prediletto da Gandhi, a diventare il nome di uso comune, a causa dell’insistenza del nonno.

La dottrina della resistenza nonviolenta (satyagraha) è un dogma per i figli di Gandhi, che non hanno accesso all’educazione pubblica, ma solo a quella domestica, impartita dal padre. Sull’esempio tolstojano – c’è amicizia e reciproca ammirazione tra Tolstoj e Gandhi –, invece di leggere i classici ed imparare a suonare (“la conoscenza delle lettere”), devono dedicarsi ai lavori manuali (“la conoscenza dei doveri”) per sviluppare carattere ed umiltà. Si fa fatica ad immaginare che potessero sviluppare una spina dorsale con un genitore così autoritario ed onnipotente. Se lo chiede anche sua nipote: come si può avere autostima se neppure la più piccola decisione può essere presa senza prima consultarsi con il proprio padre?

Gandhi si rende conto della situazione del figlio Manilal: “non riesci ad uscire dalla mia vita e tuttavia non ti piace restarci. Per questo non sei in pace con te stesso” (p. 140). Tenta di spiegargli le ragioni del suo comportamento: “questo amore può sembrarti crudele, al momento, perché come un medico devo farti ingoiare delle pillole amare…Ma sono impaziente di aiutarti…a diventare perfetto. L’impazienza è il mio punto debole….voglio vedere in te onestà, castità, schiettezza, gentilezza, fiducia in te stesso, umiltà e bontà. Ti voglio vedere indifferente ai piaceri del mondo. Dubito che tu abbia queste qualità al momento attuale” (p. 119). La fiducia in se stesso rimase la virtù più carente nel secondogenito, che ben presto si accorse che la disubbidienza civile poteva avere successo solo se si era celebri. Pur essendo il figlio di Gandhi, i suoi digiuni, come pure i suoi scritti, erano ignorati dalle autorità sudafricane.

Come spesso accade ai fratelli, Harilal e Manilal reagirono al paternalismo autoritario di Gandhi in maniera completamente opposta. Il primo lo ripudiò e divenne un donnaiolo, si convertì all’Islam e morì alcolizzato. Manilal gli rimase fedele anche se Gandhi, non volendo passare per un nepotista, favoriva i figli degli altri a danno dei propri, anche se la madre dell’autrice descrive il rapporto tra suo padre e Gandhi nei termini di “prigioniero” e “schiavo” (enslaved). Arun, figlio di Manilal e zio dell’autrice, conferma che suo padre “sembrava non possedere una volontà indipendente da quella di Bapu” (Gandhi). Kasturba, moglie di Gandhi, si lamentava con suo marito che i suoi figli erano marionette nelle sue mani, che stava imponendo loro una particolare visione del mondo e li stava trasformando in asceti molto prima del tempo. Aveva ragione: Gandhi si rifiutava di curare la moglie ma anche il figlio con le medicine occidentali e, siccome era vegetariano, impediva alla moglie di nutrire il figlio malato con uova e carne, come consigliato dai medici, perché la famiglia doveva essere vegetariana, con il risultato di prolungare inutilmente la sofferenza del piccolo. Nel 1914, Kasturba, frustrata oltre ogni limite, accusò il marito di averla costretta a privarsi del cibo migliore per ucciderla, perché era stufo di lei ed era una serpe. Invece di chiedersi se la sua rigidità ed autoritarismo non stessero distruggendo la sua famiglia, Gandhi, colpito da questa reazione, confidò all’amico Kallenbach che Kasturba conteneva in sé “il divino ed il demoniaco in una forma altamente concentrata…È la donna più velenosa che abbia mai incontrato. Non si dimentica di nulla, non perdona nulla” (p. 128). Resta il fatto che, al dunque, negò alla moglie l’iniezione di penicillina che l’avrebbe salvata dalla polmonite, malattia che la uccise, il 22 febbraio del 1944. La dura lezione lo rese più flessibile: quando poco dopo contrasse la malaria, accettò di farsi curare con il chinino, e non rifiutò l’operazione di appendicectomia che gli salvò la vita in un ospedale britannico.

1 commento:

LexMat ha detto...

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Ti ringrazio.
LexMat
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