Ho
imparato la lezione della non-violenza da mia moglie, quando ho cercato di
piegarla alla mia volontà. La sua determinazione nel resistere al mio volere da
un canto, e la sua quieta sottomissione alla sofferenza provocata dalla mia
stupidità, dall'altro, hanno finito per farmi vergognare di me stesso e
convincermi a guarire dalla ottusità di pensare che ero nato per dominarla; in
questo modo è diventata lei la mia maestra della non-violenza.
Harijan, 24 dicembre 1938
Più
la pratico più vedo con chiarezza quanto io sia lontano dalla piena espressione
dell’ahimsa nella mia vita
Harijan, 16 novembre 1947
Non
devo…compiacermi nel credere, né consentire agli amici…di farlo, che abbia
potuto manifestare alcuna eroica e dimostrabile non-violenza io stesso. Tutto
quello che posso affermare è che veleggio in quella direzione senza un attimo
di tregua.
Harijan, 11 gennaio 1948
Se oltrepassiamo la patina di
semidivinità che le agiografie ufficiali hanno conferito alla figura di Gandhi
e ci inoltriamo nei resoconti della sua quotidianità, come ad esempio quelli
contenuti nelle due biografie di due nipoti del Mahatma, Rajmohan Gandhi (2006)
e Uma Dhupelia-Mesthrie (2005), che sono cresciuti a contatto con persone che
hanno convissuto con lui, dobbiamo accettare il fatto che fu un pessimo padre e
marito. Prenderne coscienza ci aiuta però ad umanizzarlo, a riportarlo tra noi,
nella concretezza delle vicende di ogni giorno, delle nostre debolezze,
meschinerie, paure, insicurezze, violenze. A dire il vero, abbattere il mito e
riscoprire l’uomo è l’unico modo per far sì che le sue meravigliose
illuminazioni – che tali rimangono – possano davvero toccare le nostre vite
(Hardiman, 2003).
La biografia di Uma
Dhupelia-Mesthrie, pronipote di Gandhi – che ebbe quattro figli: Harilal,
Manilal, Ramdas e Devdas – è quella che dedica la maggiore attenzione al
rapporto tra Gandhi, i suoi figli e la moglie, pur concentrandosi soprattutto
sulla vita di Manilal, il secondogenito, il figlio più fedele ed ossequiente,
il più mite di tutti. È una lettura che ci guarisce dalla tendenza tutta umana
a idealizzare i nostri eroi e, in una certa misura, ci incoraggia, ci
restituisce fiducia nei nostri mezzi, ci fa capire che a questo mondo non ci
sono superuomini, ma solo esseri umani, nel bene e nel male.
Gandhi impedisce al figlio
Manilal di realizzare il suo sogno di diventare medico perché gli serve un
giornalista, gli proibisce di sposare la donna che ama, Fatima Gool, perché è
musulmana (p. 175), gli vieta di imparare a suonare il pianoforte perché è
inutile. Pur avendo la possibilità di mandare uno dei figli a studiare in Gran
Bretagna con una borsa di studio, preferisce mandare un nipote, con gravissimo
scorno di Manilal, che adorava lo studio. Gli ingiunge però di non studiare
legge o medicina perché “siamo poveri e vogliamo rimanere tali. Il denaro serve
solo per vivere”. Una delle poche volte che Manilal si ribella è quando Gandhi
gli impedisce di salire sulla panoramicissima “Montagna Tavolo” (Tafelberg,
Table-Mountain) durante un soggiorno a Città del Capo, spiegandogli che una
volta in India sarebbe potuto salire sull’Himalaya, che contiene migliaia di “Montagne
Tavolo”. In quell’occasione Manilal lo accusa per la prima volta di crudeltà e
difende il suo diritto di giovane di potersi svagare, specialmente dopo essere
stato in prigione per aver sfidato il governo sulle orme del padre. Il padre
però, in seguito, lo redarguisce: “per quel che posso vedere, non hai fatto
alcun progresso spirituale durante il tuo periodo in cella” (p. 119).
Manilal viene castigato per
aver aiutato economicamente il fratello Harilal. Viene mandato senza un soldo a
Madras, dove dovrà riguadagnare la somma consegnata al fratello, prima di poter
tornare, ma senza usare il nome di suo padre per farsi aprire delle porte. Un’esperienza
talmente straziante che anche anni dopo si metteva a piangere nel ricordarla.
Gandhi costringe i figli a seguire meticolosamente il suo stile di vita ed il
suo regime alimentare perché non vuole che commettano i suoi errori di gioventù.
Per far rigar dritti i figli minaccia o pratica il digiuno finché questi non
ammettono l’errore, si pentono e promettono di non sbagliare più. Questo perché
“sottoponendosi alla sofferenza nella propria persona si può convertire al
proprio punto di vista chi sbaglia” (p. 108). Quando Manilal un giorno bacia un’altra
adolescente, suo padre digiuna per sette giorni per punirlo. Per farlo desistere
Manilal gli deve promettere che non si sposerà mai senza il consenso paterno.
