Questo
lungo saggio è in realtà un prontuario per chi sospetta che l'apocalisse
("Rivelazione"/"Disvelamen to") sia prima di tutto
un'opportunità e sia catastrofica solo per chi non vede al di là del proprio
naso. Il testo è un'analisi di un certo filone della tradizione ermetica in cui
s'innesta sorprendentemente bene l'Interpretazione di Copenaghen della fisica
quantistica. In teoria, a tempo debito, il lettore avveduto dovrebbe essere in
grado di mettere a frutto ciò che ho illustrato.
N.B.
L'ermetismo può essere benigno o maligno, per questo bisogna cercare di
conoscerlo.
Nulla esiste finché non è misurato.
Niels
Bohr, Nobel 1922.
Un elettrone è una potenzialità immateriale
finché non viene osservato.
Max Born,
Nobel 1954.
Se non sono disturbati dall’osservatore, gli
elettroni non sono cose, non esistono nello spazio e nel tempo, la loro
esistenza è meramente potenziale. Emergono in una condizione di esistenza reale
ma provvisoria nell’atto di misurazione che è quindi un atto creativo.
Erwin Schrödinger,
Nobel 1933.
Per ciò che riguarda le particelle che
costituiscono la materia, non sembra esserci alcuno scopo nel considerarle come
composte di qualche materiale. Sono, in un certo senso, pura forma, nient’altro
che forma; ciò che si manifesta di volta in volta in osservazioni successive è
questa forma, non uno specifico frammento di materia.
Erwin Schrödinger,
Nobel 1933.
Le più piccole unità di materia non sono, di
fatto, oggetti fisici nel senso ordinario della parola; sono forme, strutture
o, nell’accezione platonica, Idee, di cui si può parlare in modo non ambiguo
solo nel linguaggio della matematica.
Werner
Heisenberg, Nobel 1932.
La gente pensa sempre che, quando si dice “realtà”,
si sta parlando di qualcosa di chiaramente noto a tutti, mentre invece per me
il più importante e più arduo compito del nostro tempo è lavorare alla
costruzione di una nuova idea di realtà.
Wolfgang
Pauli, Nobel 1945, lettera a Markus Fierz, 1948.
Gli
elementi costitutivi del mondo fisico sono quelli che chiamiamo eventi. Un
evento non persiste e non si sposta come un pezzo di materia tradizionale:
esiste semplicemente per un suo breve attimo e poi cessa.
Bertrand
Russell, “L’ABC della relatività”.
Se si era
inizialmente creduto che nel corso del progresso delle scienze tutto ciò che è ‘trascendentale’
sarebbe stato progressivamente soppresso, perché in ultima analisi si poteva
ricondurre tutto ad una spiegazione razionale, si dovette poi ammettere che il
mondo materiale che per noi è così tangibile, si dimostra invece sempre più
simile ad apparenza e si dissolve in una realtà che non è fatta di cose e di
materia, ma di forme che predominano. [...] La fisica quantistica ci ha
confermato ancora una volta che la nostra esperienza scientifica, la nostra
conoscenza del mondo, non rappresenta la realtà ultima ed intrinseca, qualunque
significato si voglia attribuire a queste espressioni.
Hans-Peter
Dürr, fisico nucleare e quantistico tedesco, 1986.
Ora
sappiamo che l'immagine del mondo offerta dai nostri organi di senso, che pure
funziona perfettamente nella vita di ogni giorno, ha poco a che fare con la
realtà. Ciò che ci sembra solido e impenetrabile è perlopiù vuoto [...]. Di
conseguenza, la nostra definizione intuitiva della materia è completamente
distorta dai filtri che i nostri organi di senso interpongono fra un oggetto e
noi. Si tratta di una definizione essenzialmente pragmatica, basata sul genere
di informazioni che si sono rivelate più utili nella ricerca del cibo, nella
lotta contro i predatori e per il successo riproduttivo. Come strumenti di
conoscenza, queste informazioni sono quasi prive di valore.
Christian
De Duve, biochimico belga, Nobel per la medicina nel 1974 (2002).
Se l’universo
è vivo, le emozioni possono avere un significato cosmologico.
Shimon
Malin, fisico teorico, Colgate University, 2012.
Per
Fulcanelli (1972) la cattedrale è un capolavoro d’art goth, ossia “d’argot”.
Perché argot? Argot è “il linguaggio particolare di tutti quegli individui che
sono interessati a scambiarsi le proprie opinioni senza essere capiti dagli
altri che stanno intorno”. Possiamo decodificare questo linguaggio ermetico?
Forse almeno in parte. In molti hanno già contribuito al disvelamento. L’esoterismo
delle cattedrali medievali è stato già indagato da insigni studiosi come Otto
von Simson e Paul Frankl, due storici dell’arte tedeschi naturalizzati
americani, e da Emile Mâle, storico dell'arte francese e membro dell'Académie
Française, tutti e tre affascinati dall’influenza dell’ermetismo neo-pitagorico
e neo-platonico sulle armonie architettoniche di quei magnifici edifici,
inestricabilmente legata all’idea di un ordine morale ideale. Chi scrive si
augura di integrare quanto è già stato detto, lasciando a chi verrà in seguito
il compito di proseguire l’opera.
Per
arrivare a comprendere il codice gotico è necessario calarsi nei panni di
persone che avevano una concezione spirituale della vita e vedevano la
cattedrale come l’immagine della città divina, la Gerusalemme celeste. La
struttura delle cattedrali rispecchia le leggi divine esemplificate dalle forme
platoniche e dalle armonie orfico-pitagoriche: idee perfette, eterne,
incorruttibili esistenti in un universo soprasensibile e quindi non percepibile
dall’essere umano in condizioni normali, prima della morte. Nel mondo terreno,
la matematica, la musica, la luce (i colori) e l’architettura sono emanazioni
di questa dimensione iperuranica.
La scuola
di Chartres era particolarmente imbevuta di nozioni pitagoriche e neoplatoniche,
specialmente attraverso la sintesi di Boezio (Masi, 1983). Enorme fu l’influenza
del Timeo di Platone - il protagonista dell’omonimo dialogo è un pitagorico –,
ma anche di Marziano Capella, Macrobio, Porfirio, Simplicio, Cassiodoro,
Dionigi l’Aeropagita, Isidoro di Siviglia, Clemente Alessandrino, Vitruvio,
Giamblico e, naturalmente Plotino e Pitagora. L’essenza del messaggio che ne
trassero fu che l’umanità si faceva distrarre eccessivamente dalle tentazioni
materiali, allontanandosi sempre più da Dio. Per rettificare questa cattiva
inclinazione era indispensabile coltivare la frugalità ed impiegare le chiese
come anticipazione del Regno di Dio e come tramite fra umano e divino. La
cattedrale gotica era “musica divina congelata”, così concepita in ossequio al
misticismo numerico e geometrico dei suoi architetti che, per la verità non era
universalmente condiviso: il Duomo di Milano, ad esempio, fu costruito senza
dedicare una particolare attenzione ai calcoli esoterici, alle “misure del
cosmo”.
Invece gli
“inventori” del gotico furono tre amici: il vescovo Enrico di Sens, l’abate
Sugerio di Saint-Denis e il vescovo Goffredo di Lèves, a Chartres. Erano
accomunati dalla medesima ispirazione spirituale e culturale. Per loro, come
per molti loro epigoni, la cattedrale gotica rimandava alla Città Celeste dell’Apocalisse,
al Tempio di Salomone, alla scala di Giacobbe che congiunge la terra e il mondo
ultraterreno, all’Arca di Noè che ha salvato e salverà l’umanità alla fine dei
tempi, al cosmo nel suo complesso (Harries, 1977).
Non ci fu
forse mai una vera e propria cesura con il passato. Chartres sorse su un
edificio pagano preesistente che era stato adattato per ospitare la prima
basilica cristiana. È Giulio Cesare a dirci che la città era la capitale del
culto druidico gallico e meta di solenni pellegrinaggi. Gli assunti ontologici
fondamentali non pare siano cambiati poi troppo, nei secoli. “Lo spazio sacro
cristiano permetteva una penetrazione delle realtà metafisiche nel mondo
profano, proprio come avevano fatto gli spazi sacri dell’antichità. Durante il
periodo dell’intenso interesse di Newton per il significato dei templi antichi,
i suoi contemporanei discutevano se si poteva dare un’interpretazione simile
anche degli antichi monumenti britannici” (Dobbs, 2002, p. 125).
La luce
rivestiva un ruolo fondamentale in questa sacralizzazione dello spazio e del
tempo, giacché “tutte le creature sono “luci” che con la loro esistenza
testimoniano la luce divina e in tal modo mettono in grado l’intelletto umano
di percepirla” (Simson, 2008, p.63). La storica dell’arte americana Christiane
Joost-Gaugier ha descritto il suo impiego nelle cattedrali (ma lo stesso
discorso può essere applicato anche ai templi megalitici celtici): “la luce del
sole illumina lo spazio sottostante, simile a una caverna; in tal modo la luce
abbagliante del mondo superiore facilita l’ascesa dell’anima, che può ricevere
la verità e la conoscenza” (Joost-Gaugier, 2008, p. 283). Un’immagine che ci
rinvia al mito della caverna platonica. La stessa funzione spettava alla
geometria, anch’essa incaricata di condurre l’anima alla verità, attraverso la
presa di coscienza del principio delle concordanze e delle contrarietà che si
equilibrano vicendevolmente nell’ordine armonioso del cosmo. Joost-Gaugier
chiarisce che, per gli architetti di quelle opere, i numeri non erano freddi,
erano una forma dinamica di energia che esercitava un decisivo impatto sulla
vita e la morte dei singoli e della comunità. Sugerio era entusiasta della
catarsi prodotta in lui dalla “sua” chiesa. Il credente era trasportato da un
piano inferiore ad un piano superiore, un “Regno Celeste” che lui chiamava
anche “la Fonte della Sapienza”. Lo storico francese Georges Duby spiega che al
cuore di St. Denis c’è un’idea potente, eterna, di derivazione spiccatamente
plotiniana: “Dio è luce. Ciascuna creatura partecipa a questa luce iniziale,
non-creata e creatrice. Ciascuna creatura riceve e trasmette l’illuminazione
divina in accordo con la sua capacità, cioè a dire, secondo l’ordine in cui è collocata
nella scala degli esseri…scaturito da un irraggiamento, l’universo è uno
zampillio luminoso che discende a cascata…Un legame d’amore bagna tutto il
mondo, visibile ed invisibile” (de La Roncière & Attard-Maraninchi,
2001, p. 55)
Il
carattere iniziatico delle cattedrali è indiscutibile (Scott, 2003; Stephenson,
2009), ma l’opera che, a mio parere, ha saputo meglio interpretare questo
spirito dell’epoca (Zeitgeist) è quella di von Simson – “La cattedrale gotica:
il concetto medievale di ordine” –, ammiratissima da Jacques Maritain. Un
lavoro che mostra come la cattedrale gotica fosse intesa a rappresentare la
realtà sovrannaturale: “il medioevo viveva alla presenza del soprannaturale,
che imprimeva il suo suggello su ogni aspetto della vita umana. Il santuario
era la soglia d’accesso al cielo. Nell’ammirare la sua perfezione
architettonica l’emozione religiosa oscurava l’esperienza estetica dell’osservatore.
Non accadeva diversamente ai costruttori della cattedrale” (Simson, 2008, p.
5). In un’epoca di visioni, l’abate Suger asseriva di aver progettato St. Denis
in base ad una visione celeste, dove le armonie percepibili dai sensi rinviano
a quelle che gli eletti potranno vivere da beati nel regno dei cieli, dove
sussiste un parallelismo tra creazione e redenzione e tra il cosmo e il Cristo,
come Verbo incarnato e archetipo dell’Uomo come centro dell’universo (Simson,
ibidem).
In
sintesi, l’ipotesi esplorata in questo saggio è che le cattedrali siano
effettivamente degli edifici concepiti per fungere da costellazioni di
archetipi, ausili che permettono di innescare un qualche tipo di processo nella
mente dell’iniziato, mentre lascerebbero indifferente il visitatore
occasionale. La traccia analitica potrà sembrare labirintica – come in ogni
percorso iniziatico – ma il lettore accorto, dopo un lungo e speranzoso
tragitto, noterà una luce in fondo al tunnel e, inaspettatamente, si accorgerà
di trovarsi in prossimità della meta.
Simboli ed
archetipi
Per l’uomo
medievale il mondo fisico, quale noi lo intendiamo, non ha realtà se non come
simbolo…per l’uomo medievale ciò che siamo soliti chiamare simbolo è la sola
definizione obiettivamente valida della realtà. [Una visione simbolica che è]
abilità di cogliere all’interno della percezione sensoriale degli oggetti la
realtà invisibile dell’intellegibile che sta dietro di essi.
Otto von
Simson
Un
messaggio resiste all’avvicendarsi delle epoche se possiede un contenuto
simbolico particolarmente pregnante, che sollecita l’inconscio umano
indipendentemente dalle circostanze. Simbologie e strutture linguistiche in
generale possono servire ad incantare, ad alterare la nostra percezione del
cosmo (per associazione condizionata, ossia reazione meccanica) e dunque
controllare le reazioni umane, instillando la propensione a comportarsi in un
modo desiderabile. Quando i simboli sono archetipici, l’influenza che
esercitano è considerevole, anche se quasi sempre non ce ne rendiamo conto.
Cos’è un
archetipo? Il termine archetipo deriva da arkhe- (primo, principio) e typos
(modello, tipo). Lo psicanalista ed antropologo svizzero Carl Gustav Jung li
descrive come delle strutture naturali ereditarie che determinano l’esperienza
della realtà, o comunque delle strutture culturali trasmesse in maniera
tradizionale, nell’inconscio collettivo. Gli archetipi sono matrici, principi
ordinatori universali della nostra coscienza, ossia del modo in cui leggiamo la
realtà. Platone li avrebbe intesi come forme “corrotte” di idealtipi celesti
che si stampano nell’anima prima dell’incarnazione. Jung si limita a parlare di
forme universali prive di contenuto che canalizzano esperienze ed emozioni
dando vita a certi schemi di comportamento. Ad esempio, la ricerca dell’eroe
come processo di individuazione. Per lo storico delle religioni statunitense
Joseph Campbell la nozione di archetipo può spiegare l’universalità di certi
miti. Gli etnografi Gilbert Herdt e Michele Stephen hanno stabilito un
parallelo tra l’idea junghiana di inconscio collettivo e le credenze dei Mekeo
della Nuova Guinea in merito ad un’ “immaginazione autonoma” che esiste all’interno
della mente ed è costituita da un costante e traboccante flusso di pensiero
immaginifico al di là del controllo cosciente dei singoli Mekeo. Quest’immaginazione
autonoma, un vero e proprio doppio del sé, può operare indipendentemente, può
uscire dal corpo, appare nei sogni e può persino ostacolare le intenzioni del sé
(Herdt & Stephen, 1995). Pur essendo molto sensibile alle condizioni
ambientali ed al contesto culturale, solo con la pratica, specialmente quella
sciamanica, si può riuscire a tenerla sotto controllo.
Questi
archetipi sono così potenti che, in molti casi tendiamo a compiere delle scelte
in funzione di un allineamento archetipico, ossia di una particolare risonanza,
simpatia, che proviamo verso un dato archetipo (es. il Padre, il Contadino, l’Eroe,
il Martire, la Madre, il Trickster, il Costruttore, il Re Perduto, ecc.). In
pratica, essi generano una ritualizzazione del pensiero ed un condizionamento
subliminale, una superidentificazione. Jung li paragona ad un buco nero: non lo
vedi ma osservi come inghiotte materia e luce e quindi sai che esiste. Perciò
un archetipo può curare (psicoterapia), può orientare una persona su un cammino
di elevazione e nobiltà d’animo (narrazione di fiabe, capolavori
cinematografici e letterari), ma può anche intossicare (propaganda).
In certi
casi ed in certe forme l’effetto può essere quello di una vera e propria
induzione ipnotica che può rendere concepibile ed accettabile ciò che prima non
lo era. Pensiamo ai simboli associati alle manifestazioni di massa totalitarie.
L’associazione e la risonanza psicologica e simbolica di certe espressioni
comuni può acquisire delle dimensioni nuove e subdole. In questo modo la comunicazione
può essere pervertita per generare confusione, o una falsa consapevolezza. Se
la forma è bella e piacevole, allora lo sarà anche la sostanza. Se il lupo si
traveste da agnello, noi pensiamo che sia mansueto, perché la sua lana è
morbida. Oltre a ciò, tendiamo a credere di aver capito qualcosa se siamo
capaci di affibbiargli un nome o un’etichetta, e proprio a questo servono i
simboli.
Jung, che
aveva assistito in prima persona all’ascesa del nazismo, aveva preso nota delle
suggestioni archetipiche del regime. I popoli nordici erano associati all’anelito
alla luce (Lichtmenschen), alla forza solare vitale, alla profondità di
pensiero, la croce gammata o Hakenkreuz. L’archetipo dell’uomo-sole ariano
consentiva di arrivare ad una fusione di massa, un’unione politica, spirituale
e psichica (miti, archetipi). A differenza dell’ampolla d’acqua presa alle
sorgenti del Po, le simbologie naziste facevano (fanno?) presa sull’inconscio,
perché sono archetipiche. Durante le sedute, Jung si accorgeva che i sogni dei
pazienti rivelavano sintomi sempre più numerosi di “contaminazione”. Capì che
stava per accadere qualcosa di rivoluzionario, una psicosi di massa, un’epidemia
psichica. Scrisse ne “L’Io e l’Inconscio”: “Le antiche religioni, con i loro
simboli sublimi e ridicoli, bonari e crudeli, non sono cadute dai cieli ma sono
nate in quest'anima umana, la stessa che vive ancora oggi in noi. Tutte quelle
cose, le loro forme primordiali, vivono in noi e possono in qualunque momento
assalirci con la forza distruttiva, in forma cioè di suggestione di massa,
contro la quale il singolo è inerme. I nostri terribili dèi hanno soltanto
cambiato nome e rimano tutti in –ismo”.
Jung
avvertì l’imminenza di un cambiamento, epifania di un archetipo così potente da
far crollare le difese dell’intelletto raziocinante e del buon senso. “In
ciascuno dei miei pazienti tedeschi si poteva costatare un disturbo dell’inconscio
collettivo. Gli archetipi che potei osservare esprimevano primitività, violenza
e crudeltà. Allora nella Germania si ravvisavano soltanto segni di depressione
e indizi di grande irrequietezza, ma questo non placò i miei sospetti. In un
articolo […] avanzavo l’ipotesi che la “bestia bionda” si rivoltasse in preda a
un sonno agitato, e che non fosse impossibile un suo brusco risveglio. La marea
che stava crescendo si annunziò in forma di simboli mitologici collettivi, che
esprimevano primitività e violenza, in breve: tutte le potenze delle tenebre.
Quando si verifica che tali simboli facciano la loro comparsa in un gran numero
di individui, senza però venire da essi compresi, capita che comincino ad
attrarli insieme, quasi in virtù di una forza magnetica, ed ecco formarsi una
massa. Un capo sarà presto trovato nell’individuo che mostri la minore forza di
resistenza, il più ridotto senso di responsabilità e, in conseguenza della sua
inferiorità, la più forte volontà di potenza. Questo scatenerà tutte le energie
pronte ad esplodere e la massa seguirà con la forza irresistibile di una
valanga” (Poscritto ai saggi di storia contemporanea, 1946).
