domenica 23 ottobre 2011

Oswald Menghin: da Merano a Buenos Aires, la valigia piena di sogni ed incubi


Il razzismo culturalista – la cultura determina la persona – non è meno pernicioso di quello biologista – il sangue/genoma determina la persona. Lo possiamo chiamare “neorazzismo” o “differenzialismo”, perché assolutezza e feticizza le differenze, celando le comunanze ed estendendo ad ogni membro di un gruppo le presunte caratteristiche dello stesso e, vice versa, ad un gruppo, le presunte caratteristiche di determinati suoi membri. In questo modo, la colpa dell’uno ricade su tutti: un prete pedofilo significa che “il Vaticano è un covo di pedofili”. La colpa collettiva ricade su ciascun individuo: le atrocità israeliane nei Territori Occupati significano che “sei ebreo, quindi sei co-responsabile”.
Nell’Austria della prima metà del ventesimo secolo, una volta appurato che era impossibile determinare il carattere ariano della popolazione austriaca in relazione ai tratti somatici, ci si rivolse alla cultura materiale, provando ad identificare un qualche tipo di correlazione tra razza, capacità tecniche ed estetica. La parabola del paleontologo Oswald Frantz Ambrosius Menghin (1888-1973), anche lui meranese, ci può insegnare dove possa condurre questo paradigma. Studioso particolarmente influente nell’ambito accademico austriaco – fu rettore dell’università di Vienna –, il suo passato è stato però sbiancato nella sua terra d’origine. Sulle pagine di wikipedia dedicate a Merano, egli figura come ministro dell’istruzione austriaco. Lo fu certamente, ma nel gabinetto formato da Arthur Seyss-Inquart, collaborazionista del nazismo, giustiziato a Norimberga per crimini di guerra. Menghin, anche lui inserito nella lista nera, seguì la rotta di tanti altri nazisti, attraverso l’Alto Adige, ma fu catturato e riportato a Nauders, presso il passo Resia, luogo che aveva già abbondantemente perlustrato alla ricerca delle tracce della cultura retica locale. Non gli fu dunque troppo difficile trovare il modo di far perdere le sue tracce dopo l’evasione, avvenuta il 30 marzo del 1948. Si rifugiò in Argentina (Blaschitz, 2002), dopo aver attraversato indisturbato la Spagna franchista. Là, amnistiato nel 1956, si riciclò come professore universitario a Buenos Aires, fondando il “Centro Argentino de Estudios Prehistóricos”, riuscendo a far dimenticare il suo passato anche negli ambienti scientifici (Kohl & Pérez Gollán, 2002), nonostante la sua insistita, quasi morbosa, attenzione per la questione razziale (Menghin, 1965) ed un tentativo, fallito, di mettere all’ordine del giorno la sua immediata espulsione dall’Università di Buenos Aires per i suoi “importanti trascorsi nazisti” (Fontán, 2005). Questo però solo fino alla pubblicazione di una sua biografia critica (Fontán, 2005), che ha indotto la direzione del museo archeologico di Buenos Aires a tornare sui suoi passi, dopo averglielo intitolato come tributo alla sua memoria. Una decisione molto tardiva, che segue un omaggio ufficiale dell’università di Buenos Aires, che lo proclamò professore onorario nel 1971, e dell’Austria che scelse di non rivangare il passato e lo riabilitò, nominandolo membro onorario della Società di Antropologia viennese nel 1958. Al contrario, il rappresentante degli studenti che rivelò il passato nazista di Menghin, un giovane ebreo, Daniel Hopen, che aveva ottenuto la documentazione compromettente dalla American Jewish Association, scomparve durante la dittatura.
Cattolico integralista, Menghin studiò all’università di Vienna, dove si specializzò in filosofia della preistoria, con uno studio sul neolitico tirolese, nel 1910. Apparteneva alla scuola viennese dell’archeologia culturale-storica, incline a cercare conferme di pregiudizi e legittimare pretese nazionalistiche nei resti della cultura materiale del passato, stabilendo legami tra popoli antichi e moderni che gli archeologi successivi hanno dimostrato essere completamente spuri. Per Menghin la razza era un’espressione della cultura e la cultura era uno stampo. Per questo un nero non sarebbe mai riuscito a diventare un inglese, a prescindere dall’entità dei suoi sforzi. Analogamente, nessun ebreo poteva farsi realmente assimilare ed in ogni caso non sarebbe stato un evento desiderabile, visto che “ogni popolo ha non solo il diritto ma l’obbligo morale di difendere la sua nazionalità”, come scriveva nel 1933. Tuttavia l’imperialismo civilizzatore dei bianchi era benvenuto, perché era l’unica maniera per