Gandhi usa piuttosto spesso il digiuno per educare i figli, anche a distanza,
quando lui si trova in India e Manilal in Sud Africa, nonostante il fatto che
aveva chiaramente stabilito che il digiuno non poteva essere usato come arma di
ricatto morale e conversione al proprio punto di vista, perché ciò costituiva
una violenza. A volte il digiuno è la pena inflitta ai figli. Un giorno,
durante un digiuno punitivo imposto a Manilal, dice, crudelmente, alla sua
presenza: “se [Manilal] muore nel corso del digiuno, non bisognerà
rammaricarsi. Se qualcuno muore nel tentativo di autopurificarsi quale altro
momento sarebbe più opportuno per l’arrivo della morte?” (p. 109).
Ogni punizione dev’essere
pubblica perché “non ci doveva essere alcuna privacy nelle loro vite; erano
legati alla comunità e le loro azioni erano pubbliche” (p. 109). Esasperato,
una volta cresciuto Harilal dice a suo padre che avrebbe preferito essere
bastonato piuttosto che subire l’umiliazione di una pubblica strigliata.
Nei ricordi di infanzia di
Manilal non c’erano divertimento e giochi, ma solo lezioni e disciplina,
necessarie a renderlo più simile al padre (p. 83), per il suo bene e nel suo
interesse: “come un medico, devo farti ingoiare bocconi amari” (p. 119).
Perfino l’amico Rabidranath Tagore, Nobel per la Letteratura nel 1913, per un
breve periodo simpatizzante per i fascismi europei, osserva che i figli di
Gandhi sono “troppo austeri”, “imbevuti di disciplina laddove necessitavano di
ideali” (p. 136). L’autrice scrive che “Gandhi…fu un padre autoritario, severo
e motivato da un ideale. Cercò realmente…di plasmare Manilal a sua immagine e
somiglianza. Non permise ai figli di sviluppare le loro esperienze del mondo,
ma si sforzò sempre di fornire un ambiente controllato per proteggerli dagli
errori che potevano commettere”, ma aggiunge anche che “c’era anche gentilezza
e sincero amore nei confronti dei figli” (p. 83).
Anche il migliore amico di
Gandhi, Hermann Kallenbach, aveva una personalità autoritaria. La sua
pronipote, Isa Sarid ricorda così i venti anni trascorsi con lui: “da bambina
lo rispettavo, riverente e lo ammiravo, eppure ero sempre un po’ intimorita…Si
aspettava da me obbedienza assoluta, non erano tollerate obiezioni e non potevo
fare a meno di risentirmi per le regole rigide che governavano la mia
esistenza. Ho pianto molte lacrime, lacrime di mortificazione e di risentimento”
(p. 127).
Dalla cella Gandhi scrive
lettere a Manilal istruendolo su cosa leggere, che lavoro fare, come prendersi
cura della famiglia e persino dove metter su casa. Infatti impedisce loro di
trasferirsi in un ambiente urbano, perché è un grande sostenitore della vita
rurale, spiegando: “ciò significherebbe che tutti i miei ideali sono sbagliati
e che tu non credi in loro o non ne sei all’altezza. […] se non puoi onorare la
memoria di tuo padre, non dovrai comunque disonorarla” (p. 233-234). Sceglie
per lui la moglie – la figlia di un suo facoltoso sostenitore – pur ribadendo
la sua opposizione al matrimonio. Infatti non crede nell’amore, se non tra
fratello e sorella. È solito dire che l’amore per una donna è “un’infatuazione
o un desiderio carnale” (p. 176). Sceglie di astenersi dal sesso perché sarebbe
stato di disturbo nella sua attività politica. Chiarisce il suo pensiero a
questo riguardo in una conversazione con Manilal, che in quel momento ha 26
anni, cercando di dissuaderlo dallo sposarsi: “non sei mio prigioniero ma mio
amico. Ti darò un consiglio onesto; puoi riflettere su ciò che dico e poi agire
come meglio credi. Non vorrei mai che facessi qualcosa di peccaminoso solo per
paura di me. Non voglio che tu veneri me o chiunque altro. A mio avviso tu non
dovresti sposarti. Il tuo bene non si trova nel matrimonio…non indulgere in
sogni ad occhi aperti; abbiamo mille desideri e non possono essere tutti
soddisfatti” (p. 173). In un’altra occasione, quattro anni dopo, quando Manilal
ha 30 anni, ripete quando detto in precedenza: “finché non pensi al matrimonio,
sarai assolto dai tuoi peccati….credimi, non c’è felicità nel matrimonio…non
posso immaginare un’altra cosa tanto orribile quanto un rapporto sessuale tra
uomo e donna” (p. 174). Nell’attacco o nella chiusura delle sue lettere Gandhi
si preoccupa sempre di precisare che suo figlio è un uomo libero e che i suoi
non sono ordini, ma nel testo i suoi desideri sono inequivocabilmente enumerati
ed argomentati. Così, ad un nuovo tentativo di chiedere il permesso di
sposarsi, Gandhi lo avverte: “se ti fidanzerai, potresti non essere più capace
di rendere alcun servizio [alla causa]” (p. 175). Gandhi arriva persino ad
imporre alla figlia di Manilal e della nuora Sushila un nome che quest’ultima
detestava, perché nella mitologia indù era associato ad una figura tragica,
martirizzata. I due genitori dovettero acconsentire a darglielo come secondo
nome, ma fu proprio quello, prediletto da Gandhi, a diventare il nome di uso
comune, a causa dell’insistenza del nonno.