Si poteva
resistere? Solo essendo consapevoli dei rischi. Eliade, Kerényi ed altri
studiosi ammaliati dalla mitologia nordica che citerò in questo scritto lo
furono solo sporadicamente. Il geniale Furio Jesi, prematuramente deceduto, ci
ha avvertito: “credo di riconoscere nell’opera di Hitler qualcosa che trascende
le responsabilità umane; credo insomma che il vero colpevole degli orrori del
nazismo non sia l’uomo-Hitler, ma una forza temibile quanto gli Angeli di Rilke
che si è servita di quell’uomo, invadendo la sua volontà” (Jesi a Kerényi, 16
maggio 1965; Jesi & Kerényi, 1999, p. 51). La profondità e forza dei
bisogni interiori degli esseri umani fa sì che certi gruppi di interesse
trovino particolarmente conveniente manipolare immagini e temi archetipici, in
modo da conferire loro il massimo potere seduttivo. E la falsa conoscenza è
nociva, a differenza dell’ignoranza consapevole (quella socratica).
Resta il
problema di capire la natura di queste immagini e suggestioni. Si tratta di
astrazioni teoriche a livello psicologico? Oppure sono il riflesso di strutture
biologiche più profonde sorte nel corso dell’evoluzione della specie umana? O
ancora sono come le matrici platoniche e possiedono uno status ontologico, cioè
a dire esistono da qualche parte e possono influenzare in qualche modo la
dimensione terrena? Einstein stesso si era chiesto come fosse possibile che la
matematica, un prodotto del pensiero umano, fosse così mirabilmente adatta a
spiegare la realtà non umana. È una mera coincidenza che la sezione aurea e la
serie di Fibonacci siano così diffuse in natura? Esiste un ordine cosmico
regolato da matrici universali – le idee platoniche – che possono essere rese
accessibili alle nostre menti, o più semplicemente la spirale logaritmica,
quella che Jacob Bernoulli chiamava la spiral mirabilis, è il risultato di una
selezione evolutiva che ha fatto trionfare un percorso di sviluppo che permette
di accrescere le dimensioni senza modificare la forma?
Forse,
come le api sono nate per fare il miele ed i castori per costruire dighe, gli
esseri umani sono nati per vivere l’armonia del creato e per vedere armonia
anche nella violenza, o nell’annullamento dell’umano, come nei raduni di massa
dei totalitarismi. Sono fatti anche per cadere nella trappola dei miti
politicizzati. Gli edificatori delle cattedrali erano persuasi di poter
liberare almeno una parte dei credenti da una funesta ragnatela archetipica,
usando gli archetipi stessi per elevare ed emancipare l’iniziato, la persona
consapevole. Come credevano di poterlo fare? È quello che scopriremo nel
prosieguo di questa esplorazione nella foresta dei simboli delle cattedrali
gotiche. Iniziando, com’è d’obbligo, dalla coppia primigenia che, a Chartres,
sovrasta e custodisce il celebre labirinto pavimentale, di cui ci occuperemo in
un secondo momento.
Adamo ed
Eva
I suoi
discepoli dissero, "Quando ci apparirai, e quando tornerai a
visitarci?" Gesù disse, "Quando vi spoglierete senza vergognarvi, e
metterete i vostri abiti sotto i piedi come bambini e li distruggerete, allora
vedrete il figlio di colui che vive e non avrete timore."
Vangelo di
Tommaso, 37
Il
racconto biblico di Adamo ed Eva è un mito ed i miti rivelano motivi
archetipici, ossia profonde verità sulla condizione umana che spesso, nella
nostra quotidianità, ci sfuggono.
Cerchiamo
di capire come una parte dell’umanità – il racconto biblico trova numerose
corrispondenze nell’area medio-orientale e mediterranea (cf. Pandora) – ha
immaginato la condizione umana prima della Caduta. Questo ci sarà d’aiuto
quando si tratterà di capire lo scopo ultimo di certi simbolismi inseriti non
certo casualmente nelle cattedrali.
Enkidu, un’importante
figura mitologica sumera, era un uomo coperto di peli e capelli lunghissimi,
che viveva fuori dalla cerchia delle mura di Uruk e “brucava l’erba insieme con
le gazzelle, si affollava con le bestie selvatiche alle pozze d’acqua e gioiva
in compagnia degli animali” (Campbell, 1992). Un giorno fu scorto da un giovane
cacciatore che si rivolse al re di Uruk, Gilgamesh, per chiedergli come doveva
comportarsi con lui. Gilgamesh lo consigliò di portare con sé una prostituta
del tempio e presentarla a quest’Uomo Selvaggio in tutta la sua nuda bellezza: “Sarà
tentato, cederà alle sue grazie e da quel momento in poi gli animali lo
eviteranno”. Così fece il cacciatore ed Enkidu, proprio come l’Adamo biblico, “mangiò
la mela”: “Per sei giorni e sei notti Enkidu giacque con la donna del tempio,
dopodiché ritornò fra gli animali. Ma questi lo fuggirono ed Enkidu se ne stupì.
Il suo corpo era indolenzito, le ginocchia si piegavano – egli non era più come
prima e non poteva raggiungere gli animali” (Campbell, ibid.). Ad Enkidu non
rimase che rassegnarsi alla sua nuova condizione e cercare rifugio all’interno
della città, finendo per diventare il migliore amico e consigliere del re
Gilgamesh. Adamo è ricollegabile al sumero Adapa, grande saggio che perse l’opportunità
di diventare immortale perché si fidò del dio Enki, creatore dell’uomo e
sostenitore della tesi che la morte è una componente fondamentale dell’esperienza
umana. Allo stesso modo, Gilgamesh non riesce a conquistare l’immortalità per
via di un serpente che gliela ruba.
È forse da
una libera interpretazione di questi miti che nasce la narrazione della cacciata
dal Paradiso Terrestre. Tuttavia, se prendiamo in esame più attentamente la
narrazione biblica scopriamo che essa è simbolicamente e semanticamente molto
più feconda. Vi propongo un’interpretazione che deve molto al magnifico John
Milton, al critico letterario statunitense Stanley Fish (1967), al filosofo
francese Jean-Marc Rouvière (Rouvière, 2009) e al filosofo statunitense George
Kateb (2006).
Nell’Eden
Adamo è fuori della storia, vive nell’armonia perché nulla gli è d’ostacolo,
nulla gli impedisce di essere e di mantenersi nella sua condizione originale e
permanente. Non è in divenire, ma è pienamente in atto. È eternamente gioioso,
ammira l’Eden com’è, non come un fenomeno, infatti non vi è separazione tra
soggetto ed oggetto, manca la soggettività della nostra coscienza. La sua
percezione del reale non passa attraverso il mondo fenomenico, quello dei
sensi. È come se non avesse un corpo, come se non fosse incarnato. Infatti,
poco prima di cacciarli, “l’Eterno Iddio fece ad Adamo e alla sua moglie delle
tuniche di pelle, e li vestì” (Genesi: 3, 21).
Prima di
avere i “vestiti di pelle” e prima di aver mangiato la mela, non si rendevano
neppure conto di essere nudi. È la carne che ci situa temporalmente e
spazialmente, che forma il mondo attorno a noi. Inizialmente Adamo ed Eva non
erano nudi, è la Caduta che comporta determinazioni sessuali, culturali,
sociali e dunque morali. Adamo non conosce il bene e il male perché è in
comunione con Dio, con la Verità, non sa cosa significa distanziarsi da essa e dover
discernere il vero dal falso e il bene dal male. È fuori dalla sfera etica
perché è completamente immerso nel vero, nella purezza e nell’innocenza.
Adamo è
però comunque libero e consapevole: gli è concessa la scelta di non servire Dio
come suo giardiniere. È lui ad accettare il suo ruolo: nomina tutte le cose e
gli animali, accoglie la presenza di Eva come se fosse la cosa più naturale del
mondo, ma rifiuta la proibizione di mangiare la mela; diritto, questo, che gli
era pienamente concesso. Adamo è un uomo disinteressato e privo di vanità, fino
al momento in cui cede alla tentazione. Come vedremo, il tema della tentazione è
la chiave di lettura del simbolo del labirinto. Adamo fa il bene perché
contempla incessantemente il bello in una dimensione in cui predestinazione e
libertà sono identiche. Il serpente tenta lui ed Eva promettendo loro che
diventeranno come Dio: una promessa ridicola, dato che il serpente stesso non l’ha
certo attuata.
Caduta
significa che Adamo ed Eva accettano l’auto-centramento (soggettivizzazione: io
prima di tutto il resto!) e quindi il distanziamento da Dio, la fine della
comunità con Dio e con gli animali e la natura tutta. Non è solo una brama di
sensualità fine a se stessa: la coppia aveva a disposizione tutto l’Eden, incluso
l’Albero della Vita Eterna, che fino ad allora non gli era stato negato, e
viveva in una condizione di perfetta letizia. Essendo in comunione con Dio, non
mancava nulla, tranne lo status di dio. Senza il serpente tentatore non si
sarebbero mai neppure accorti di una “mancanza” a cui sopperire.
Fu dunque
un atto di sfida, di orgoglio, che emulava quello del serpente stesso, un
angelo caduto che era perfettamente consapevole della risibilità della sua
promessa, ma si compiacque di trascinare nell’abisso gli innocenti: “Amo Dio ma
gli preferisco me stesso. Il suo ordine mi sta bene, ma preferisco essere io a
gestirlo, perché non mi fido del tutto di lui. Mi fido più di me stesso. Posso
fare meglio di lui, se mi doto di una conoscenza assoluta e di una vita eterna.
Posso prendere il suo posto”.
Adamo non
riesce a lasciare che il cosmo proceda per suo proprio conto, vuole
intervenire. Così facendo, invece di liberarsi, s’imprigiona. Così facendo
entra nella storia, nel tempo, nel decadimento e morte, nella sofferenza, nel
travaglio, perde l’innocenza, la sua prospettiva morale diventa soggettiva:
allontanato dalla Verità, non sa più cosa sia giusto fare, vive in una perenne
tensione tra il bene che dovrebbe fare ed il male che fa. I suoi stessi figli
commetteranno il primo omicidio, un fratricidio.
L’aspetto
interessante della questione è che l’esilio non trasferisce la coppia
primigenia altrove. Essa rimane nei paraggi: è infatti necessaria la presenza
di un angelo con la spada fiammeggiante per tenerla lontana. L’Eden è sulla
Terra, come credeva anche Cristoforo Colombo, tra i tanti. Qualcosa prima
impediva ad Adamo ed Eva di rendersi conto del mondo “esterno”. Ora qualcos’altro
impedisce loro di rientrare nel Giardino. È come se Adamo ed Eva non vedessero
più quel che vedevano prima, come se usassero occhi diversi. Forse si trovavano
ancora nello stesso posto, nell’Eden, ma non lo vedevano più come prima, come
un Paradiso Terrestre. Dal momento in cui avevano scelto di autocentrarsi,
invece di vivere in comunione con il divino, la loro prospettiva si era
ristretta drasticamente, come un’automutilazione, come una lobotomizzazione. Se
avessero abbandonato questa prospettiva egocentrica forse sarebbero stati come
gatti nella notte, ed avrebbero visto che l’Eden era ancora a portata di mano.
Ma il pomo, invece di renderli più consapevoli, li aveva resi meno consapevoli,
tagliati fuori dalla comunicazione con Dio, isolati dalla Verità e dall’Amore,
condannati al divenire del tempo.
La Caduta
Gesú gli
rispose e disse: «In verità, in verità ti dico che se uno non è nato di nuovo,
non può vedere il regno di Dio». Nicodemo gli disse: «Come può un uomo nascere
quando è vecchio? Può egli entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e
nascere?». Gesú rispose: «In verità, in verità ti dico che se uno non è nato
d'acqua e di Spirito, non può entrare nel regno di Dio.
Giovanni
3, 3-5.
La Caduta è
la caduta nell’ego, nel soggettivismo, è la caduta di Narciso, che proietta se
stesso nella natura e fa in modo che essa si conformi ai suoi desideri. Non
solo Adamo ed Eva non si fidano del loro padre, ma non si scomodano neppure di
chiedergli le ragioni della sua proibizione, che non era neppure troppo
ingenerosa. Genesi spiega che «l’Eterno Iddio diede all’uomo questo
comandamento: “Mangia pure liberamente del frutto d’ogni albero del giardino;
ma del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare;
perché, nel giorno che tu ne mangerai, per certo morrai”» (Genesi 2, 16-17).
Adamo può fare ciò che vuole nel Giardino, Dio si limita ad ammonirlo: attento,
se mangi di quell’albero perderai tutto ciò che hai. Eva risponde al Serpente
che la proibizione è motivata, non è un capriccio: “Non ne mangiate e non lo
toccate, che non abbiate a morire" (Genesi 3:3). Però non sembra aver
colto il senso di questa motivazione, a causa della sua inesperta innocenza.
Così il serpente la inganna: “No, non morrete affatto” (Genesi 3:4). L’errore
di Eva è dunque quello di fidarsi più di uno sconosciuto e delle sue promesse
che di suo padre, che pure l’ha collocata in un Paradiso. Perché assumersi un
tale rischio? Se ha ragione Dio la disobbedienza equivale alla morte. Chi
vorrebbe giocarsi tutto prendendo per buone le parole di un essere inferiore,
per di più affidato alla propria custodia?
Eppure il
Serpente conquista la preda con l’esca della Conoscenza del Bene e del Male: “Iddio
sa che nel giorno che ne mangerete, gli occhi vostri s’apriranno, e sarete come
Dio, avendo la conoscenza del bene e del male” (Genesi 3:5)]. Quale
disillusione ne è conseguita. La presunta conoscenza empirica del bene e del
male non ha impedito a nessuno, neppure ai due progenitori, di compiere il
male: Eva ha tentato Adamo e tradito la fiducia di Dio, Caino ha ucciso Abele.
Pare che, a partire da quel fatale boccone, l’umanità abbia sempre,
sostanzialmente, compiuto i propri interessi egoistici razionalizzando il male
che commetteva, forse proprio come il Serpente.
L’umanità
perde la vita eterna, l’accesso diretto alla Verità, l’innocenza e la pace.
Davvero un pessimo affare! Prima della tentazione regnava l’armonia tra Adamo
ed Eva e nei rapporti con la natura e gli animali in generale. Sapevano
spontaneamente tutto quel che era indispensabile per una vita ideale. Non
vedevano nulla che fosse falso o malvagio, perché vivevano nella verità. Dopo
la tentazione si vergognano di essere nudi come gli altri animali, cercano di
nascondersi da Dio pur sapendo che è onnisciente ed onnipresente, temono la
voce di Dio, che pure non si era risparmiato per renderli felici, senza
chiedere nulla in cambio salvo di non mangiare un singolo frutto. Adamo
denuncia all’istante la compagna, scaricando infantilmente le sue responsabilità
per il misfatto: “La donna che tu m’hai messa accanto, è lei che m’ha dato del
frutto dell’albero, e io n’ho mangiato” (Genesi 3:12). Eva non è da meno: “Il
serpente mi ha sedotta, ed io ne ho mangiato” (Genesi 3:13).
Il
Serpente, che già non doveva passarsela troppo bene se trascorreva il suo tempo
cercando di manipolare il prossimo, perse l’uso degli arti e la posizione
eretta: «Allora l’Eterno Iddio disse al serpente: “Perché hai fatto questo, sii
maledetto fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali dei campi! Tu
camminerai sul tuo ventre, e mangerai polvere tutti i giorni della tua vita”»
(Genesi 3:14). La pace e l’armonia lasciarono il posto al conflitto, ai
dissidi, alla violenza: “E io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua
progenie e la progenie di lei; questa progenie ti schiaccerà il capo, e tu le
ferirai il calcagno” (Genesi 3:15).
La caduta
comporta l’ingresso nel tempo, nel divenire, nella durata, memoria ed
anticipazione. Segna anche la perdita di facoltà sovrumane e della nobiltà d’animo.
Adamo era un superuomo, dava un nome agli animali e comunicava con loro, era il
giardiniere dell’Eden, il suo amministratore, ma non approfittava mai delle sue
prerogative e poteri. Tutto questo ha fine. Il frutto dell’Albero della
Conoscenza del Bene e del Male si rivela essere un simbolo di restrizione della
conoscenza. Il principio archetipico femminile si allea con la parte sbagliata
e, contrariamente a quel che si attendeva, perde gran parte della conoscenza e
del potere perché, come pare ovvio a noi, in retrospettiva: credere che tutta
la conoscenza possa provenire da un’unica fonte è un abbaglio autodistruttivo,
contraddice la realtà, allontana dalla Verità ed imprigiona in un labirinto di
illusioni ingannevoli, preparando la strada alla nostra rovina.
Non è però
una condanna definitiva, non tutto è perduto. Gesù ha assicurato che ritornerà
a giudicare i vivi e i morti e a restaurare l’Eden, il Regno di Dio. Così, per
John Milton, Maria è la seconda Eva. Infatti, nell’arte medievale che decora le
cattedrali gotiche, spesso Maria ed Eva sono fisicamente identiche: Ave Maria è
l’inversione di Eva. Come Gesù riscatta l’errore di Adamo, Maria riscatta
quello di Eva.
Perché la
Caduta?
Beato
l'uomo che sopporta la tentazione, perché una volta superata la prova riceverà
la corona della vita che il Signore ha promesso a quelli che lo amano.
Lettera di
Giacomo
Di norma,
quando uno cade, cerca di capire perché sia caduto, in modo da evitare di
commettere lo stesso errore e risparmiarsi le dolorose conseguenze. Come
Fulcanelli, sono dell’opinione che le cattedrali gotiche fossero dei libri
aperti che avevano la funzione di istruire i discenti principalmente in questa
materia: dove abbiamo sbagliato, come possiamo rimediare.
Al tempo
della caduta Adamo ed Eva sono completamente inesperti, privi di infanzia, di
educazione, di esperienza. Sono innocenti e puri come bambini. Per Ireneo Adamo
era, metaforicamente, un infante. Dio dice ad Adamo che può mangiare tutti i
frutti che vuole ma non quelli dell’albero della conoscenza del bene e del
male, perché ciò lo condannerà a morte. Adamo non poteva capire il significato
di bene e male, perché la sua comunanza con Dio forniva risposte immediate ai
suoi interrogativi. Il serpente tentatore spiega ad Eva che mangiando il frutto
proibito i suoi occhi si apriranno e sarà in grado di ottenere la facoltà
divina di distinguere tra bene e male, ma non è chiaro come Eva possa capire
quale sia la posta in gioco, visto che non ha alcuna conoscenza dei termini
della questione. Dunque cosa la spinge a soccombere alla tentazione?
Agostino,
nell’illustrare la sua interpretazione della Caduta, enfatizza l’aspetto del
diventare come dèi in termini di autorità e potere. Il peccato originale è
quello di aver creduto di poter essere il faro di se stessi, di aver
complottato per deporre Dio e prenderne il posto prima ancora di aver mangiato
il frutto. Clemente d’Alessandria e Ireneo sono concordi: per Adamo ed Eva
tutto doveva sembrare un gioco spensierato, in una realtà nuova, da esplorare.
Erano al di là del bene e del male perché non si ponevano neppure il problema
di poter commettere il male. Per loro, incuranti di ciò che va da sé, fare il
bene era un istinto insopprimibile. In generale si concorda sul fatto che Eva
abbia agito in buona fede ed abbia offerto il frutto per lealtà e spirito di
condivisione. Che ingiustizia - avranno pensato i due progenitori archetipici –
creare un albero così speciale per poi apporvi un tabù eterno, ossia una
tentazione eterna in presenza del tentatore ed una schiavitù eterna, perché non
c’è seduzione più facile di quella di ciò che non si può avere, anche se non si
sa neppure a cosa serva.