permettere ai popoli naturali (Naturvölker) cioè primitivi, che per qualche ragione avevano interrotto il loro percorso evolutivo, di evolvere e sviluppare le rispettive “sfere culturali”, sempre però in maniera distinta rispetto. Era un sostenitore di un ritorno alla fantomatica arcadia del passato, un mito bucolico in cui l’uomo viveva incorrotto dalla modernità industriale, dalla democrazia repubblicana e dal materialismo cosmopolita imposto dall’ebraismo internazionale – una stirpe (Volkstypus) naturalmente incompatibile con quella ariana, perché priva di radici, e che per questo era come un spada di Damocle sospesa sul capo della germanicità (Deutschtum). Lo studioso identificava l’Arcadia con l’Alto Adige e temeva che il colonialismo italiano l’avrebbe deturpata irrimediabilmente (Geehr, 1986).
Sostenitore di Hitler quando il partito nazista era ancora bandito dall’Austria, credeva che la scienza ed in particolar modo la paleontologia dovesse prender parte al conflitto spirituale che stava avendo luogo, schierandosi con il nazismo e contribuendo a plasmare le coscienze delle future generazioni. Come? Difendendo le caratteristiche delle enclavi etnico-razziali che si erano formate usando la cultura come strumento di adattamento alle condizioni naturali della loro dimora ancestrale (Menghin, 1934). La commistione etno-culturale (per i Nazisti: razziale) aveva reso più ardua, ma non impossibile, la determinazione dei tratti identificativi di ciascuna enclave. Alcuni di questi tratti erano vantaggiosi, altri svantaggiosi in termini di idoneità alla sopravvivenza di queste “etnarchie” nella moderna. Da qui la necessità di ribellarsi al materialismo, all’illuminismo, al positivismo, all’universalismo, all’edonismo individualista borghese ed alla sua ossessione per i diritti, a discapito dei doveri, degli obblighi comuni, dell’ordine e dell’armonia sociale. La filosofia politica menghiniana non contemplava una concezione dei diritti ma solo una concezione del servizio e del predominante diritto della collettività, incarnata dalla sua classe dirigente, a stabilire il bene e il male, dal punto di vista della stirpe.
La corrente di pensiero nella quale s’inserì Menghin è stato chiamata “modernismo reazionario”, ma una definizione migliore è quella di radicalismo reazionario. L’idea, infatti, non è quella di indirizzare il progresso in una certa direzione, né tantomeno quella di moderarne la velocità. È piuttosto quella di sfruttare il suo momento per invertire il suo corso ed inserirlo in un ordine ciclico e non più lineare, che conduca al recupero delle virtù rurali e delle strutture sociali e simboliche feudali. In questo risiede il radicalismo del nazi-fascismo e dell’etnopopulismo contemporaneo ma anche il suo appeal: la controparte di una strutturazione sociale rigidamente piramidale e gerarchica, munita di spietati sistemi di sanzione verso i riottosi e gli spiriti liberi, è la promessa, non necessariamente mantenuta, di un’esistenza semplice e serena, di buon senso, dove ci si intende all’istante, dove i legami affettivi sono più saldi ed affidabili, più caldi. Una società completamente diversa dalla modernità descritta come livellante ed omologante, generatrice di eterno spaesamento, incertezza e trasformazione, della dimensione metropolitana dell’incertezza e dell’eterna trasformazione. Una società in cui si ritiene che l’emancipazione personale ed il libero esercizio delle facoltà critiche nuocciano alla moralità pubblica ed all’integrità della nazione e che perciò esige che si facciano tornare in auge i valori del consenso, della cooperazione, dell’armonia e del comportamento ritualizzato. Il feticcio della volontà generale di Rousseau, recuperato al fine di disfarsi dell’impiccio della volontà personale, che ostacola il perseguimento di un obiettivo molto più “nobile” ed onnicomprensivo del destino dei singoli. È allora che fa capolino lo Stato pastorale o materno con le sue incessanti indicazioni su come regolare la vita di ciascuno in modo da dare l’apparenza di un ordine permanente, che promette servizi totali dalla culla all’urna in cambio della quiescenza dei suoi cittadini.
Un modello di società tipicamente orientale. Infatti, nel 1952 Menghin viene designato membro onorario della Società Asiatica di Buenos Aires per le sue ricerche sull’Estremo Oriente e la sua promozione di quelle civiltà. Un dettaglio, come vedremo, d’importanza tutt’altro che marginale.

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