La dottrina della resistenza
nonviolenta (satyagraha) è un dogma per i figli di Gandhi, che non hanno
accesso all’educazione pubblica, ma solo a quella domestica, impartita dal
padre. Sull’esempio tolstojano – c’è amicizia e reciproca ammirazione tra
Tolstoj e Gandhi –, invece di leggere i classici ed imparare a suonare (“la
conoscenza delle lettere”), devono dedicarsi ai lavori manuali (“la conoscenza
dei doveri”) per sviluppare carattere ed umiltà. Si fa fatica ad immaginare che
potessero sviluppare una spina dorsale con un genitore così autoritario ed
onnipotente. Se lo chiede anche sua nipote: come si può avere autostima se
neppure la più piccola decisione può essere presa senza prima consultarsi con
il proprio padre?
Gandhi si rende conto della
situazione del figlio Manilal: “non riesci ad uscire dalla mia vita e tuttavia
non ti piace restarci. Per questo non sei in pace con te stesso” (p. 140).
Tenta di spiegargli le ragioni del suo comportamento: “questo amore può
sembrarti crudele, al momento, perché come un medico devo farti ingoiare delle
pillole amare…Ma sono impaziente di aiutarti…a diventare perfetto. L’impazienza
è il mio punto debole….voglio vedere in te onestà, castità, schiettezza,
gentilezza, fiducia in te stesso, umiltà e bontà. Ti voglio vedere indifferente
ai piaceri del mondo. Dubito che tu abbia queste qualità al momento attuale”
(p. 119). La fiducia in se stesso rimase la virtù più carente nel
secondogenito, che ben presto si accorse che la disubbidienza civile poteva
avere successo solo se si era celebri. Pur essendo il figlio di Gandhi, i suoi
digiuni, come pure i suoi scritti, erano ignorati dalle autorità sudafricane.
Come spesso accade ai fratelli, Harilal e Manilal
reagirono al paternalismo autoritario di Gandhi in maniera completamente
opposta. Il primo lo ripudiò e divenne un donnaiolo, si convertì all’Islam e
morì alcolizzato. Manilal gli rimase fedele anche se Gandhi, non volendo
passare per un nepotista, favoriva i figli degli altri a danno dei propri,
anche se la madre dell’autrice descrive il rapporto tra suo padre e Gandhi nei
termini di “prigioniero” e “schiavo” (enslaved). Arun, figlio di Manilal e zio
dell’autrice, conferma che suo padre “sembrava non possedere una volontà
indipendente da quella di Bapu” (Gandhi). Kasturba, moglie di Gandhi, si
lamentava con suo marito che i suoi figli erano marionette nelle sue mani, che
stava imponendo loro una particolare visione del mondo e li stava trasformando
in asceti molto prima del tempo. Aveva ragione: Gandhi si rifiutava di curare
la moglie ma anche il figlio con le medicine occidentali e, siccome era
vegetariano, impediva alla moglie di nutrire il figlio malato con uova e carne,
come consigliato dai medici, perché la famiglia doveva essere vegetariana, con
il risultato di prolungare inutilmente la sofferenza del piccolo. Nel 1914,
Kasturba, frustrata oltre ogni limite, accusò il marito di averla costretta a
privarsi del cibo migliore per ucciderla, perché era stufo di lei ed era una
serpe. Invece di chiedersi se la sua rigidità ed autoritarismo non stessero
distruggendo la sua famiglia, Gandhi, colpito da questa reazione, confidò all’amico
Kallenbach che Kasturba conteneva in sé “il divino ed il demoniaco in una forma
altamente concentrata…È la donna più velenosa che abbia mai incontrato. Non si
dimentica di nulla, non perdona nulla” (p. 128). Resta il fatto che, al dunque,
negò alla moglie l’iniezione di penicillina che l’avrebbe salvata dalla
polmonite, malattia che la uccise, il 22 febbraio del 1944. La dura lezione lo
rese più flessibile: quando poco dopo contrasse la malaria, accettò di farsi
curare con il chinino, e non rifiutò l’operazione di appendicectomia che gli
salvò la vita in un ospedale britannico.
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Ti ringrazio.
LexMat
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