John
Milton, nel Paradiso Perduto, motiva la scelta di Adamo ed Eva di precipitare
nella materialità fisica e quindi nella mortalità con il desiderio di preferire
la conoscenza carnale (corporea) alla contemplazione. Mi pare la spiegazione più
logicamente plausibile. Anche nella tradizione rabbinica la storia della Caduta
è la storia dell’acquisizione della sessualità. È la conoscenza peccaminosa: il
frutto del peccato. Filone l’Ebreo associa il Serpente alla brama di piacere.
La mente si allontana da Dio quando è sviata dai sensi che operano sotto l’influenza
del piacere. L’influenza del Fedone platonico fu determinante:
– “E a
questa perfetta conoscenza può pervenire soltanto colui che alla verità si
volge con la sola mente, e non sorregge la sua ragione con alcun senso del
corpo, ma solo in sé e puro, con la mente pura, cerca di attingere il vero,
astraendosi, più che sia possibile, dagli occhi, dagli orecchi, dal corpo
tutto, poiché questo sconvolge l’anima e non le permette di acquistare verità e
sapienza. Non è forse quest’uomo, o Simmia, colui che potrà, più di ogni altro,
cogliere la realtà?
– Tu dici
il vero, o Socrate – rispose Simmia.
– Dunque –
seguitò Socrate – tutte queste considerazioni devono formare nei veri sinceri
filosofi un’opinione tale da indurli a ragionare pressappoco così: pare che ci
sia come un sentiero a guidarci verso la verità, perché fino a quando abbiamo
il corpo, e la nostra anima è mescolata con un siffatto malanno, noi non
riusciremo mai a raggiungere ciò che desideriamo. Infatti il corpo ci dà
infinite brighe per la necessità del nutrimento; e se poi esso si ammala, nuovi
impedimenti si frappongono alla nostra ricerca del vero. È ancora il corpo che
ci riempie di amori, di passioni, di terrori, di immaginazioni, di vanità
infinite, per cui non ci riesce di fermare il pensiero su cosa alcuna finché
siamo in sua balìa. E le guerre, le rivoluzioni, le battaglie, chi le produce
se non il corpo e le sue passioni? Le guerre, infatti, scoppiano per la brama
di ricchezze, e queste noi siamo stretti a procurarcele per il corpo,
incatenati come siamo al suo servizio, per cui non abbiamo più tempo di
dedicarci alla filosofia. Il peggio è poi che se per un momento riusciamo ad
essere liberi dal suo servizio e ci proponiamo di meditare su qualche cosa,
ecco che tutto d’un tratto si pianta nel mezzo della nostra meditazione e tutto
turba e scompiglia disanimandoci, così che per causa sua non siamo più in grado
di contemplare la verità. Resta, quindi, dimostrato che, se noi vogliamo
pervenire alla visione più pura del vero, dobbiamo distaccarci dal corpo e
contemplare la verità con la sola anima. Allora soltanto, quando saremo morti,
e non da vivi, come il ragionamento ci costringe ad ammettere, noi potremo
possedere ciò di cui ci professiamo amanti: la Sapienza, cioè. […] Bisogna
riconoscere, dunque, o Simmia, che tutti coloro i quali rettamente filosofano è
come se si esercitassero a morire; perciò a loro la morte fa molto meno paura
che agli altri”.
La lettura
psicologica della Caduta fu approvata da Sant’Ambrogio e divenne molto
influente nel corso del Medio Evo. Fu Agostino di Ippona ad opporvisi.
Il critico
letterario statunitense Stanley Fish, uno dei massimi esperti dell’opera di
Milton, scrive a proposito di “Il Paradiso Perduto”: “Satana è definito dall’abitudine
di identificare i limiti della realtà con i limiti dei propri orizzonti”. Lo
stesso problema di cui fanno esperienza Adamo ed Eva ed i loro discendenti dopo
la caduta. Questo perché la venerazione di ciò che è secondario è, in fin dei
conti, auto-venerazione perché accoglie come completa e definitiva, ossia come
divina, la prospettiva limitata del credente. Accontentarsi della comprensione
terrena significa fare di un’insufficienza umana un pregio, un vantaggio ed un
feticcio. C’è una forte dose di autolesionismo in questo.
Infatti il
Satana di Milton conclude che lui e gli altri ribelli si sono autogenerati
perché “non sappiamo di alcun tempo in cui siamo stati diversi da quello che
siamo”. È un ragionamento del tipo: esiste solo ciò che vedo e vedo solo ciò
che voglio vedere. Ergo: esiste solo ciò che voglio che esista. Questa, come
vedremo in seguito, è la maledizione del Minotauro o della Gorgone, contro cui
ci mettono in guardia i costruttori delle cattedrali. Adamo ed Eva si
sottomettono alla prospettiva soggettiva ed ai suoi limiti e questa diventa la
loro realtà. Loro stessi diventano la realtà che hanno scelto di vedere. L’auto-venerazione
inquina l’oggetto del suo culto, con la parzialità, l’arbitrio, l’invidia, la
gelosia e l’orgoglio. Volgendo la loro immaginazione verso l’universo
materiale, trascurano il disegno complessivo nella convinzione di poterne fare
a meno.
Fish
ritiene che, nella riflessione miltoniana, la Caduta non riguardi la materia di
per sé, che è incorrotta nella sua essenza, ma solo gli agenti dotati di libero
arbitrio ed autocoscienza. Sono alcuni di loro che, per una ragione o per l’altra,
hanno incorporato la materia in un progetto il cui obiettivo è interrompere
ogni relazione con Dio, opporvisi ed erigere un regno alternativo,
caratterizzato da valori alternativi. Nel Paradiso Perduto di Milton leggiamo
che gli effetti del libero arbitrio possono essere determinanti in un senso
molto più ampio di quel che ci si potrebbe attendere. Il libero arbitrio è
indipendente dal mondo, ma non è vero l’inverso. Ogni mia decisione trasforma
la mia percezione del mondo e quindi la realtà del mio mondo, non semplicemente
la mia relazione con esso. Continua Fish: “Quando Satana decide liberamente di
rompere l’alleanza con Dio, non si limita a modificare la sua relazione con il
potere che sostiene l’universo, modifica anche l’universo e ne crea uno nuovo,
popolato da persone, eventi, possibilità, aspirazioni e fatti che prendono
forma (per lui) simultaneamente rispetto alla sua auto-trasformazione. […]. Un
mondo in cui non sai mai chi sta per essere creato o distrutto ed è meglio per
te se arraffi ciò che puoi mentre sei ancora in tempo”.
Una volta
che ha generato questo mondo, Satana è costretto a dimorarvi, a vedere ciò che
gli è concesso di vedere, a trarre conclusioni e progettare le sue mosse sulla
base della sua definizione della realtà (falsata). Se concepisce Dio come un tiranno
paternalistico il cui regno è un mero accidente, quella concezione finirà per
strutturare la sua comprensione di tutto ciò che accadrà da quel momento in
poi. I ribelli non possono più vagliare adeguatamente delle alternative, perché
hanno scelto di restringere il loro campo visivo e concettuale ed ora sono
condannati a vedere in ogni cosa una conferma di quello in cui hanno sempre
creduto.
Più oltre
scopriremo come gli architetti delle cattedrali, memori di una lunga
tradizione, avevano tentato di ovviare a questo problema.
Come si
ritorna nell’Eden?
Egli lo
creò maschio e femmina.
Genesi, I,
27
[L’alchimista]
accede a esperienze iniziatiche che, man mano che l’opus progredisce, gli
forgiano un’altra personalità, simile a quella che si ottiene dopo aver
superato vittoriosamente le prove di un’iniziazione. La sua partecipazione alle
varie fasi dell’opus è tale che, per esempio, la nigredo gli procura esperienze
analoghe a quella del neofita nelle cerimonie di iniziazione, quando si sente
inghiottito nel ventre del mostro, o sotterrato, o simbolicamente ucciso dalle
Maschere e dai Maestri di iniziazione. […]. La fase che segue la nigredo, cioè
l’opera bianca (albedo), corrisponde verosimilmente, sul piano spirituale, a
una “risurrezione” che si traduce nell’appropriazione di alcuni stati di
coscienza inaccessibili alla condizione profana.
Mircea
Eliade
Come si
ritorna all’Eden? Questa è la questione centrale che tiene impegnate le
tradizioni ermetiche di tutto il mondo, a partire dalla sciamanismo.
Nella
cattedrale di Amiens il timpano della porta del Salvatore raffigura il giudizio
universale. Per gli eletti si aprono le porte della Gerusalemme Celeste, i
dannati saranno inghiottiti dal Leviatano. Questo esito sarà determinato dalla
pesa delle anime, chiamata psicostasia. San Michele pesa le anime sulla
bilancia come, prima di lui, Minosse o l’egizia Mâat. Nella teologia medievale,
la risurrezione riguarda “corpi di gloria”, non di carne, restituiti ad un’età
giovanile, come quello di Gesù alla morte, in accordo con la visione paolina: “Quanto
a noi, la nostra cittadinanza è ne’ cieli, d’onde anche aspettiamo come
Salvatore il Signor Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra
umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della
potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa” (Filippesi 3:20-21).
Ma perché
attendere fino alla fine dei Tempi? Non sarebbe magari possibile arrivarci
prima, adoperando certe tecniche di purificazione e redenzione? In fondo, agli
apostoli che lo interrogano sull’attesa dell’avvento del Regno dei Cieli, Gesù
replica: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno
dirà: Eccolo qui, o eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!” (Luca
17, 20-21). Però in mezzo dove?
La mia
tesi è che chi progettò le cattedrali credeva che ciò fosse effettivamente
possibile e che il momento dipendeva unicamente dalla preparazione spirituale
dell’iniziato. Il primo passo nell’iter di preparazione era la liberazione
dalle identificazioni con le cose del mondo, specialmente l’identificazione con
ego e con il proprio genere. La questione dell’aggiramento di Ego per accedere
alla propria vera identità sarà discussa più diffusamente nella seconda parte
del saggio. Qui mi preme investigare il tema dell’androginia spirituale.
Di norma
si tendono ad enfatizzare le differenze tra uomini e donne, mentre invece
dovrebbe essere ovvio a tutti che quello che ci accomuna è infinitamente di più
di quel che ci separa. Io ipotizzo che i mastri muratori delle cattedrali
avessero ben presenti certe esortazioni attribuite a Gesù, che si armonizzavano
con una gnosi coltivata nei millenni e che ritroviamo nelle culture
sciamaniche, appunto, che hanno caratterizzato la quasi totalità della storia
umana ai quattro angoli del pianeta.
Tra gli
scritti apocrifi, il Vangelo di Tommaso e il Vangelo greco degli Egiziani – che
la Chiesa si premurò di distruggere ma che furono citati dagli stessi padri
della Chiesa per confutarli, a testimonianza del fatto che continuarono a
circolare clandestinamente nei secoli – offrono delle buone sintesi dell’autentica
rivelazione. «Gesù disse loro: “Quando farete dei due uno, e quando farete
l'interno come l'esterno e l'esterno come l'interno, e il sopra come il sotto,
e quando farete di uomo e donna una cosa sola, così che l'uomo non sia uomo e
la donna non sia donna, quando avrete occhi al posto degli occhi, mani al posto
delle mani, piedi al posto dei piedi, e figure al posto delle figure allora
entrerete nel Regno” » (Tommaso, 22). «Gesù disse: "Quando farete dei due
uno diventerete figli di Adamo, e quando direte 'Montagna, spostati!' si
sposterà"» (Tommaso, 105). «Simon Pietro gli disse, "Lasciate che
Maria se ne vada, poiché le donne non meritano la vita" Gesù disse,
"Io stesso la guiderò in modo da farla maschio, così anche lei potrà
diventare uno spirito vivente somigliante a voi maschi. Poiché ogni donna che
farà se stessa maschio, entrerà il Regno dei Cieli"» (Tommaso, 114).
Analogamente,
il vangelo greco degli Egiziani, che è databile tra la fine del I secolo e la
metà del secondo secolo a.C., chiosa, in risposta alla questione che dà il
titolo dal capitolo: “quando quei due (maschio e femmina) saranno uno solo,
nell’esterno come nell’interno, e il maschio con la femmina non sarà né maschio
né femmina”. Infine, la Seconda lettera di Clemente, riporta: «interrogato da
qualcuno su quando verrà il Regno, il Signore stesso rispose: “quando i due
saranno uno, il fuori come il dentro e il maschio con la femmina né maschio né femmina”».
Il
superamento (limitatamente alla sfera psicologica e spirituale) del dimorfismo
sessuale è implicito nella risposta di Gesù agli apostoli che gli chiedono cosa
si debba fare per assicurarsi un posto nel Regno dei Cieli: «Allora Gesù chiamò
a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: “In verità vi dico: se non vi
convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei
cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più
grande nel regno dei cieli”». (Matteo 18, 2-4). Come pure negli effetti della
gloria: “E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno
come noi siamo uno; io in loro, e tu in me; acciocché siano perfetti nell’unità”
(Giovanni, 17:22-23). Paolo di Tarso esprime una posizione assolutamente
conforme: “Non c’è qui né Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è
né maschio né femmina; poiché voi tutti siete uno in Cristo Gesù” (Galati 3,
28). Che riafferma in una diversa epistola: “Ora invece deponete anche voi
tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla
vostra bocca. Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati
dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova,
per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. Qui non c'è più Greco o
Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma
Cristo è tutto in tutti” (Colossesi, 3, 8-11).
Eva, in
fondo, è il doppio di Adamo: proviene simbolicamente da una sua costola e, come
lui, è creata a immagine e somiglianza del Padre. La mitologia mondiale ci
offre innumerevoli esempi di coppie di antenati gemellari (Eliade, 1989). Nel
Giardino del Paradiso Perduto non vi è una reale divisione di funzioni e ruoli
nella coppia: vi è solo la condivisione della comunione con Dio. È solo con la
caduta che a ciascuno è assegnato un ruolo e dei compiti ben precisi: Eva
partorirà con dolore e sarà sottomessa al marito, Adamo si spaccherà la schiena
nei campi.
Nel
Simposio, il dialogo platonico che tocca il tema dell’androginia, gli androgini
hanno forma sferica. Sono descritti come arroganti, sempre pronti a minacciare
l’autorità divina, a cercare di sostituirsi gli dèi, come il Serpente e come
Adamo ed Eva. Zeus ne ha abbastanza: li dimezza per renderli impotenti. Da quel
momento in poi le due metà complementari si cercano, per riunificarsi e
completarsi. La scissione corrisponde alla Caduta biblica in una realtà fatta
di caducità, divenire, temporalità, finitezza, ignoranza, travaglio e
sofferenza. Questo mito sembra voler insegnare che, inconsciamente, è possibile
che il desiderio di “accoppiarsi” – sessualmente ed affettivamente, a
prescindere dal genere del partner – sia uno sforzo (per sua natura
fallimentare) di ritornare all’Età dell’Oro, all’Eden, come se quest’archetipo
fosse particolarmente pressante, in noi.
È
possibile che il motivo dell’androginia sia molto antico. “L’idea della
bisessualità veicolata attraverso il mito dell’androginia si ritrova tanto
nelle culture arcaiche quanto in quelle culture che hanno sviluppato forme di
religione complesse. Sin dalle culture megalitiche, a partire dalle quali la
bisessualità divina sembrerebbe chiaramente attestata, l’idea della divinità
androgina, su cui si fonda l’ordine di svariate culture anche lontane nel tempo
e nello spazio, consente di recuperare a livello mitico l’unità dei principi
osservati nella realtà in forma separata. Un caso classico di androginazione
rituale è rappresentato dagli operatori sciamani, in particolare siberiani ed
indonesiani” (D’Agostino, 1997, p. 155).
L’endemicità
transculturale della figura divina androgina ci fa pensare che anticamente non
ci fu mai una società matriarcale, poi soppiantata da una società patriarcale.
Sembra più probabile che il divino non fosse considerato maschile o femminile,
ma come un principio compartecipe di entrambe le nature – che si manifestava
nello Spirito, nelle stelle, nell’energia – che probabilmente ispirava una
certa misura di egalitarismo in queste società immotivatamente considerate “primitive”
(Eliade 1971, 1989; Sullivan, 1988). Nella Bhagavad Gita, Krishna dice: “Io
sono il padre di questo mondo dei viventi, e sua madre”. Tiresia è in grado di
comunicare con gli dèi e di predire il futuro perché è stato uomo, poi donna e
poi ancora uomo. In “Mefistofele e l’androgine” (sic!), Eliade rilegge il
principio della coincidentia oppositorum di Nicolò da Cusa come “definizione
meno imperfetta di Dio”. Per Eliade, partendo dal medesimo presupposto, l’androginia
diventa la chiave per avvicinarsi a Dio. L’androgino rituale, nell’esoterismo, è
un modello di essere umano esemplare perché, a differenza dell’ermafrodita, che
accumula l’anatomia dei due sessi senza fonderli, l’androgino unisce
simbolicamente “la totalità delle potenze magico-religiose dei due sessi”.
Rivisitando le teorie pitagoriche, platoniche, neoplatoniche, cabalistiche e le
visioni del romanticismo europeo, dello sciamanismo e della mistica cristiana,
Eliade dimostra l’esistenza di un filo conduttore all’interno di una scuola di
pensiero che travalica confini ed epoche, per ritrovarsi nell’imperativo della
reintegrazione progressiva dei sessi, che invece ogni società tende a separare
in modo molto accentuato. Scoto Eriugena (IX secolo d.C.), uno dei massimi teologi
cristiani medioevali, affermava che la divisione sessuale avrebbe avuto termine
con la riunificazione dell’uomo nel trasfondersi di una parte del mondo
terrestre nel paradiso. Il mistico tedesco Jacob Boehme riferiva di uno stato
adamico caratterizzato dall’incorruttibilità, dall’androginia, dalla
riproduzione angelica senza sesso (partenogenesi?) e dall’alimentazione
non-materiale, condizione che si sarebbe replicata nel Regno di Dio.
Perfino un
medico come Johann Wilhelm Ritter, amico di Novalis si lasciò catturare dal
fascino della risoluzione androgina, concludendo nel suo “Fragmente aus dem
Nachlass eines jungen Physikers” che “Eva è nata da un uomo senza aiuto della
donna; Cristo è nato da una donna senza l’aiuto dell’uomo; l’Androgino nascerà
da entrambi. Ma l’uomo e la donna si fonderanno in un unico fulgore” (Eliade,
1989, p. 63). Un altro medico, Franz von Baader, anche lui un erudito in fatto
di cognizioni ermetiche, riteneva che l’androginia fosse la condizione “naturale”
dell’umanità e che la divisione sessuale fosse episodica, legata alle leggi
naturali di questo mondo. Di conseguenza l’umana perfezione discende dalla
condizione primigenia dell’Antenato mitico, in cui convergono unità e totalità
(Eliade, 1990). L’androginia originaria era accettata come un’ovvietà anche dal
visionario poeta e pittore inglese William Blake.
Questa
tensione trascendentalista dell’ermetismo è stata ottimamente riepilogata dallo
storico delle religioni, Joseph Campbell (1992, pp. 190 e segg.): “l’idea
fondamentale di tutte le discipline religiose pagane, sia orientali sia
occidentali, durante il periodo in questione (primo millennio avanti Cristo)
era che l’introspezione mentale (simboleggiata dal tramonto) avrebbe dovuto
culminare nella realizzazione dell’identità in esse fra l’individuo
(microcosmo) e l’universo (macrocosmo); quando si fosse ottenuto ciò, si
sarebbero unificati i principi dell’eternità e del tempo, del sole e della
luna, del maschile e del femminile, di Hermes e di Afrodite (ermafrodito) e dei
due serpenti del caduceo. […] Coloro che, come Tiresia, hanno visto e
sperimentato il mistero dei due serpenti, e che sono stati almeno in un certo
senso, sia maschi sia femmine, conoscono entrambi gli aspetti della realtà; e
pertanto essi hanno assimilato ciò che è l’essenza della vita e sono, quindi,
eterni”.
Lo
sciamano e il Graal
Di quelli
che hanno trovato se stessi, il mondo non è degno.
(Tommaso,
111)
Una luce
misteriosa che lo sciamano percepisce improvvisamente nel suo corpo, nella testa,
nel centro stesso del suo cervello, come un faro, inesplicabile, come un fuoco
luminoso che lo rende capace di vedere nel buio, sia nel senso concreto che nel
senso metaforico, perché ora, anche ad occhi chiusi, egli riesce a vedere
attraverso le tenebre e a percepire cose e avvenimenti futuri, nascosti agli
altri uomini. […].come se la capanna nella quale si trova si alzasse tutt’a un
tratto; egli vede molto lontano dinanzi a sé, attraverso le montagne, proprio
come se la terra fosse una grande pianura e il suo sguardo raggiungesse i
confini della terra. Per lui non vi è più nulla di nascosto. Non solo è in
grado di vedere molto lontano, ma può perfino scoprire le anime rubate.
Mircea
Eliade
Quando i
testi sumerici descrivono i paramenti della regalità citano anche oggetti come
il tamburo (pukku) e la bacchetta (mikku), tradizionali “strumenti di lavoro”
dello sciamano, il cui incarico è quello di difendere la sua comunità dalla
sterilità, dalla fame, dalla morte, dalle malattie e, più in generale, dal
male. Le saghe sumere sono letteralmente sature di temi sciamanici come il volo
magico, l’animale-guida, la pianta magica, l’iniziazione del novizio, l’ascetismo,
l’immortalità, i guardiani del cielo, il sogno sacro, i poteri guaritori,
premonitori e profilattici. Anche il racconto evangelico abbonda di riferimenti
sciamanici. Leggiamo di guaritori-esorcisti nati da una vergine, che digiunano
e resistono alle tentazioni durante la loro iniziazione che si conclude con un
battesimo e la discesa dello Spirito Santo in forma di un volatile totemico.
Fanno risorgere i morti, camminano sull’acqua, sfamano gli affamati e
modificano le condizioni atmosferiche, sono amati dalle folle per i loro
miracoli, muoiono (ritualmente) e risorgono dopo tre giorni. Sono tutti motivi
che si ritrovano nelle tradizioni orali pre-cristiane dello sciamanismo
asiatico (Znamenski, 2007). Il sostrato sciamanico si estende dall’Atlantico
all’India (McEvilley 2002) e in tutto il resto del mondo (Eliade &
Couliano, 1990), con notevoli affinità anche in assenza di contatti diretti
(Wilbert, 1993; Bocci, 2009). A me interessa evidenziare la relazione esistente
tra sciamanismo, tradizione cavalleresca e simbologia pagano-cristiana nelle
cattedrali gotiche.
Incamminiamoci
nella direzione indicata dall’antropologo statunitense Michael Harner
(Berkeley, Columbia e Yale) che, nel 1960, dopo aver assunto ritualmente delle
sostanze psichedeliche sotto la supervisione di sciamani indigeni, ebbe questa
visione: “vidi un’immagine luminosa fluttuare verso di me. La guardavo
terrorizzato diventare sempre più grande e trasformarsi in una forma
attorcigliata. La gigantesca figura di rettile contorto fluttuava direttamente
verso di me. Il suo corpo risplendeva di tinte brillanti di verde, viola e
rosso e, mentre si contorceva nel mezzo dei fulmini e dei tuoni, mi guardava
con uno strano sorriso sardonico”. Questi esseri ofidici asserirono di essere i
veri padroni del mondo e dell’umanità e lo esortarono ad accettare questo dato
di fatto. Lui li scacciò con il bastone sciamanico e, in un secondo momento, lo
sciamano che lo istruiva gli spiegò: “Oh, dicono sempre così. Ma sono solo i
Padroni dell’Oscurità Cosmica” (Harner, 1982).
Si tratta
evidentemente di una visione iniziatica. Il cavaliere è alle prese con il
Mostro, con il Drago che dovrà uccidere se vorrà dimostrarsi degno del mandato
che gli è stato assegnato. I precedenti sono illustri: Perseo, Teseo, Ercole,
Ulisse, Davide e Uther Pendragon, padre di re Artù: secondo una tradizione il
suo nome deriverebbe dall’uccisione di un drago. Decapitatolo, la testa gli
servì a reclamare il trono per sé. Cadmo spappola la testa del serpente
assassino che custodisce la sacra fonte curativa Castalia. Ercole uccide l’idra
di Lerna ma anche Ladone, il drago-serpente guardiano che si era attorcigliato
attorno all’albero dei pomi d’oro delle Esperidi, nel giardino di Atlante.
Apollo uccide Pitone, presso la fonte sacra dell’oracolo di Delfi. Zeus doma
Tifeo (Tifone), metà uomo e metà bestia.
Il drago
viene ucciso da molti santi: san Michele, san Giorgio, san Galgano, san Leucio.
Curiosamente, la tradizione vuole che San Giorgio sia nato a Tarso, dove Zeus
combatté contro Tifone, e che la sua tomba si trovi a Giaffa dove Perseo si
scontrò con Ceto. Sempre da Giaffa salpò Giona, diretto a Tarso, poco prima di
finire nel ventre della “balena”. La Bestia precipita negli Inferi quando il
Gesù miltoniano resiste alle tentazioni, superando le prove. Il Buddha compie
la medesima impresa contro Mara. Il mostro rappresenta simbolicamente ego, il
filtro che impedisce di vedere la realtà come effettivamente è e non come siamo
costretti a vederla da una prospettiva autocentrata. La vittoria su ego
consente all’eroe di accedere alla sapienza cosmica, che prima gli era
preclusa. Il tema epico del cavaliere errante uccisore del drago ritorna nel
motivo dell’arte medievale di Gesù che schiaccia il basilisco o il drago. Lo
stesso vale per lo sciamano che si deve isolare nella foresta e trovare se
stesso prima di poter espletare le sue funzioni in seno alla tribù. Anche
Socrate e Gesù si isolano prima di intraprendere la loro missione.
L’Eroe
della cerca del Santo Graal è Parsifal, nome forse etimologicamente
riconducibile all’etrusco Phersu (altro guerriero che affronta la sua
iniziazione nell’Ade), a Persefone, ma soprattutto a Perseo. La cerca è un
percorso iniziatico di tipo sciamanico: come lo sciamano, Parsifal è chiamato a
curare i mali del mondo e restituire la fertilità alla terra. Perseo e Parsifal
sono tra i pochi eroi che hanno successo e non sono puniti dagli dèi. Perseo
taglia la testa a Medusa, uccide il mostro marino, salva la damigella che poi
sposa ed infine ascende al cielo: è il prototipo di tutti i cavalieri azzurri.
Perché decapita Medusa? Perseo è un redentore e la nomina a cavaliere avviene
attraverso una decapitazione simbolica: il sovrano tocca entrambe le spalle del
cavaliere con una spada (“accollata”). Anche questo rientra nel rito della
liberazione della coscienza dalla gabbia del corpo e quindi di ego. Analogamente,
lo sciamano viene “smembrato”, come Dioniso, e poi ricomposto, magari con filo
di ferro o giunti di ferro, il metallo con cui sono fatte le spade.
La
missione dello sciamano avrà successo solo quando la sua comunità tornerà ad
essere florida. È anche il motivo centrale dell’epopea del Santo Graal: la
terra è isterilita, il re pescatore è gravemente malato, la sua reggia è
diventata invisibile. Ci sono armi magiche (lancia insanguinata) e recipienti
magici (calice). Il cavaliere deve riuscire a curare la malattia del re, che ha
causato la carestia, e lo può fare solo ponendo le domande giuste, come ad
esempio quale sia la funzione del Graal. Se lo farà il re non solo sarà curato,
ma ringiovanirà e la terra tornerà feconda. L’Eden tornerà in terra ed il cavaliere
sarà nominato nuovo custode del Graal.
Emma Jung,
moglie di Carl Jung ed anch’essa psicanalista, assieme ad un’allieva svizzera
di Jung, Marie-Louise von Franz, ha dedicato un inestimabile volume all’analisi
degli archetipi contenuti nella saga del Graal (Jung & von Franz,
2002). Vorrei riepilogare i punti salienti del loro studio prendendo le mosse
dal motivo del Paradiso Ritrovato, che le due autrici descrivono come “un
tratto che si presenta con particolare forza nell’immaginario celtico”. L’aldilà
celtico non è il soggiorno dei defunti ma una “terra dei vivi” (cf. le parole
di Gesù), un “Elisyum degli immortali”: “Un mondo senza malattia né morte, in
cui gli uomini vivono in eterna giovinezza come esseri divini, godendo di
squisiti cibi e bevande e ascoltando dolce musica, un paese tuttavia che l’umanità
ha perduto e verso il quale perciò solo pochi eletti possono ritrovare la
strada (op. cit. p. 23). I lettori si ricorderanno che il Vecchio ed il Nuovo
Testamento localizzano il Paradiso Terrestre / Regno di Dio sulla Terra, ma non
in questo mondo: l’ubicazione è la medesima, la dimensione è invece parallela.
Mentre i viventi incarnati si credono vivi, sono in realtà “morti”. La vera
vita è nell’altro mondo. Così, nel poema “Diu Krone”, il re dice al trovatore
del Graal: “sembriamo vivi, in realtà siamo morti”. Resta il potenziale di
redenzione e rivitalizzazione: “questo paese si trova in mezzo al mondo
abituale, ma nascosto dietro un magico velo di nebbia, e si rende visibile solo
in situazioni particolari e a individui particolari” (ibidem).
Di fatto,
Parsifal non riesce proprio a vedere il castello del re pescatore, per quanti
sforzi faccia. È proprio un pescatore ad aiutarlo a trovare la strada. Anzi,
per la precisione, glielo indica con il dito ed il cavaliere si accorge di
averlo sempre avuto davanti agli occhi, senza riuscire a scorgerlo. Il castello
si erge di fronte a lui, il cancello ed il portone sono aperti, come se fosse
atteso. Eppure, senza l’intervento provvidenziale del pescatore, egli non l’avrebbe
visto ed avrebbe continuato la sua ricerca. “Questo ricorda l’immagine
archetipica del paradiso perduto”, osservano le due autrici.
Il
pescatore e il re pescatore rimandano a Orfeo, il Pescatore (Eisler, 1921) e a
Gesù, il Pescatore di uomini: “Venite dietro a me, e vi farò pescatori d’uomini”
(Matteo 4:19). E ancora: “Il regno de’ cieli è anche simile ad una rete che,
gettata in mare, ha raccolto ogni sorta di pesci; quando è piena, i pescatori
la traggono a riva; e, postisi a sedere, raccolgono il buono in vasi, e buttano
via quel che non val nulla. Così avverrà alla fine dell’età presente” (Matteo
13: 47-49). Jung e von Franz ci ricordano che in un papiro magico copto il
Cristo è rappresentato nell’atto di pescare se stesso in forma di pesce. In
alcune versioni della leggenda il re pescatore è chiamato Pelles o Pellam, che
ci rimanda ad Apollo (Apollōn/Apellōn), il nume tutelare di Orfeo - Pitagora rendeva onore
principalmente ad Apollo Iperboreo –, ma anche a Pwyll, il re gallese degli
inferi. A Delo, la Danza della Gru di cui ci occuperemo in un apposito capitolo
veniva eseguita in onore di Apollo.
A questo
punto le autrici arrivano ad un’importante conclusione: “il vecchio re del
Graal corrisponderebbe ad Adamo morto, il quale, come quest’ultimo, deve
attendere un salvatore….[è] l’idea che in un certo senso all’inizio della
creazione vi fosse un piano o un disegno segreto che corre da Adamo fino a
Cristo e che collega la figura del primo padre dell’umanità con quest’ultimo.
Dunque se nella leggenda del Graal vi è un riferimento a tale disegno divino,
bisogna supporre che il piano di salvezza debba proseguire oltre Cristo,
appunto presumibilmente fino a Perceval, cioè fino al tierz hom, fino alla
realizzazione dello Spirito Santo” (p. 381).
In questo
luogo le normali leggi dello spaziotempo non si applicano: il Re stenta a
credere che Parsifal sia riuscito a coprire una distanza così estesa in un solo
giorno. Nel Parsifal di Wagner l’accompagnatore del cavaliere gli spiega: “vedi,
figlio mio, qui il tempo si fa spazio”. Le due studiose osservano le analogie
con il processo alchemico: “la vita prodotta dall’opus o dal Graal è diversa da
quella visibile, fisica. […] Con questa vita diversa non sembra che si voglia
intendere la vita dopo la morte, bensì una vita che si svolge in questa vita ma
su un altro piano” (p. 154). È un “essere presenti ma in modo inafferrabile,
incomprensibile”.
Mentre lo
spazio ed il tempo sono relativi, non lo sono i valori: la tavola è rotonda a
rimarcare la pari dignità di chi vi siede attorno. Inoltre il cavaliere del
Graal deve dimostrarsi degno dell’impresa, non dando sfoggio di forza e
destrezza, ma di integrità morale e chiarezza di intenti e di intelletto; solo
così potrà emulare i mistici, realizzando la divinità nella materia (una
coscienza superiore), giacché il compito del cavaliere è “l’unione del mondo
dell’aldiqua con quello dell’aldilà” (p. 198). Che questa non sia un’impresa
facile è testimoniato dal fatto che Parsifal fallisce ripetutamente ed ogni volta
è costretto a cercare di nuovo il castello. Perché fallisce? Perché si macchia
della colpa di “agire sempre in modo inconsapevole. Non è tanto quello che fa
ad essere sbagliato, quanto il fatto che in tutto ciò che fa egli non è
consapevole delle conseguenze delle sue azioni” (p. 211).
Gesù,
Fulcanelli e il Corpo Mistico
La
trasformazione dei corpi in luce e della luce in corpi è pienamente conforme
alle leggi della natura, perché la natura sembra affascinata dalla
trasmutazione.
Isaac
Newton
In verità,
in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel
regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo
Spirito è spirito…Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da
dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito.
Giovanni
3, 1-8
Il
credente può restare interdetto nel leggere certi passi evangelici che
riguardano la vera vita. Gesù si dichiara un irriducibile amante della vita, ma
non di quella vita organica che la Chiesa sembra voler difendere oltre ogni
ragionevole aspettativa. Gesù insegna che esiste un’altra vita, una vita
sensibilmente più importante di questa, tanto che “chiunque è vivo per colui
che vive non vedrà la morte” (Tommaso, 111). È beato chi “si è impegnato ed ha
trovato la vita" (Tommaso, 58), ma il compito non è per niente facile: “stretta
invece è la porta ed angusta la via che mena alla vita, e pochi son quelli che
la trovano” (Matteo 7:14). È come inoltrarsi in un labirinto, ma è necessario
farlo, perché “chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto
la sua vita per amor mio, la troverà” (Matteo 16: 25). Sarà una vita vera ed
eterna, non come quella del presente, che equivale ad una morte vivente: “Chi
ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha vita eterna; e non
viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5:24). Il
corpo di carne, infatti, è il fardello della caduta e Gesù non sa che farsene: “È
lo spirito quel che vivifica; la carne non giova nulla; le parole che vi ho
dette sono spirito e vita” (Giovanni 6, 63). Il suo piano è incentrato proprio
sul dono della vera vita: “io son venuto perché abbian la vita e l’abbiano in
abbondanza” (Giovanni 10, 10). Questo l’ha ben compreso Paolo di Tarso, che
rincara: “Perché ciò a cui la carne ha l’animo è morte, ma ciò a cui lo spirito
ha l’animo, è vita e pace” (Romani 8:6).
La mia (e
non solo mia) tesi è che la funzione del labirinto, dall’antichità all’epoca
delle cattedrali e oltre (cf. alchimia, meditazione trascendentale,
misticismo), sia stata quella di educare l’iniziato alla cerca del Graal, ossia
alla realizzazione della vera vita già in questo mondo, prima dell’avvento del
Regno, eludendo quindi i condizionamenti imposti alla coscienza dalla Caduta.
Non mi interessa dimostrare che ciò sia possibile, ma semplicemente che questo
era l’obiettivo, più o meno realistico. L’idea era quella di emulare Gesù, il
Cristo risorto.
Stando a
quello che ci è stato tramandato, nessuno è in grado di riconoscere Gesù
risorto. Né Maria di Magdala: “Mentre parlava si voltò e vide Gesù in piedi, ma
non sapeva che era lui. Gesù le disse: - Perché piangi? Chi cerchi? Maria pensò
che era il giardiniere e gli disse: - Signore, se tu l’hai portato via dimmi
dove l’hai messo, e io andrò a prenderlo. Gesù le disse: - Maria! Lei subito si
voltò e gli disse: - Rabbunì!” (Giovanni 20,14-16). Né i due discepoli in
viaggio per Emmaus, che lo scambiano per un viandante e fanno un tratto di
strada con lui senza capire chi sia. Solo in una locanda, quando benedice il
pane e lo spezza, capiscono: “In quel momento gli occhi dei due discepoli si
aprirono e riconobbero Gesù” (Luca 24, 31). Sulle rive del lago di Tiberiade, i
discepoli che pescano non paiono essere più lucidi e perspicaci: “Era già
mattina, quando Gesù si presentò sulla spiaggia, ma i discepoli non sapevano
che era lui. Allora Gesù disse: Gettate la rete dal lato destro della barca e
troverete pesce. I discepoli calarono la rete. Quando cercarono di tirarla su
non ci riuscivano per la gran quantità di pesci che conteneva. Allora il
discepolo prediletto di Gesù disse a Pietro: - È il Signore!” (Giovanni, 21:
4-7). Qualcosa è successo al corpo di Gesù. È come se non fosse presente in
carne ed ossa, ma in una sua emanazione sotto un’altra forma, una forma
cangiante e spesso di difficile identificazione.
Gli Atti
di Giovanni, un corpo di scritti apocrifi attribuiti all’apostolo Giovanni e
risalente al II secolo d.C., molto popolare, ma bandito dalla Chiesa con il
secondo concilio di Nicea, nel 787, sono ancora più espliciti. In essi, oltre a
trovare una preziosa descrizione di un girotondo danzante chiamato choreia
(come la Danza della Gru – si veda oltre) in cui Gesù conduce e canta un inno,
mentre gli apostoli rispondono con un “amen”, possiamo leggere una perfetta
sintesi della credenza nella possibilità di “passare oltre”, in una dimensione
materialmente meno densa, quasi compiendo un balzo quantico (su questo punto
rimando agli studi del fisico teoretico Shimon Malin).
Riporto il
passaggio quasi integralmente, perché è molto pittoresco ed istruttivo: “Dopo
aver scelto Pietro e Andrea, che erano fratelli, venne da me e da mio fratello
Giacomo, dicendo: “ho bisogno di voi: venite”. Mio fratello, udite queste
parole, mi disse: “Giovanni, che cosa vuole quel bambino che sta sulla riva e
che ci chiama?” Io chiesi: “Quale bambino?” E lui di nuovo: “quello che ci fa
cenni”. Io risposi: “A forza di guardare il mare, fratello mio, non vedi più
bene. Io vedo un uomo, là in piedi, bello, piacevole e cordiale”. Ma lui disse:
“io non lo vedo, fratello. Comunque, andiamo a vedere che cosa vuole”. E così,
dopo aver portato a terra la barca, lo vedemmo; ed egli ci aiutò nella manovra.
Ma quando ce ne andammo, pensando di seguirlo, egli apparve a me alquanto
calvo, ma con una barba fitta e fluente, mentre a Giacomo apparve un giovane
con la prima barba. Eravamo, pertanto, entrambi perplessi sul significato di ciò
che avevamo visto. E, mentre lo seguivamo, la perplessità andò sempre più
aumentando…Cercando di vederlo da vicino, non scorsi mai le sue palpebre
sbattere: aveva gli occhi sempre aperti. E talvolta mi sembrava un piccolo e
brutto uomo, talvolta uno altissimo. Inoltre c’era in lui un’altra stranezza:
quando ci sedemmo a mangiare, egli mi strinse al petto, che talvolta mi
appariva tenero e molle, e talvolta duro come pietra…talvolta quando lo
toccavo, incontravo un corpo solido, materiale, ma talvolta sembrava fatto di
una sostanza inconsistente, non materiale. Se qualche volta veniva invitato da
qualche fariseo e accettava l’invito, noi lo accompagnavamo, e davanti ad
ognuno di noi veniva messa una pagnotta. Ma egli benediva la propria e la
divideva fra tutti; e con quella piccola porzione noi ci saziavamo, mentre le
nostre pagnotte restavano intere…Spesso, quando camminavo con lui, volevo
vedere le impronte dei suoi piedi, per verificare se rimanevano sul terreno,
perché era come se egli si librasse sul suolo; e, in effetti, non le vidi mai”.
Quello di
Gesù è, ora, un corpo mistico; come, ci viene detto dai suoi estimatori ed
amici, quello di un esperto di cattedrali gotiche, l’alchimista Fulcanelli. Eugène
Canseliet, intervistato dal giornalista Henri Rode, afferma di aver incontrato
Fulcanelli a Siviglia nel 1953, in Andalusia, vent’anni dopo il suo decesso e
di non essere riuscito a riconoscerlo. Questo perché il suo non era più un
corpo fisico ma un “corpo di gloria”: Fulcanelli era stato capace di realizzare
l’opus alchemica. Leggiamo il suo resoconto: “Ero in viaggio in Spagna, non lontano
da Siviglia, dov’ero ospite di un amico proprietario di una bella dimora con
una terrazza ed una doppia scalinata che dava sul parco. All’improvviso
avvertii la presenza di Fulcanelli nei paraggi”. Ma tutto quel che riesce a
scorgere è un bambino di dieci anni ed una ragazza, accompagnati da un pony e
da due levrieri: il tutto sembrava uscire da un dipinto del Vélasquez,
constata. Poi, però, un’altra sera, vede una giovane dama, una sovrana, che
porta al collo il toson d’oro. Ella gli rivolge un cenno col capo ed è come se
Fulcanelli gli sussurrasse: “mi riconosci?”. In un’altra intervista, concessa a
Robert Amadou e poi inclusa nel libro di quest’ultimo intitolato “Le Feu du
Soleil - Entretien sur l’Alchimie avec Eugène Canseliet”, Canseliet conferma: “Fulcanelli
non c’è più. È ancora sulla terra, ma è nel Paradiso terrestre. Che cosa sta
facendo? Non ho potuto vedere nulla… È venuto a trovarmi al mio laboratorio…due
volte”. Fulcanelli e l’estensore degli Atti di Giovanni considerano la materia
impura e ne traggono la conclusione che una vita più spirituale deve essere,
letteralmente, meno materiale.
Lo storico
britannico Brian J. Gibbons ha offerto un contributo mirabile su questo filone
della tradizione ermetica (Gibbons, 2004) che, va detto, non è assolutamente un
monopolio europeo (Eliade, 1992; Sullivan, 1988; McEvilley, 2002). Gibbons
chiarisce che per il pensiero ermetico la Caduta è una “repentina transizione
da uno stato incondizionato e non contingente a uno stato condizionato e
contingente” (p. 97) concernente la coscienza che, alla caduta, si sdoppia in
una coscienza trascendente ed una coscienza egoica, incatenata alla materialità
del mondo. Solo la coscienza trascendentale è veramente oggettiva, ossia è in
grado di vedere la realtà come effettivamente è. Ego, invece, a causa della sua
corporeità, è intrinsecamente ed irrimediabilmente soggettivo e si percepisce
come un oggetto speciale tra tanti altri oggetti. L’unica maniera per tornare
alla condizione pre-Caduta è quella di aggirarlo privilegiando, come Paolo di
Tarso, lo spirito rispetto al corpo. Gibbons cita una serie di opinioni davvero
sorprendenti – per la mentalità contemporanea – di teologi, filosofi e studiosi
dell’occulto, che peraltro concordano con quanto affermato da Ireneo e San
Paolo: esiste un corpo naturale distinto dal corpo spirituale (1 Corinzi 15,
44) e quest’ultimo si manifesterà alla fine dei Tempi: “Or questo dico,
fratelli, che carne e sangue non possono eredare il regno di Dio né la
corruzione può eredare la incorruttibilità. Ecco, io vi dico un mistero: non
tutti morremo, ma tutti saremo mutati, in un momento, in un batter d’occhio, al
suon dell’ultima tromba. Perché la tromba suonerà, e i morti risusciteranno
incorruttibili, e noi saremo mutati” (1 Corinzi 15, 50-52).
Il poeta
Samuel Pordage (1633 - c.1691) credeva che gli spiriti “hanno corpi che sono
distinti da sé, ma non grevi come i nostri corpi, soggetti ai nostri sensi
esterni, ma soggetti ai nostri sensi interni” (Gibbons, op. cit., p. 98).
William Law (1686 – 1761), teologo britannico ammiratore di Boehme, era dell’idea
che “un altro tipo di visione, un altro modo di vedere le cose si aprì ad Adamo
dopo la caduta” (ibidem, p. 103). Il medico, filosofo ed alchimista polacco
Michał Sędziwój
(1566–1636) confermava che “l’ombra della natura sui nostri occhi è il corpo”
(ibid.). Anche William Blake ne era convinto: la realtà percepita è un’illusione,
“l’uomo non ha un corpo distinto dall’anima perché quello chiamato corpo è una
porzione di anima che così viene percepita dai cinque sensi, ed è l’involucro
principale dell’anima in questa era” (ibidem). Ecco come Lodovico Sinistrari
(1622 – 1701) frate francescano che fungeva anche da consultore per il
Tribunale dell’Inquisizione di Pavia, inquadrava la questione. Esistono “creature
razionali che hanno spirito e corpo”, ma con “una corporeità meno grossolana e
più sottile di quella dell’uomo”. Questi esseri, che pure sono meno speciali di
quegli spiriti che non si subordinano alla densità materiale della corporeità o
semi-corporeità, possono attraversare gli oggetti solidi ed “essendo il loro
corpo meno grossolano di quello dell’uomo, comprendendo meno elementi mescolati
insieme ed essendo perciò meno composito, non soffrono così facilmente le
influenze avverse e sono perciò meno soggetti alla malattia di quanto lo sia l’uomo:
la loro vita supererebbe la nostra” (Gibbons, op. cit., p. 103).
Ripeto,
qui non è in questione la veridicità di questa interpretazione della realtà: mi
preme solo far rilevare ai lettori quanto fosse diffusa e come, pur in tutte le
sue declinazioni, mantenesse una fisionomia riconoscibile. La ritroviamo nel
mistico tedesco Jacob Boehme che immagina (o “vede”) un Adamo originariamente
splendido, chiaro e cristallino, capace di “attraversare la terra e la pietra,
non essendo ostacolato da nulla” (Gibbons, ibid., p. 110). Facoltà che gli era
concessa in quanto, nei corpi sottili, “le facoltà sensoriali erano impiegate
assai scarsamente e quelle spirituali prevalevano, così come oggi le prime
prevalgono sulle seconde”, spiegava il filosofo ed alchimista gallese Thomas
Vaughan (1621 – 1666). A questo punto Gibbons ci reintroduce nella fitta
problematica riguardante l’androginia. Il corpo sottile è prerogativa dell’essere
che trascende le distinzioni di genere e le distinzioni in genere. La
perfezione primordiale del corpo edenico permette l’auto-ingravidazione con la
forza del pensiero, dell’immaginazione, un altro tema comune ai popoli indigeni
del Sudamerica (Sullivan), tra gli altri (cf. gli studi etnografici di Claude Lévi-Strauss
e Vittorio Lanternari).
L’obiettivo
dell’alchimista, del mistico o dello sciamano è il medesimo: il suo corpo non
deve ostruire la sua volontà – N.B: volontà della coscienza, non bramosie
fisiche – più di quanto il vetro ostruisca la luce. Non occorre odiare il corpo
ed è sommamente sbagliato commettere il suicidio come rifiuto categorico della
realtà materiale, ma è certamente indispensabile comprendere che esso
rappresenta un ostacolo e che bisogna preferire l’incorporeo al corporeo; anche
se il primo pare così sfuggente, anche se il secondo intende resistere ad ogni
tentativo di domarlo (come nell’iconografia cinese del saggio taoista che
cavalca la tigre). L’immagine impiegata è quella di una lanterna con il vetro
affumicato: l’anima fatica a rilucere all’interno del corpo, come se mancasse l’aria.
Per Blake il corpo è una catena, per Balzac l’anima è un detenuto in cella, per
Schelling l’umanità ha perso la sua centralità ed è diventata una cosa tra
tante cose: “ha voluto essere una particolarità, chiedendo per sé un essere
proprio [Seyn] e diventando perciò lo stesso che una cosa” (Gibbons, op. cit.
p. 61).
Al
contrario, la faticosa ricerca dell’alchimista si conclude con la trascendenza.
Un discepolo di Paracelso, Oswald Croll, descrive così gli “uomini santi” che
hanno avuto successo: “con la virtù del loro spirito divinizzato hanno goduto,
già in questa vita, i primi frutti della Risurrezione e hanno avuto un saggio
del Regno Celeste” (Eliade, 1991, p. 146).
Il
Labirinto e le Cattedrali
pa-si-te-o-i
me-ri
da-pu-ri-to-jo
po-ti-ni-ja-me-ri
“Un’anfora
di miele a tutti gli dei
Alla
Signora del Labirinto, un’anfora di miele”.
Iscrizione cretese
Come
successione numerica, o tramite quella sua straordinaria incarnazione
geometrica che è la spirale aurea, la Divina Proporzione si ritrova nelle
misure del corpo umano, nei cristalli di neve, nelle conchiglie, nelle corna
dell’ariete, nella disposizione di semi e foglie, nella conformazione dei
fiori, nel volo degli uccelli rapaci, nel vorticare degli uragani, nel volgersi
delle spirali delle galassie….Le falene si avvicinano al fuoco su cui s’immoleranno
seguendo una spirale logaritmica. Le straordinarie geometrie dei frattali, che
crescono all’infinito diventando sempre più complesse, si moltiplicano con un
ritmo scandito dalla successione aurea.
Sebastiano
Fusco, prefazione a “Il numero d’Oro”, di Matila C. Ghyka, p. 13
Una
leggenda indonesiana narra che la caduta dell’umanità dallo stato di grazia fu
provocata dal rifiuto di un dono divino. Il Creatore era molto generoso con le
sue creature umane, che potevano ottenere qualunque cosa, come manna dal cielo.
Tuttavia, un giorno, il Creatore offerse loro una pietra, che fu rifiutata: “che
cosa ce ne facciamo?” - protestarono gli esseri umani - “Dacci qualcosa di più
utile”. Fu così che al posto della pietra ricevettero una banana, il
corrispettivo indonesiano della famigerata mela: “poiché avete scelto la
banana, la vostra vita sarà come la sua…se aveste scelto la pietra la vostra
vita sarebbe stata come la vita della pietra, immutabile ed immortale”.
È
interessante notare che per Wolfram von Eschenbach il Graal era una pietra e l’alchimista
Arnoldo di Villanova lo chiama lapis exilis, la pietra filosofale: “Questa
esile pietra è davvero di poco costo; è disprezzata dagli sciocchi ma ben più
apprezzata dai saggi”. Da un punto di vista linguistico, la parola labirinto ha
la medesima radice di lapis, pietra o gemma, che ci riporta agli ambienti
alchemici del lapis philosophorum (James, 1977). La pietra filosofale, come la
cattedrale gotica, hanno questo in comune con la Torre di Babele: sono dei
tentativi di ristabilire la comunicazione con il divino dopo la Caduta: “la
costruzione [della Torre] costituisce un tentativo disperato dell’uomo di
riallacciare – anche contro la volontà di Dio stesso – il patto tra sé e Lui,
spezzato a causa del peccato originale. In tal senso la costruzione
affermerebbe un’aspirazione alla rigenerazione, al ripristino della condizione
primigenia di pace e di unità con Dio” (Grossato, 2000).
In
Inghilterra esiste ancora una “Torre di Babele”, che richiama alla mente il
dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio, “La grande Torre di Babele”. Si tratta di
della torre di Glastonbury, posta su una collina e circondata da un labirinto.
L’archeologo britannico Philip Rahtz (Rahtz & Watts 2003) ed il suo
compatriota, lo storico Geoffrey Ashe (Ashe, 1979), datano il labirinto di
Glastonbury ad un periodo compreso tra il secondo ed il terzo millennio avanti
Cristo, dunque precedente alla fioritura della civiltà cretese. Bisogna
immaginare una persistenza più remota, oppure un’origine nordica, come
ritenevano gli studiosi del diciannovesimo secolo.
Il
labirinto è un motivo fondamentale perché si ritrova in molte cattedrali,
associato a simbolismi pre-cristiani e ciò, naturalmente, necessita di una
spiegazione. I labirinti hanno comunque avuto vita dura e Cipriano non lascia
adito a dubbi: “Chorea est circulum cuius centrum est diabolus, qui in medio
tripudiantium ignem concupiscentiae inflammabat”. Al suo centro c’è il diavolo
che, danzando, accende gli animi di desiderio. Per quanto ne sappiamo, il più
antico labirinto pavimentale in una chiesa cristiana è del quarto secolo e si
trovava nella Basilica di Reparato, ad El Asnam, vicino ad Algeri, nella cui
cattedrale è poi stato traslato. Anticipava lo schema poi adottato a Chartres.
Nella
cattedrale di Cremona è conservato un mosaico mutilato più antico dell’edificio
attuale, che raffigura un labirinto e due combattenti, uno dei quali con una
testa animale e l’indicazione Centavrvs. Il centuro è un essere per metà umano
e per l’altra metà equino. Nella mitologia greca il centauro Chirone è un
educatore – “il molto saggio Chirone, maestro ora di musica, ora di giustizia e
di medicina” (cf. Plutarco) – e, tra i suoi discepoli, troviamo proprio Teseo,
l’uccisore del Minotauro, un essere per metà umano e per l’altra metà taurino.
Che il Minotauro non fosse un mostro sanguinario lo si intuisce anche da un
manoscritto del nono secolo proveniente dall’abbazia di St.-Germain-des-Prés,
che reca l’immagine di un labirinto con al centro il Minotauro assiso su un
trono (Matthews, 1922): una figura regale, non certo un serial killer. Su una
moneta di Cnosso il Minotauro è un uomo che indossa una maschera di toro
(Matthews, 1922); presumibilmente, si tratta di un maestro di iniziazioni in
attesa dell’adepto.
Lo
sospettava anche il poeta irlandese Yeats, che associava il Minotauro alla
Sfinge, un altro essere in parte umano ed in parte ferino. L’enigma della
sfinge ci rinvia al labirinto cretese ma anche al castello del Graal. La Sfinge
divora chi non risponde correttamente ad un suo quesito. Il Minotauro “divora”
chi si perde nel labirinto. Il cavaliere deve porre il corretto quesito
altrimenti il castello scomparirà e la gente morirà per la carestia. Il
Minotauro è stato demonizzato dai posteri, ma il toro bianco non poteva essere
un simbolo negativo. La madre di Minosse era stata fecondata da Zeus in forma
di toro e Minosse aveva pregato Poseidone di inviargli un toro dal mare per
indicare che la sua sovranità su Creta era legittima. Inoltre nella cultura
egizia la sfinge era una figura positiva.
Storicamente,
è ipotizzabile che i labirinti decorassero almeno 60 santuari italiani. Oggi,
tra quelli più importanti, sono rimasti solo Ravenna, Lucca, Pontremoli, Pavia.
Il labirinto della basilica di San Michele Maggiore – prego il lettore di
notare che San Michele è un uccisore di draghi e che nelle isole britanniche i
labirinti sono spesso associati a chiese consacrate a San Michele o a Maria
(Eva che schiaccia la testa del serpente con il piede) – è in gran parte
scomparso, ma un disegno nella biblioteca vaticana lo riproduce integralmente:
aveva un’estensione di tre metri e mezzo di estensione ed illustrava la storia
di Teseo e del Minotauro. Teseo impugnava una clava “erculea” ed il Minotauro
brandiva una spada, mostrando la testa decapitata della sua ultima vittima. A
fianco, una scritta in latino Theseus intravit, monstrumque biforme necavit (“Teseo
entrò ed uccise il mostro biforme”). Il labirinto era circondato ai quattro
angoli da un’oca, da Pegaso (cavallo alato), da un drago e da una capra. Ai
lati Davide uccideva Golia, il cui scudo recava l’iscrizione sum ferus et
fortis cupiens dare vulnera mortis (“sono selvaggio e forte e desidero
infliggere ferite mortali”. La replica di Davide, anche lui armato con la
medesima clava, era: sternitur elatus stat mitis ad alta levatus (“i forti
saranno umiliati, i miti saranno esaltati”). Infine, sull’altro lato, l’immagine
del pesce, simbolo di Cristo, il re pescatore che pesca se stesso. Sulla sommità,
una figura regale a rappresentare l’Anno, fiancheggiato da aprile e maggio, ad
indicare i riti agrari. Il labirinto era spesso associato a calendari e carte
zodiacali (Wright, 2004).
A
Pontremoli al posto di Teseo e del Minotauro ci sono le lettere JHS (Gesù). A
Lucca riappaiono Teseo e il Minotauro (ormai cancellati). A San Vitale a
Ravenna, l’unico labirinto diverso da quello di Chartres, veniamo invitati a
cercare la salvezza ad ovest, verso il tramonto e non ad est (l’alba è legata
ad Orione, l’arciere assassino, ed all’occultismo nero). I labirinti italiani
sono troppo piccoli per essere percorsi cerimonialmente: occorreva usare lo
sguardo o le dita per compiere il percorso di salvezza. È invece indubbiamente
la Francia delle cattedrali gotiche la patria dei labirinti cristiani, a volte
chiamati La Maison Daedalus, oppure Chemin de Jérusalem, daedale, o meandre. Il
centro si chiamava ciel o Jérusalem. Tra gli altri nomi: “Labirinto di Salomone”
o “Prigione di Salomone” (Wright, 2004). Salomone, come Chirone, incarna la
saggezza. La cattedrale della cittadina francese di Saint-Omer, vicino a Calais
non è arricchita da un labirinto pavimentale, ma una lastra nascosta dall’organo
reca incisa la parola IhERVSALEM e ritrae un paesaggio idillico attorno ad un
ampio circolo diviso in tre settori ormai cancellati (Matthews, 1922).
Altri
labirinti si trovavano in Germania, a Colonia, e in Inghilterra, a Canterbury,
ma non ve n’è più traccia, né sono descritti nei loro particolari. Quei testi
ecclesiastici che descrivono questi labirinti omettono di menzionare la loro
funzione, che pure doveva essere centrale, almeno in origine. Ciò non
sorprende, data la loro natura esplicitamente pre-cristiana. D’altronde le
iscrizioni paleocristiane non mostrano alcun interesse nei confronti dei
labirinti. Un’ulteriore indicazione del fatto che questa “moda” è di origine
celtica, non mediterranea. Nonostante sia ormai chiaro che nelle isole
britanniche non esistono labirinti nelle cattedrali, vi abbondano quelli
rurali, dedali ritagliati nel tappeto erboso (turf mazes), che spesso
rassomigliano a quello di Chartres.
Sono
convinto che gli antichi labirinti di pietra siano i modelli dei labirinti
gotici.
Innanzitutto,
l’etimologia di “labirinto”, che proverrebbe da labrys, l'ascia bipenne
attributo dello Zeus cretese, è molto probabilmente errata. Su basi
lessicografiche il termine andrebbe invece ricondotto a labra o laura, ad
indicare una grotta, una caverna, una casa di pietra o una casa nella pietra
(Ieranò, 2007). Santarcangeli (2005) ritiene che la desinenza greca –inda, che
si usa solamente per i giochi dei bambini, dovrebbe far propendere per una traduzione
del termine “labirinto” come “gioco della caverna”. Rimaniamo comunque nell’ambito
dell’ipogeo sacro, della caverna di Platone, insomma, un tempio sotterraneo
dedicato ad una dea ctonia, trasfigurata poi in Persefone, la dea degli Inferi.
E Minosse non è forse il giudice degli Inferi? Karoly Kerényi osserva che la
Signora del Labirinto, a Creta, è la regina degli Inferi e che “il labirinto è
il mundus, ovvero il mondo nell’accezione cristiano-medievale, concepito come
una specie di regno infero” (Kerényi, 1983, p. 51). Il nome Arianna – la
Signora del Labirinto, appunto – si compone del prefisso intensivo ari unito
all’aggettivo hagne, con il significato di “intangibile”, “nel senso di un’intangibilità
propria di chi è sottratto all’umano, alla sua buona come alla sua cattiva
natura…la sua purezza è da intendersi come segno che contraddistingue ciò che è
sovrannaturale” e Persefone corrisponde più di ogni altra dea a questo profilo
(Ieranò, 2007).
Eliade ci
ricorda che le Grandi Dee sono talvolta raffigurate con un fuso in mano: “Esse
filano il filo della vita” (Eliade, 1989). Come Arianna, come Penelope che
attende il suo compagno, di ritorno da una labirintica odissea, ma soprattutto
come le Moire: “Altre tre donne sedevano in cerchio a uguale distanza, ciascuna
sul proprio trono: erano le Moire figlie di Ananke, Lachesi, Cloto e Atropo,
vestite di bianco e col capo cinto di bende; sull'armonia delle Sirene Lachesi
cantava il passato, Cloto il presente, Atropo il futuro” (La Repubblica di
Platone: X,135,34). Ananke, è bene sottolinearlo, ricopriva un ruolo centrale
nei riti misterici dell’orfismo e il filo “indica sempre un collegamento dei
vari stati di esistenza tra di loro e con il principio che li anima”
(Santarcangeli, 2005, p. 11).
Un altro
archetipo estremamente potente, insomma. Tant’è vero che in Francia, fino al
secolo scorso, era stata documentata l’esistenza di un gioco chiamato
Labyrinthe in cui i bambini si tengono per mano formando una catena e due
corridori, chiamati rispettivamente le tisserand (il tessitore – Teseo?) e la
navette (la spoletta – Arianna?), devono intrecciarli come in un ordito
(Matthews, 1922).
Nel suo
bel saggio Giorgio Ieranò, storico dell’università di Trento, aggiunge un’annotazione
importante: “Non sarà un caso, forse, che la stessa Persefone sia stata, come
Arianna, vittima di un ratto da parte di Teseo: un ratto in questo caso
mancato, poiché il Signore dei morti intervenne per salvare la sua sposa,
trasformando l’eroe ateniese in una statua di marmo” (Ieranò, op. cit. p. 42).
Emerge qui un importante parallelo con la vicenda di Perseo e della Gorgone: “al
centro [del labirinto] domina, in fattezze non umane, la dea primordiale dal
volto di Gorgone” (Kerényi, 1983, p. 125). D’altra parte la radice perse-
appartiene alla sfera semantica dell’oltretomba (Ieranò, op. cit.) e, nelle
Dionisiache, Nonno di Panopoli attribuisce a Perseo la morte di Arianna.
Santarcangeli (op. cit.) ci porta a Malta, nel complesso sotterraneo su più
piani di Hal Saflieni, dove nei pressi dell’ipogeo era collocato un tempio
megalitico oracolare dedicato alla Dea Madre. Poi cita Emmanuel Anati, il
massimo esperto italiano di incisioni rupestri della Val Camonica: “questi
labirinti sono talvolta identificabili in figure di mostri…La leggenda del
Minotauro trova senza dubbio là le sue origini. Non di rado essi hanno l’aspetto
di un ovario femminile, con un’uscita e dei meandri che conducono verso un
volto schematico di mostro, al centro. Stranamente, nell’arte megalitica questo
simbolo della fecondità sembra essere associato al culto dei morti”
(Santarcangeli, ibidem, p. 90:
Ritornando
all’etimologia del nome: “è più probabile che la parola derivi dall’asianico
labra/laura, “pietra”, “grotta”. Il labirinto designava quindi una cavità
sotterranea ricavata dall’uomo” (Eliade, 1990, p. 149). Labirion è anche un
cunicolo, ad esempio quello delle talpe – si pensi ai meandri del labirinto. Il
Laurion è da sempre un’area mineraria greca e Paolo Santarcangeli (2005)
segnala che a Creta e nell’Asia Minore vi era un culto dedicato a Zeus
Labrandos, o Labraundos, ricollegabile a toû lábrous, la caverna consacrata
alla dea ctonia. Questi era uno Zeus androgino, con sei mammelle disposte
triangolo. Il che non esclude naturalmente l’associazione labirinto-ascia bipenne.
L’antropologo francese Gilbert Durand (1960) ha rimarcato la relazione tra l’ascia
bipenne (labrys) e la già citata androginia (l’unione di una doppia sessualità).
Il
linguista e mitologo tedesco Hermann Güntert (1932) ricollocò la culla di
questo tema nell’area celtica e questa mi pare una direzione di ricerca
particolarmente fruttuosa, sulla scia del connazionale Ernst Krause (“Die
Trojaburgen Nordeuropas”, 1893) che aveva stabilito una correlazione tra il
nome Troia e l’antico Tedesco drajan, il gotico thraian, il celtico troian, il
medioinglese trowen, tutti con il significato di “girare, aggirare, ingannare”.
William Henry Matthews, che cominciò ad interessarsi di labirinti dopo aver
servito nell’esercito inglese sul fronte occidentale nella Grande Guerra
(vicino ad Arras, Amiens, Abbeville, Albert e Saint Omer), aveva individuato
nel gallese tro (giro, variazione, tempo), una possibile radice comune,
riscontrabile nel tedesco drehen (girare, voltare). Aveva documentato anche un’altissima
frequenza nell’associazione del labirinto con il nome “Troia” nelle isole
britanniche (Troy, droia), in Scandinavia (Troja, Trö, Tarha) ed in Etruria
(Truia). Riteneva probabile che la città avesse preso il nome dal cerimoniale e
non vice versa e che la radice del nome “troia” originariamente indicasse l’atto
di svoltare o volgersi, come in Caerdroia, la Città di Troia, che in gaelico
presumibilmente si pronunciava Caer y troiau, la Città Tortuosa (Matthews,
1922). Lo stesso autore riferisce che nella mitologia slavonica un mostro a tre
teste si chiama Trojano, in Iran il mostro si chiama Druja, o Draogha ed in
India Druho. In Serbia ci sono danze popolari che si chiamano Trojanka e
Trojanac. L’Alcazar di Siviglia contiene un Jardin de Troy.
A questo
proposito, Santarcangeli precisa che l’ipotesi di una diffusione da nord “non
può essere respinta con sicurezza, allo stato attuale delle conoscenze…Anche di
recente, uno studioso quale Kerényi non si sentiva di escludere senz’altro
questa ipotesi” (op. cit., p. 93). Va detto, per inciso, che molti studiosi,
tra i quali Strabone, il celebre letterato inglese Robert Graves e l’eminente
storico Sir Moses I. Finley (emerito a Cambridge e membro dell’Accademia
Britannica), si sono domandati come mai l’Iliade e l’Odissea siano ambientate
nel Mediterraneo se il clima descritto è freddo, piovoso e nevoso, il colore
dell’acqua del mare è grigio, il mare stesso è impetuoso e di ardua
navigazione, le maree sono di tipo oceanico e si ammirano aurore boreali. È
dunque possibile che la cultura micenea, e prima ancora quella minoica, abbiano
ricevuto apporti sia dalla Mesopotamia e dall’Egitto, sia dal Nord Europa, per
poi fonderli e rielaborarli sincreticamente. Per questa ragione la tauromachia
della Galizia celtibera può essere utilmente raffrontata con quella cretese e i
labirinti più arcaici dell’area euro-mediterranea si trovano sulle coste
europee atlantiche, specialmente in Spagna. Alcuni risalgono al tardo
neolitico, ossia sono più antichi delle grandi civiltà dell’Egitto e della
Sumeria (Saward, 2003). Quelli cretesi sono invece databili al tredicesimo
secolo avanti Cristo, l’epoca in cui si colloca tradizionalmente la Guerra di
Troia.
Il
sospetto di un’origine nord-europea è, a mio avviso, rafforzato dal nome della
danza che si eseguiva nel labirinto, attorno ad un altare di corna di toro: la
Danza della Gru, o geranos (ingl. crane, ted. Kranich). È possibile, come
vedremo, che la stessa danza sacra fosse in voga anche nell’Europa celtica
(inclusa la Val Camonica) dove è possibile ipotizzare che al posto delle corna
di toro si impiegassero corna di cervo. Kernunnus o Cernonos è il dio cornuto
associato agli animali (specialmente cervi e tori) , all’abbondanza, ad Apollo
(tra i Gallo-Romani) e nume tutelare dei mercanti marittimi. Si conosce il suo
nome perché fu trovato sul “Pilastro dei barcaioli” (Pilier des nautes), nelle
fondamenta di Notre Dame a Paris. Nelle raffigurazioni, spesso possiede una
testa animale su un corpo umano, come il Minotauro o i centauri e nelle terre
celtiche si verificò una sovrapposizione sincretica tra questo dio pagano e Gesù
(Jung & von Franz 2002). Peraltro Keraunos è uno degli appellativi di
Zeus, un termine, inusuale, con cui si designava il suo fulmine (James, 1977).
Labirinto
e Gioco dell’Oca
Nella
preistoria la caverna, molte volte assimilata a un labirinto o trasformata
ritualmente in un labirinto, era contemporaneamente il teatro delle iniziazioni
e il luogo in cui si seppellivano i morti. A sua volta il labirinto era
equiparato al corpo della Terra Madre. Penetrare in un labirinto - o in una
caverna - equivaleva ad un ritorno mistico alla Madre.
Mircea
Eliade
L’ultima
conoscenza è quella del sé…rispecchiato nella propria coscienza. Ecco la
profonda motivazione del perché in fondo al labirinto sia collocato di
frequente uno specchio.
Paolo
Santarcangeli
Il
labirinto originario, può essere quadrato o ellittico, ma è sempre unicursale
ossia si compone di un unico itinerario che, per quanto intricato, è destinato
a raggiungere il centro. Fino alla moda dei giardini rinascimentali tutti i
labirinti avevano un percorso predeterminato, senza biforcazioni e false
uscite: dovevano consentire a chi li percorreva di arrivare all’uscita senza
perdersi. Nessuna possibilità di errore, per almeno 3000 anni. Ciò rafforza l’idea
di un loro significato liturgico ed esclude l’ipotesi che servissero la mera
funzione di esercizio intellettuale, come avvenne quando se ne smarrì il
significato, all’alba della modernità. Era una questione di perseveranza, non
di scelta: un’unica uscita, un unico ingresso e ci si muove inesorabilmente
verso il centro.
Nei Paesi
Baltici ed in Scandinavia sopravvivono racconti che descrivono alcuni aspetti
del cerimoniale legato al labirinto. In certe occasioni una ragazza recitava la
parte della Dea Madre ponendosi al centro del labirinto, un punto che designava
l’Aldilà. Uno o due uomini recitavano invece la parte del Dio Celeste che
liberava o rapiva la Dea Madre dalla prigionia del Castello dell’Ade. Una volta
liberata la dea si univa in matrimonio al dio a suggellare il trionfo sul tempo
e sulla morte. Echi di Orfeo ed Euridice (Kraft, 1985).
Il motivo
centrale dell’odissea labirintica – dal neolitico a Chartres – è quello della
vittoria sulla morte, ossia sulla falsa vita, la vita aggrappata alla
materialità e indifferente alla spiritualità. Il labirinto è un diagramma non
solo della struttura dell’universo, ma anche del viaggio dell’anima nella sfera
materiale. Il percorso verso il centro è quello discendente, il ritorno verso l’esterno
è ascendente. Chi non sconfigge il Minotauro-Satana-Doppelgänger perderà la sua
anima e non potrà più risalire verso la sfera spirituale e divina. Gesù e la
Madonna servono ad assistere l’anima nelle fasi più cupe (Critchlow, Carroll,
Vaughan Lee, 1975). Non è una coincidenza che i commentatori medievali di
Ovidio abbiano stabilito un parallelo tra Teseo e il Cristo. Teseo era un
guerriero, come tutti gli eroi dei labirinti, ma lo fu, nonviolentemente, anche
Gesù.
Un
commento molto illuminante di Pietro Maria Campi – ne “dell’historia
ecclesiastica di Piacenza” (1651) – sul labirinto di San Savino, anch’esso
simile a quello di Chartres, ci aiuta a capire la funzione del labirinto nell’ambito
ecclesiastico: “il labirinto illustra il mondo attuale, ampio all’entrare e
molto stretto all’uscire. Così, irretiti da questo mondo, oberati dal peccato,
si ritorna alla dottrina della vita con difficoltà”. La dottrina della vera
vita, a cui abbiamo già accennato. Il labirinto è la vita terrena, all’insegna
del dominio di Satana. Questi, come Mara, il tentatore di Gautama Siddharta, è
forse un simbolo archetipico, ma resta il fatto che si proclama signore di
questo mondo. Gesù non lo contraddice, non lo smentisce. Anzi, resiste fattivamente
alle tentazioni del Signore del Mondo: non le considera illusorie o ludiche. Il
potere corrompe e sono solo la nostra presunzione ed il nostro egocentrismo che
ci fanno credere che la cosa riguarda qualcun altro, non noi. Gesù permette di
uscire dal labirinto come, in precedenza, la vittoria sul Minotauro, simbolo
dell’entropia, della tendenza discendente nella creazione, dallo spirito alla
materia grezza, garantiva la salvezza, l’elezione.
Giorgio
Ieranò parla del labirinto come itinerario iniziatico, “rito di passaggio dal
profano al sacro, dall’effimero e illusorio alla realtà ed all’eternità” (2007,
p. 28). Ego è il Minotauro da abbattere, l’essere metà animale (carnale) e metà
umano (spirituale), ossia non ancora pienamente umano. Per questo la più antica
raffigurazione di un labirinto ecclesiale, contenuta in un manoscritto per il
calcolo calendariale della Pasqua, datato 1072 e redatto in Italia, reca l’iscrizione
Quattuor haec sunt bona: spernere mundum/ nullum / sese/ sperin. “Quattro sono
le opere perfette: disprezzare il mondo, non disprezzare nessuno, disprezzare
se stessi ed essere disprezzati” (Morrison, 2003).
Paolo
Santarcangeli ha ravvisato un nesso tra il labirinto ed il gioco dell’oca –
forse originariamente una gru psicopompa, guidatrice delle anime nell’aldilà? –,
che è un labirinto univiario. La sua casella 42 è quella del labirinto.
Fulcanelli, come sempre, si spingeva anche più oltre. Secondo lui il Gioco
dell'Oca è “un labirinto popolare dell’Arte sacra e una raccolta dei principali
geroglifici della Grande Opera” (Fulcanelli, 1973: p. 109). Il 42, spiega
Santarcangeli, è “il sette di bastoni, su cui è raffigurato un viandante sull’orlo
di un abisso! Volge indietro lo sguardo, perché è atterrito. Di fronte a lui,
ma separato dall’abisso, c’è un castello…La carta ammonisce anche di non cedere
alle esitazioni e agli indugi” (op. cit. p. 267). La progressione verso il
centro del labirinto, oltre i sette giri di mura della città-fortezza, è
graduale ed è variamente rappresentato “come il punto interno di un giardino
recintato; allora è spesso un albero, l’albero della vita; oppure una sorgente
che scorre verso le quattro direzioni. […]. Questa entità, questo centro può
anche essere raffigurato come una torre, un castello, una città celeste, il
castello del Graal” (op. cit. p. 146). Vale la pena di considerare che, nel
diciottesimo secolo, i fedeli paragonavano il labirinto della cattedrale di
Chartres ad un gioco dell’oca (Jeu de l’oie) (Wright, 2004, p. 221).
I
riferimenti araldici a labirinti da affrontare con fede, speranza ed umiltà,
rafforzano l’ipotesi che il labirinto raffigurasse il percorso esistenziale di
ciascuno, ostacolato da brame, desideri, tentazioni continue e facilitato solo
dall’esile filo di Arianna, ossia dalla fede in un disegno sovrumano che dà un
senso alla creazione (Matthews, 1922). Diversi miti indicano la necessità che l’eroe
si sottoponga ad un periodo di meditazione e resistenza alle tentazioni, come
Gesù nel deserto.
Pensiamo a
Giona, inghiottito da un grande pesce, nel cui stomaco rimane per tre giorni e
tre notti. A Gesù: “Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e
tre notti, così starà il Figliuolo dell’uomo nel cuor della terra tre giorni e
tre notti” (Matteo, 12: 40). A Pinocchio, che deve restare nel pescecane fino
al momento della rinascita come bambino vero. A Cappuccetto Rosso nella pancia
del lupo. A Perseo, aiutato da Andromaca – come Arianna aiutò Teseo ad uccidere
il Minotauro e Medea aiutò Giasone, l’ennesimo discepolo di Chirone, a rubare
il vello d’oro sorvegliato da un drago insonne – ad uccidere il mostro marino
Ceto, dopo esserne stato inghiottito. A Ercole, che si getta nelle fauci del
mostro marino per salvare la principessa incatenata sulla spiaggia come offerta
sacrificale. Resta tre giorni nel ventre del mostro, poi esce vittorioso
avendolo abbattuto. Un dettaglio ci aiuta a capire la natura dell’impresa: ora è
calvo, come per tonsura rituale. L’eroe polinesiano Mutuk, ingoiato da un
pescecane, si salva perché questi si arena per la bassa marea, allora Mutuk “prese
una conchiglia che aveva dietro l’orecchio e con quella scavò nel corpo dello
squalo, fino ad aprirsi un buco abbastanza largo. Quando fu scivolato fuori dal
quella strana prigione, si avvide che non aveva più un solo capello” (Egli,
1993, p. 247). Una leggenda dei nativi dell’Isola di Vancouver l’eroe finisce
nella pancia di una balena con i suoi tre fratelli: “come raggiunsero lo
stomaco, tagliarono con alcune conchiglie le interiora del cetaceo, e per ultimo
staccarono anche il cuore. Allora la balena morì. Presto fu portata a riva. Gli
uccellini e gli altri animali vennero sulla spiaggia ed aprirono la balena,
dalla quale uscirono l’eroe ed i suoi fratelli. Quando si videro, si misero a
ridere: dentro la pancia uno dei fratelli aveva perso tutti i capelli, tanto
era il caldo che faceva là dentro” (ibidem, p. 248).
Vorrei
proporre ai lettori la lettura junghiana di questo motivo archetipico: “Allorché
Giona fu ingoiato dalla balena, non si trovò semplicemente imprigionato nel
ventre del mostro, ma vide straordinari misteri. Questa opinione deriva dal
Rabbi Eliezer, ove è detto: Giona penetrò nella sua bocca come un uomo penetra
in una grande sinagoga e si arresta. I due occhi del pesce erano come lucernari
che davano luce a Giona. Rabbi Meir disse: una perla era sospesa nelle viscere
del pesce dando luce a Giona come il sole a mezzogiorno, consentendogli di
vedere tutto quello che c’era nel mare e negli abissi. Nelle tenebre dell’inconscio
è nascosto un tesoro, quello stesso tesoro difficile da raggiungere che nel
nostro testo, come anche in molti altri luoghi, viene descritto come perla
luminosa, oppure come mistero” (Jung, 1993, p. 324).
L’aggancio
con lo sciamanismo (e l’orfismo, cf. Eliade, 1992; Graf, 1995) è inevitabile.
Gli sciamani siberiani rimangono rinchiusi nelle yurte per tre giorni, senza né
mangiare, né bere e deve visitare gli inferi. In un mito degli albori, il primo
sciamano, guidato dai suoi animali totemici, deve penetrare in una caverna rivestita
di specchi, con una luce al centro e due donne che lo attendono per istruirlo: “le
caverne hanno una parte importante anche nell’iniziazione degli sciamani
nord-americani; è in luoghi siffatti che gli aspiranti hanno i loro sogni e
incontrano i loro spiriti ausiliari (Eliade 1992, pp. 72-73). È stato detto,
persuasivamente, che trance sciamaniche ispiravano le pitture rupestri dei
Cro-Magnon (Lewis-Williams, 2002). In Grecia le esperienze di soggiorno nelle
grotte erano associate a condizioni estatiche-mistiche. La Caverna di Platone è
il mondo dell’apparenza: chi si libera dalle catene e vede la realtà com’è sarà
deriso da chi è ancora prigioniero dell’ignoranza e vede solo ombre proiettate
sulle pareti della caverna, scambiandole per la realtà. Ma in Grecia le caverne
erano soprattutto luoghi di illuminazione in cui si poteva ottenere una
conoscenza sovrumana, luoghi di unioni sacre, come quelle tra Peleo e Teti, tra
Giasone e Medea, tra Enea e Didone. Rea diede alla luce Zeus e lo nascose in
una caverna. Persino Apollo, il dio ontologicamente più distante dall’oscurità
e dal sottosuolo aveva un oracolo in una grotta (Ustinova, 2009).
I Greci,
da Pitagora a Socrate ed oltre, erano convinti che il corpo fosse un intralcio
sulla strada della vera conoscenza, ossia della sapienza. Nel Fedone Platone
riporta il dialogo tra Socrate e Simmia, di cui questo è un estratto
esemplificativo: “Intendo dire questo: il senso della vista e dell’udito, ad
esempio, danno a noi certezza assoluta, oppure hanno ragione i poeti quando
continuamente ci dicono che noi non udiamo, né vediamo nulla di preciso? E se
questi sensi non sono né sicuri, né precisi, che cosa dovremmo dire degli altri
ancora più manchevoli di questi? Non ti pare?
–
Certamente – disse.
– Quando,
dunque – continuò Socrate – l’anima riesce ad attingere il vero? Perché se essa
si accinge a ricercare la verità con l’aiuto del corpo, è evidente che sarà da
questo tratta in inganno.
– Proprio
così.
– Non è
forse nella paura attività di ragione che si rende a lei manifesta la verità?
–
Certamente.
– E questa
attività non si esplica ancor meglio quando l’anima non è conturbata da nessuna
di tali sensazioni, né dalla vista, né dall’udito, né dal dolore, né dal
piacere, ma tutta in sé raccolta, abbandonando completamente il corpo, senza più
alcuna comunanza né contatto con esso, tende solamente alla verità?
– Dici
proprio bene.
– Non è
questa, allora, la ragione per la quale l’anima del filosofo disprezza
profondamente il corpo e rifugge da esso e aspira a rimanere sola, tutta in sé
raccolta?
–
Certamente”.
Per questa
stessa ragione, come argomenta brillantemente Julia Ustinova (2009),
raggiungere degli stati alterati di coscienza per deprivazione sensoriale o
inalando esalazioni gassose sotterranee – entrambe tecniche che richiedevano la
permanenza in una caverna – era un’operazione che incontrava l’approvazione, o
addirittura l’ammirazione, della società greca del tempo. La storica israeliana
accenna a sperimentazioni contemporanee effettuate in stanze completamente isolate
in cui i soggetti fanno esperienza di allucinazioni entro poche ore. Si
capisce, dunque, come mai la tradizione greca ci tramandi di ricorrenti visite
di Pitagora a grotte ed ipogei e del bisogno di un giovane Socrate guerriero di
restare isolato dai suoi commilitoni in certi momenti del giorno. La Scuola
eleatica aveva la propria camera sotterranea dedicata alle meditazioni e
Parmenide ha narrato la sua esperienza mistica di un volo sciamanico nell’Ade
fino ad incontrare la Dea, che gli ha mostrato la verità. Quale verità?
Parmenide, in un curioso parallelo con il buddhismo, allude alla necessità di
non fidarsi delle percezioni sensoriali e di capire che il mondo delle
apparenze è illusorio: la realtà è unitaria ed infinita (Ustinova, op. cit.).
Ustinova precisa che questa è precisamente l’esperienza della realtà che si
ricava da una stanza a deprivazione sensoriale in condizioni sperimentali.
La Danza
della Gru e le Cattedrali
Se l’immagine
del labirinto ha una storia millenaria questo significa che per migliaia di
anni l’uomo è stato affascinato da qualcosa che in qualche modo gli parla della
condizione umana o cosmica.
Umberto
Eco
Chi
attraversa il labirinto, deve passare per gli intrichi e gli inganni
dell'oscurità per vincere la morte: così come gli Ebrei fecero per 'sette'
giorni il giro delle mura di Gerico, così come gli Achei assediarono Troia per
'sette' anni. I rigiri delle viscere e le linee tracciate sul fegato sono uno
specchio microcosmico del corso delle costellazioni celesti. Tale corso cosmico
fu riprodotto nella 'danza', trasponendo nella categoria del tempo la
rappresentazione spaziale. Giace nelle profondità la rappresentazione misterica
dei grande alvo materno e del labirinto in cui dovrà vagare l'uomo esposto
all'impegno della vita.
Paolo
Santarcangeli
Secondo
Kerényi ogni ricerca sui labirinti dovrebbe prendere le mosse dalla danza.
Cerchiamo
di capire perché.
Quello del
labirinto è un archetipo universale. La medesima raffigurazione appare in tutto
il mondo: Brasile, Arizona, Islanda, Creta, Egitto, India e Indonesia. In
queste aree i labirinti sono spesso aree cerimoniali dedicate alle danze sacre
ed altri rituali (Saward, 2003). I labirinti erano usati per un gioco con la
palla e la danza tra gli indiani Hohokam vicino a Phoenix, in Arizona e ad
Auxerre, nella cattedrale. Una Danza della Gru veniva tradizionalmente eseguita
anche a Slupsk, in Polonia, in un labirinto gigantesco fatto di zolle d’erba
(Saward, ibidem). Spirali rassomiglianti alle circonvoluzioni cerebrali si
rinvengono dalla Val Camonica alle Nuove Ebridi a nord-est dell’Australia
(Wright, 2004).
Rainer Tom
Zuidema riferisce ciò che vide Juan Diez de Betanzos, forse il migliore
cronista spagnolo in Perù al tempo della conquista. Durante la prima notte di
luna piena successiva al solstizio invernale, gli inca eseguivano una cerimonia
propiziatoria, chiamata Purucaya: “dapprima uscirono tutti i nobili, donne e
uomini, col volto annerito e andarono sulle montagne vicino a Cuzco, dove lui
(Pachacuti Inca) aveva seminato e raccolto. Là e per le strade della città essi
lo chiamarono e gli chiesero, ora che stava col padre suo, il Sole, di mandar
loro buoni raccolti e di tener lontane le malattie. Quindi si presentarono
sulla piazza quattro uomini mascherati, due su un lato e due sull’altro,
avevano ricchi addobbi di penne d’uccello e ognuno era tenuto con una lunga
fune da dieci donne, con le quali stava una fanciulla con un sacchetto di
foglie di coca e un fanciullo che trascinava un ayllu, “boleadoras” (fionda).
Ogni gruppo di donne sembra rappresentasse il “volere del (defunto) signore”
che esse potevano liberare o trattenere con la fune. Dopo questa azione,
comparivano sulla piazza due drappelli di soldati che si davano battaglia e la
metà superiore vince la metà inferiore, proprio come Pachacuti aveva sempre
vinto in guerra, poi due squadre di donne, vestite da uomini con corone di
penne, scudi e alabarde, facevano il giro della piazza danzando. “con queste
loro cerimonie il loro signore andava in cielo”.
Guamam
Poma de Ayala, il più grande cronista indigeno, in quella stessa epoca la
descriveva come segue: “danzavano uniti da una lunga fune per tutte le strade
ed all’alba, formando una spirale, si avvicinavano al re seduto sul trono nella
piazza”. Infatti, sempre secondo lui, il sole “siede sul suo trono un giorno e
regna da quel grado principale [del solstizio di dicembre]. Poi siede in un
altro trono in cui si ferma a regnare da quel grado [dell’altro solstizio]”. Da
un seggio all’altro “si sposta ogni giorno senza mai fermarsi” (Aveni, 1993, p.
338).
I Luiseño
californiani costituiscono un ottimo termine di paragone. Credevano che la
Stella Polare fosse il capo supremo delle stelle che, come un popolo
obbediente, le ruotavano attorno: “infatti durante le cerimonie sacre, i
celebranti danzavano attorno al fuoco seguendo lo stesso senso del movimento
circolare che le stelle fanno attorno al polo celeste” (Romano, 1998, p. 97).
Questo
costume e la credenza che lo ha generato, trova la sua corrispondente espressione
euro-asiatica nella “Danza delle Gru”. A Delos questa danza, chiamata geranos:
i danzatori impugnavano una corda e cominciavano a ballare attorno ad un altare
costruito con corna sinistre di toro o giovenca, girando a sinistra – nella
direzione della morte – per andare all’origine della vita. Il corego si
chiamava geranoulkos, ossia “colui che tira le gru” e, in quanto morente, era
zoppo. Ne fanno menzione Plutarco (“Vita di Teseo”), Virgilio (“Eneide”, Libro
V), Ovidio (“Metamorfosi”), Cicerone (“Sulla natura degli dèi”), Plinio il
Vecchio (“La Storia Naturale”) e Callimaco (“Inno a Delo”). Omero, nell’Iliade
(libro XVIII), descrive il labirinto per la danza che Dedalo approntò per
Arianna ed il cui impiego fu insegnato da quest’ultima a Teseo. È raffigurato
sullo scudo di Achille. Arianna ed altri giovani si tengono per mano,
alternandosi tra maschi e femmine, formando una catena ed il disegno di un
labirinto. Il capofila conduce la catena verso il centro e poi esce nella
direzione opposta. Le ragazze indossano ghirlande, i ragazzi impugnano delle
daghe.
Perché le
daghe? “La danza armata dei Cureti costituiva probabilmente una cerimonia
iniziativa…alcune caverne servivano alle confraternite per i loro riti segreti…Il
labirinto riprende ed amplia tale funzione: penetrare in una caverna o in un
labirinto equivaleva ad una discesa agli Inferi, dunque ad una morte iniziativa
rituale” (Eliade, 1990, p. 148). I Cureti non possono non far pensare ai Salii
romani ed ai loro riti metallurgici e della fecondità, ma ancora più
sbalorditiva è la somiglianza con i Marut indiani e la loro Danza delle Spade.
Nelle isole Shetland esiste (-eva) ancora un residuo di questo motivo rituale:
lì la Danza della Spada (Papa Stour, dall’antico norvegese Pâpey in Stôra si
eseguiva a Natale, con sette danzatori, il cui leader era l’ennesimo
draghicida, San Giorgio. Ormai molti anni addietro fu avanzata la suggestiva
ipotesi che questi giovani danzatori armati, spesso sacerdoti-guerrieri, siano
stati il modello per l’epopea dei Cavalieri del Graal (Weston, 1920). È
possibile, se teniamo conto del fatto che nell’Eneide, Virgilio racconta che il
figlio di Enea, dopo la fuga da Troia in fiamme, gioca con i suoi amici al
Ludus Troiae (o Lusus Troiae), il Gioco di Troia, una processione a cavallo i
cui movimenti ricordano a Virgilio il labirinto cretese.
Granet
(1959) attesta la presenza della Danza della Gru in Cina, Gasparini (1973) la
riscontra nei paesi slavi, mentre Lévi-Strauss rileva che miti e riti legati
alla figura del danzatore zoppo che ordina il cosmo con l’aiuto di balli
circolari e/o spiraliformi esiste in Cina, nello Utah e tra i Bororo e confessa
di non saper spiegare questa corrispondenza con il suo metodo strutturalista (Lévi-Strauss,
1966).
Ulteriori
tracce individuate in Vietnam: “La decorazione dei tamburi e delle asce
costituisce un documento unico sulla vita e sui costumi degli uomini che
popolavano il paese negli ultimi secoli prima dell’era cristiana...Intorno al
sole dai molteplici raggi che occupa il centro piano di un tamburo, si snoda,
fra greggi di cervi e voli di uccelli acquatici, una precessione di personaggi
vestiti in modo originale e bizzarro. Tengono in mano nacchere che ritmano i
movimenti della loro danza. Sono accompagnati da suonatori di khem e di
tamburi...Al di sotto del piatto, su un rigonfiamento circolare del tamburo,
sono raffigurate barche con guerrieri armati di asce, di frecce e di
giavellotti. Indossano tutti la spoglia di un airone o di una gru che dà loro l’apparenza
di uomini - uccelli...” (Le Thàhn Khoi, 1979, pp. 62-63). Probabilmente anche i
Cayapó dell’Amazzonia si rifacevano alle medesime credenze astronomiche quando
celebravano le loro feste formando un’unica colonna danzante che si distendeva
concentricamente attorno al centro del villaggio (Turner, 1997).
A
Mahiyangana, nel cuore dello Sri Lanka, Maria Silvia Codecasa assiste ad un
rituale molto particolare (1994, pp. 38-39). I partecipanti “si spalmarono sul
corpo una sostanza appiccicosa, per impastarsi addosso del kapok e fili di
paglia. Sembravano uccelli pateticamente dilettanti….in lunga fila ondeggiante,
brandendo lunghissime e sottili aste di bambù, i Vedda attraversarono la folla
seguendo il loro capo. Cantavano una melodia monotona, interrotta da improvvisi
gridi. Era meno di una danza, un accenno di danza. Improvvisamente la fila
volse a destra, si avvolse a spirale, accelerando il ritmo dei passi e in pochi
istanti le figure irte di paglia formarono un gruppo compatto, dentro il quale
sembrava che ognuno combattesse contro tutti, sollevando una nuvola di polvere,
kapok e frammenti di paglia. Pochi attimi e già i combattenti emergevano dalla
nuvola, nudi e sudati, ma ancora scrollando con aria bellicosa i loro
giavellotti di bambù. […] Quella danza di uccelli…e stranamente, prima che i
Vedda cominciassero a danzare, io avevo pensato: “danza delle gru”….L’avevano
danzata Teseo e i suoi compagni, dopo aver ucciso il Minotauro nel labirinto
cretese. Secondo un’altra fonte, Dedalo gliel’aveva insegnata affinché si
orientassero nel labirinto, che era un labirinto a spirale”.
Kerényi
cita la relazione dello scrittore tedesco Ludwig Uhland (1767-1862), durante un
suo viaggio in Svizzera, a Greyerz, nel cantone di Friburgo: “una domenica
sera, sul prato del castello di Greyerz, sette persone iniziarono una danza in
cerchio che ebbe termine soltanto il martedì successivo, al mattino, nella
grande piazza del mercato di Sanen, dopo che settecento fra giovanetti e
fanciulle, uomini e donne, si erano lasciati trascinare in quel corteo, che
sembrava la spirale di una chiocciola” (Kerényi, 1983, p. 49). Il commento
dello storico e filologo ungherese è che il corego prima si muove nella
direzione della morte, verso il centro della spirale, poi si volge all’indietro
e ripercorre la strada all’incontrario, verso la rinascita. Constatazione che
ribadisce nella sua analisi delle somiglianze tra la Danza della Gru e la Danza
Maro polinesiana, in cui la direzione della morte è anche quella della nascita.
Il che corrobora l’impressione che il labirinto, almeno inizialmente, non fosse
un vero labirinto, ma una spirale tracciata nel terreno all’interno di un
tempio megalitico o sul suolo di una caverna sacra. Ne era convinto Hermann
Kern, un curatore museale che ha completato quella che è forse la più vasta e
sistematica ricerca sui labirinti della storia (Kern, 1981): il proto-labirinto
era una danza. Come quella immortalata da John Milton nel Paradiso Perduto,
dove gli angeli in tripudio per la nascita di Gesù, formano una spirale
danzante attorno al trono di Dio. Filone di Alessandria (20 a.C. – 50 d.C.) ha
trasmesso ai posteri una descrizione tratteggiata di una danza circolare
eseguita dalla setta ascetica neopitagorica dei Terapeuti, a replicare la danza
cosmica dell’armonia delle sfere, per accedere alle rivelazioni divine. Il
teologo Clemente alessandrino (II-III secolo) la paragonava alle danze degli
angeli. Abbiamo già visto che il testo apocrifo Atti di Giovanni ne faceva
cenno: “Chi non danza, non sa cosa accade”.
Ma perché
la gru? Perché la gru era considerata un simbolo di immortalità ed era sempre
descritta in compagnia degli Immortali (Eliade, 1991). È stato detto che la
Danza della Gru (geranos), prendesse il nome dai movimenti dei danzatori,
simili a gru in formazione oppure perché loro stessi si adornavano come delle
gru, come avveniva tra gli Ostiachi siberiani, che indossavano pelli di gru
durante il relativo cerimoniale sciamanico (Matthews, 1922). Non è irrilevante
rammentare ai lettori che Dedalo, l’inventore del labirinto, è anche l’unico
che riesce ad uscirne volando, un volo sciamanico effettuato con quelle stesse
ali (di gru?) che segneranno il destino del figlio Icaro.
La Danza
della Gru veniva eseguita, sotto il nome di pilota, nelle cattedrali francesi
di Auxerre, Amiens, Sens e Chartres e probabilmente anche a Reims, Besançon e
molte altre (Lepore, 2002). Si eseguivano danze ecclesiastiche cantando e
passandosi una palla, come ad Auxerre, nella cattedrale di Santo Stefano, in
occasione dei vespri del lunedì di Pasqua o a Natale. Il corego (decano)
guidava la fila seguendo il percorso del labirinto e passando la palla lungo la
catena, come se fosse il gomitolo di Arianna (Morrison, 2003). Il suo carattere
pagano e promiscuo portarono però alla sua proibizione, tra il sedicesimo ed il
diciassettesimo secolo. Ciò significa che la tradizione era talmente radicata
che ci vollero secoli per estirparla. Lo storico della musica Craig Wright
(Yale) menziona il resoconto di un folklorista in visita ad un villaggio del
meridione francese nel 1838, dove assistette all’esecuzione di un ballo a
spirale con fazzoletti al posto della corda chiamato “la danza cretese dei
Greci” (la danse candiote des Grecs), in cui il corego era chiamato Teseo. Da
quella stessa danza derivano l’hasapiko ed il sirtaki (di Zorba). Più
recentemente, quell’idea di fondo è stata ripresa e rivista nella strada
spiraliforme di mattoni gialli del Mago di Oz.
La Gorgone
L’atteggiamento
usuale con cui è dipinta Medusa – accovacciata, con le braccia sollevate, con
la lingua a penzoloni sopra il mento, con gli occhi sbarrati è una posa
caratteristica della guardiana dell’altro mondo nei culti del maiale della
Melanesia. Qui essa è custode della strada per l’aldilà e chi vuole passare
deve offrirle un maiale (come sostituto simbolico della propria persona). E
Medusa sta proprio in un posto simile nella sua caverna ai limiti del mondo,
sulla strada che porta all’albero delle mele d’oro.
Joseph
Campbell
Non siamo
soli ad affrontare l'avventura, perché gli eroi di tutte le epoche ci hanno
preceduti. Il labirinto non ha più segreti. Dobbiamo semplicemente seguire il
filo lungo il percorso dell’eroe, e dove pensavamo di incontrare un mostro,
troveremo un dio. Dove pensavamo di uccidere altri, uccideremo noi stessi. Dove
pensavamo di dover cercare all’esterno, ci ritroveremo invece al centro della
nostra esistenza. E dove avevamo pensato di essere soli, avremo tutto il mondo
al nostro fianco.
Joseph
Campbell
I
capostipiti del genere eroico sono Gilgamesh ed Enkidu che, assieme, si inoltrano
in una foresta di cedri per salvare una vergine divina (principessa) tenuta
prigioniera da un mostro dal volto “cupo come la notte”, il gigantesco demone
Khubaba, o Humbaba, “il capo irto delle corna del bufalo selvatico”, guardiano
di un Oltretomba labirintico e fortificato, “la fortezza di intestini”: “abitatore
di una foresta incantata, percorsa da sentieri segreti e viottoli senza uscita…l’uomo
delle viscere, così detto perché il suo viso è fatto di interiora” (Kerényi,
1983, p. 34).
La saga narra
che Gilgamesh, oppresso dalle preoccupazioni di un sovrano che ha a cuore le
sorti dei suoi sudditi, decide di partire alla volta del Paese dei Cedri per
uccidere il suo guardiano, ritenuto responsabile della miseria della città di
Uruk e la cui descrizione rispecchia quella che poteva essere la metamorfosi
simbolica dell’attività vulcanica: “Enlil lo ha designato quale settuplice
terrore ai mortali […] il suo ruggito è come uragano, la sua bocca è fuoco, il
suo alito è morte”. Lo accompagna il suo scudiero Enkidu, che era stato
precedentemente strappato alla vita delle foreste e dirozzato. La sera prima
dello scontro Enkidu ha un incubo: il mostro lo afferra e lo getta nell’abisso
urlando: “vola verso il basso, verso la dimora dell’oscurità, verso la casa di
Irkalla [l’Ade]. Scendi nella sua dimora, da dove non esce più chi vi è
entrato. Scendi per la strada che nessuno può rifare, se la sua via non si
svolge a destra e a sinistra!”. Antesignano di Perseo, di Teseo e di Ercola,
Gilgamesh supera la prova iniziatica e riesce ad uccidere il gigante
decapitandolo. La sua testa recisa finisce in una sacca di pelle, come quella
della Medusa. Di norma Humbaba veniva raffigurato con il volto a forma di
viscere o di serpenti intrecciati, qualche volta anche come un gigante
monocolo, come il ciclope Polifemo, figlio di Poseidone, incontrato ed ucciso
da Ulisse nell’Odissea di Omero, all’interno di una caverna.
La testa
di serpenti ci spinge ad esaminare meglio la figura della Medusa o Gorgone
(Hopkins, 1934). Essa appare sovente nell’arte etrusca e in latino “larva” e “persona”
sono sinonimi che indicano gli spettri e le maschere. Come mai? “Persona”
deriva etimologicamente da Phersu (phèrsuna, = “appartenente al Phersu”, ossia
la maschera, appunto), termine etrusco collegato a Perseo e Persefone
(Phersipnai) e forse a Parsifal, cavaliere del ciclo arturiano.
Nella
Tomba degli Àuguri a Tarquinia (VI secolo a.C.), Phersu (si pronuncia “fersu”) è
rappresentato con una maschera sul volto, una barba probabilmente posticcia,
una giubba maculata ed un cappuccio. Compare assieme ad un guerriero dalla
testa avvolta in un panno che brandisce una nodosa clava con la quale si
difende da un molosso che lo azzanna e che è tenuto al guinzaglio dallo stesso
Phersu. Altrove Phersu appare anche mentre danza e suona con la testa rivolta
all’indietro o con una clava ed uno scudo. È stato fatto notare che nelle
pitture murali etrusche Ade è raffigurato con un cappuccio di pelle di lupo o
cane che richiama il kunee usato da Perseo e la maschera di Phersu. Ecco la
descrizione di Ermes: uomo barbuto con un copricapo (un pilos con il cocuzzolo
appuntito) e un corto mantello, indossa stivali alati e porta il caduceo. A
volte corre o danza suonando la lira e guardando dietro di sé al di sopra della
spalla. Altre volte suona la lira mentre guida una processione sacrificale che
comprende Eracle (con la sua pelle di leone), che scorta agli Inferi,
esattamente come fa con Perseo ed Ulisse. Atlante confonde i due eroi, forse
perché sono la stessa figura, proveniente da due tradizioni diverse, che ad un
certo punto si sono fuse sincreticamente.
Hermes e
Phersu sono psychopompos, ossia guidano le anime dei morti e proteggono i
viventi che si addentrano nell’Ade. Hermes aiuta Perseo a sconfiggere Medusa e a
prendere la Gorgeiè képhalè, la testa della Gorgone. La stessa espressione è
usata nell’Odissea quando Ulisse teme l’arrivo improvviso di una testa
mostruosa che lo impietrirebbe all’istante, poiché l’Ade non è posto per i
viventi. Di nuovo il tema della pietrificazione. Quella testa terribile è
proprietà di Persefone, signora dell’Ade, che la usa come guardiana, come
Cerbero. È la Maschera del Potere supremo, quello di vita e di morte, di
progressione bio-spirituale o di regressione allo stato minerale, il più remoto
gradino dell’evoluzione. Potenza di terrore. Gli astronomi arabi chiamano la
costellazione Perseo Hamil Ras al Ghul, “Colui che porta la testa di Ghul”,
testa che è Beta Persei, la stella Algol, la più diabolica e nefasta del cielo,
che prende il nome da un demone o un’orca del deserto che assale i viaggiatori
e li divora cominciando dai piedi. Gli Ebrei la chiamano Rosh ha Satan, la
testa di Satana.
Quella di
Perseo è un’impresa epocale. Omero lo definisce “preminente tra tutti gli
uomini”. Da quel momento in poi la Testa della Gorgone diventa strumento per
rettificare i torti e le ingiustizie del passato, ristabilendo gli equilibri
cosmici. Ercole taglia le teste dell’Idra, Perseo quella di Medusa, per poi
uccidere il drago che tiene prigioniera Andromeda. Anche San Michele uccide il
drago, diventando la controparte cristiana di Perseo. San Michele è lo
sterminatore dell’Anticristo – il quintessenziale psicopatico, che indossa la
maschera della santità per sedurre le vittime –, è accompagnatore delle anime
dei morti in cielo (psicopompo), soppesatore delle colpe e dei peccati delle
anime medesime nel giorno del giudizio, protettore dell’umanità dalle calamità
naturali.
C’è un
drago anche vicino al paese di San Michele, nei pressi di Trento. È il
Basilisco di Mezzocorona, che si fa ingannare da uno specchio: risponde ad ogni
sguardo con il medesimo sguardo, a ogni suo gesto con un simmetrico gesto e,
così distratto, si fa uccidere, diventa polvere. La sua caduta come riduzione
allo stato minerale: polvere alla polvere. Come Narciso, il basilisco si ammira
e perde di vista la realtà vera, è sviato dal suo doppio, dalla maschera. Così è
per Medusa: uno specchio la condanna riflettendo il suo sguardo mortifero.
Ricordo che al centro dei labirinti ipogei si poneva uno specchio e uno
specchio – o per meglio dire un calderone pieno d’acqua in cui specchiarsi –,
era collocato anche al centro del nekromanteion di Efira, uno degli oracoli più
celebrati dell’antica Grecia, perché là i vivi potevano entrare in contatto coi
morti e farsi predire il futuro, senza bisogno di alcuna intermediazione
sacerdotale. Nell’Odissea Omero spiega che è proprio lì che Ulisse si reca per
discendere negli Inferi ed interrogare Tiresia. L’archeologo greco Sotirios
Dakaris prese per buone le indicazioni di Omero e di Pausania e le usò per
rintracciare questo luogo, riuscendovi: il nekyomanteion o necromanteion, un
labirintico santuario di Persefone, era posto sotto una chiesa tardo-bizantina.
Nell’intrico di corridoi e meandri bui, secondo l’archeologo greco una
riproduzione in miniatura dell’inferno, gli scavi disseppellirono recipienti
per le offerte di latte, miele e vino, resti di molluschi e ossa di maiale, l’anima
sacrificale della Dea dell’Ade, dalla Grecia fino alla Melanesia (Dakaris,
1993). S’intuisce una continuità che comincia all’epoca dei Cro-Magnon e
prosegue con le meditazioni dei pitagorici nelle camere sotterranee, per
arrivare alle catacombe dovei i primi cristiani pregavano e digiunavano.
Pare di
poter dire che, quantomeno nell’ambito mediterraneo e medio-orientale, la
caratteristica precipua dell’eroe civilizzatore o salvatore – il vero e proprio
Menschenfreund – sia quella di combattere contro la Maschera del Potere, il cui
tratto distintivo è la facoltà di tramutare in pietra o polverizzare chi non sa
guardare oltre le apparenze, chi non riconosce la minaccia che si cela dietro
di essa. Di che minaccia si tratta? Io credo che il significato ultimo di
questo mitema archetipico, la sua morale più profonda sia quella di non
lasciare che orgoglio e brama di potere impietriscano prima e polverizzino poi
la nostra coscienza. Gli eroi sono tutti individui con una personalità forte,
schierata in favore della dignità e del rispetto per il prossimo. Purtroppo l’uomo
è affascinato dal potere, non può più distogliere lo sguardo. Si fa assorbire,
risucchiare nel suo vortice, imprigionare nel suo regno, dopo essere stato
strappato a se stesso, alla propria identità, individualità, personalità,
indipendenza di giudizio. È invaso e posseduto e non se ne rende conto. Si fa
mettere le redini, domare, addomesticare ed addestrare. È il rischio che corre
Dottor Bill, in Eyes Wide Shut, quando la curiosità lo sta per fagocitare in un
gorgo di corruzione e violenza governato da potenti mascherati. Ma ha la
possibilità di scegliere e si salva, torna a casa come Dorothy, nel “Meraviglioso
Mago di Oz”: “Casa dolce casa”. Il potere inganna e manipola, ma non può
violare il libero arbitrio, può solo influenzare le persone facendole sbagliare.
È quel che fa con Eva, nel Paradiso Terrestre, sfruttando le debolezze di ego.
Il potere
egocentrico parla di trascendenza e spiritualità, ma sono termini ai quali
conferisce un senso ben diverso. Questa spiritualità non trascende la materia,
la compenetra è, in modo apparentemente contraddittorio, uno spiritualismo
materialista incentrato sull’assolutizzazione di questo mondo. È un feticismo
della materia che ambisce a trascenderla solo per governarla meglio. Potere
significa diritto di disprezzare, uccidere e rimodellare la Creazione a proprio
piacimento. Significa un ego mascolino armato e corazzato per affrontare un
mondo che avverte sempre sull’orlo della disintegrazione. Il potere egocentrico
è insicuro ma indossa la maschera della marzialità, della solidità, dell’inamovibilità,
del turgore fallico, del corpo-macchina che ama le strutture rigide e
prescrittive, quelle che rassicurano, placano, confortano, tengono sotto
controllo i pericoli emozionali e forniscono confini e barriere nette.
Il vero problema
è allora la mancanza di obiettività, la nostra incapacità di vedere le cose
come stanno, la nostra propensione a scambiare i nostri desideri/paure per la
realtà, la nostra riluttanza a fare realmente attenzione agli effetti di quel
che diciamo e facciamo e a quel che dicono e fanno gli altri. Tutti dicono di
saper distinguere tra bene e male, ma poi quasi tutti sono convinti di compiere
il bene. Perché? Perché, inconsciamente, per via del nostro egocentrismo
connaturato, siamo convinti che la nostra personale visione della realtà sia più
vera di quella altrui – o meno vera, se siamo succubi.
Neghiamo,
dispoticamente, a chi sta sotto di noi il medesimo grado di realtà che
assegniamo a noi stessi e, servilmente, attribuiamo a chi sta sopra di noi un
grado di realtà maggiore del nostro. In entrambi i casi l’altro non è mai
reale/vero quanto lo siamo noi. Per questo non facciamo veramente attenzione.
Inoltre, se gli altri sono meno reali di noi o noi ci sentiamo meno reali degli
altri, non ci verrà forse spontaneo di voler cambiare l'universo, invece di
accettarlo per quello che è? Non ci verrà spontaneo di cercare di cambiare gli
altri invece di cambiare noi stessi? E non è quella la radice di ogni male? Non
è l’estirpamento di questo vizio il fine ultimo del rito del labirinto?
Conclusione
- Il Cristo e la Fine dei Tempi
Beato chi,
come Teseo, potrà uscire dal suo labirinto personale una volta per sempre. Ma
la vicenda dell’uomo a cui non arride tanto favore degli dèi è più grave,
quindi il suo errare sarà lungo quanto la vita. Eppure, l’aver raggiunto la
camera segreta anche una sola volta – per illuminazione spirituale o per una
meditazione perfetta – modificherà la sua coscienza per sempre: “chi è stato
felice una volta, non potrà mai essere distrutto”.
Paolo
Santarcangeli
È scritto
che la vita si rifugi in un sol luogo, apprendiamo cioè che esiste un paese nel
quale la morte non toccherà gli uomini, quando sarà il terribile momento del
duplice cataclisma. Tocca a noi cercare, poi, la posizione geografica di questa
terra promessa, dalla quale gli eletti potranno assistere al ritorno dell’età d’oro.
Perché gli eletti, figli di Elia, secondo le parole della Scrittura, saranno
salvati. Perché la loro fede profonda, la loro instancabile perseveranza nella
fatica avrà fatto meritare loro d’essere elevati al rango di discepoli del
Cristo-Luce. Essi porteranno il suo segno e riceveranno da lui la missione di
ricollegare all’umanità rigenerata la catena delle tradizioni dell’umanità
scomparsa.
Fulcanelli
Una credenza
invero curiosa quella di Fulcanelli. Ci imbattiamo in questa affermazione nel
capitolo conclusivo di un saggio del celebre alchimista Fulcanelli, intitolato “Il
mistero delle cattedrali e l'interpretazione esoterica dei simboli ermetici
della Grande Opera”, pubblicato per la prima volta nel 1926. Invero, il Gioco
di Troia è quasi certamente ancorato all’idea di morte e rigenerazione e di
catastrofe e rivelazione (“apocalisse”). Infatti, oltre alla stessa Troia, “i
nomi attribuiti nel Nord Europa a queste spirali di pietra vanno considerati
come definizioni del “tempo della morte”, a meno che non intervengano
particolari ragioni a dimostrare il contrario. Sono in genere nomi di città
distrutte: Babilonia, Ninive, Gerico, Gerusalemme, Lisbona (probabilmente solo
in epoca successiva al famoso terremoto)” (Kerényi, 1983, p. 46).
Gli
architetti delle cattedrali senza dubbio non ignoravano la necessaria
dimensione escatologica ed apocalittica del messaggio cristiano, che acquista
senso solo in questa prospettiva finalistica, com’è testimoniato dalla
preponderanza dei motivi apocalittici nelle cattedrali (Emmerson, McGinn,
1992). “L’immaginazione cristiana aveva trovato una forte fonte di stimoli
nella profezia della Nuova Gerusalemme dell’Apocalisse e la chiesa medievale
era concepita come immagine di quella futura beatitudine celeste. La visione di
Giovanni della città celeste della Nuova Gerusalemme era usata nel rituale di
consacrazione di una chiesa, come la visione di Ezechiele del Tempio, dato che
si riteneva che anche questa avesse prefigurato la Gerusalemme Celeste” (Dobbs,
2002, p. 124).
La
profezia di Gesù è nota: “Or voi udirete parlar di guerre e di rumori di
guerre; guardate di non turbarvi, perché bisogna che questo avvenga, ma non sarà
ancora la fine. Poiché si leverà nazione contro nazione e regno contro regno;
ci saranno carestie e terremoti in vari luoghi; ma tutto questo non sarà che
principio di dolori. Allora vi getteranno in tribolazione e v’uccideranno, e
sarete odiati da tutte le genti a cagion del mio nome. E allora molti si
scandalizzeranno, e si tradiranno e si odieranno a vicenda. E molti falsi
profeti sorgeranno e sedurranno molti. E perché l'iniquità sarà moltiplicata,
la carità dei più si raffredderà. Ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà
salvato” (Matteo 24:6-14). Per inciso, si tramanda che Giovanni, l’autore del
libro dell’Apocalisse, abbia scritto il testo in seguito ad una visione
profetica in una caverna di Patmos.
Imbevuti
com’erano di cultura greca, i costruttori di cattedrali non potevano non
conoscere il Timeo di Platone, che contiene questo interessante passo: “Ma uno
di quei sacerdoti, che era molto anziano, disse: Solone, Solone voi Greci siete
sempre ragazzi, un vecchio fra i greci non esiste! All’udire queste parole,
egli chiese: Ma che vuoi dire? Siete tutti spiritualmente giovani, - rispose -
perché nelle vostre menti non avete nessun’antica opinione formatasi per lunga
tradizione e nessuna conoscenza incanutita dal tempo. E il motivo è questo:
avvennero e avverranno ancora per l’umanità molte distruzioni in molti modi, le
più grandi con fuoco e l’acqua, e altre minori per infinite altre cause. Quel
fatto che si racconta anche fra voi, ossia che un tempo Fetonte, figlio di
Elios, dopo aver aggiogato il cocchio di suo padre, non fu capace di guidarlo
sulla via tracciata dal padre e per questo bruciò le regioni terrestri e morì
lui stesso folgorato, viene narrato in forma mitica; ma la verità è la
deviazione dei corpi che girano in cielo intorno alla terra e la combustione, a
grandi intervalli di tempo, delle regioni terrestri per sovrabbondanza di
fuoco. In quei momenti, chi abita sui monti e in luoghi alti e aridi è esposto
alla morte più di quelli che abitano presso i fiumi e il mare: per noi il Nilo è
provvidenziale per molti aspetti, e straripando ci libera anche in quelle
circostanze da quest’inconveniente. Quando invece gli dei inondano la terra per
purificarla con le acque, i pastori e i mandriani si mettono in salvo sui
monti, ma gli abitanti delle vostre città vengono trascinati in mare dai fiumi”.
Oggi la
scienza conferma che questi eventi sono realmente avvenuti e presumibilmente si
potranno verificare di nuovo (Napier, 2010; Anderson et. 2011). Ci possiamo
fare qualcosa? No. Dobbiamo seguire il consiglio di Fulcanelli e cercare una
terra in cui “la morte non toccherà gli uomini”? Alla luce di ciò che abbiamo
appreso, quella di Fulcanelli è forse un’allegoria alchemica, oppure un’esortazione
a trovare dentro di sé, in una rivoluzione della coscienza, la strada per il
castello del Graal e per l’uscita dal labirinto, piuttosto che in una frenetica
ricerca del “posto giusto”.
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