Ritengo che ciascun uomo e ciascuna donna dovrebbe augurarsi di vivere e morire con dignità, ossia da persona libera e responsabile. Per la stessa ragione condanno l’imperialismo cinese in Tibet ed auguro ai Tibetani di riacquistare il loro diritto all’autodeterminazione. Ciò non mi impedisce, però, di svolgere alcune considerazioni sulla questione tibetana che spiaceranno a più di un lettore. Ma tant’è…
Il Tibet rappresenta qualcosa di più di una nobile causa in Alto Adige. Qualcuno, tra i lettori, si ricorderà dello striscione srotolato dagli attivisti di Süd-Tiroler Freiheit all’arrivo del Dalai Lama a Bolzano: “Tibet ist nicht China”, ispirato al classico “Südtirol ist nicht Italien”. Il che ci pone di fronte ad un grave dilemma: dove ha termine la legittima aspirazione e comincia la frammentazione particolaristica? Lo stesso Dalai Lama ha commentato in quell’occasione che ai Tibetani basterebbe quello che si è ottenuto in Alto Adige, in termini di libertà e benessere.
Nel 2008, Elmar Pichler Rolle, allora Obmann (presidente) della Südtiroler Volkspartei (SVP), paragonò le sorti dell’Alto Adige a quelle del Tibet, sollevando le ire dello storico sudtirolese Hans Heiss, che commentò: “È davvero fuorviante e storicamente scorretto. Sessant’anni fa, nel 1948, in provincia di Bolzano si svolsero le prime elezioni libere, dove la Südtiroler Volkspartei elesse i suoi primi parlamentari. A Roma questi cominciarono a lavorare per migliorare le condizioni dei sudtirolesi, che comunque non erano minimamente paragonabili a quelle dei tibetani di oggi. Allora non c’era la piena autonomia, ma i diritti civili e politici della popolazione sudtirolese erano garantiti. I candidati SVP, dopo l’elezione, andarono a Roma, dove nessuno li arrestò, li picchiò o li uccise con ferocia. Poterono dire la loro ed essere ascoltati in Parlamento” (Fait/Fattor, 2010, p. 176).
L’Alto Adige ha anche destinato dei finanziamenti – 800mila euro in 20 anni (Alto Adige, 2 giugno 2010) – sia in Tibet, per progetti economici e culturali, sia al di fuori del Tibet, “per consentire ai monaci una più facile diffusione del loro pensiero spirituale e etico” (Luis Durnwalder, Alto Adige 18 novembre 2009).
Insomma, come si vede, le affinità elettive non sono accessorie, sembra vi sia la percezione non dico di una equivalenza tra le due realtà, ma certamente di una parentela: due popoli di montagna, molto religiosi e spirituali, sottoposti all’autorità di una potenza occupante. La destra tirolista procede oltre nell’accostamento: due potenze occupanti etnocide.
Il Tibet diventa lo specchio di tutto ciò che non va in Alto Adige e di ciò che l’Alto Adige dovrebbe essere: unito nella lotta al nemico e con un ampio sostegno internazionale, che include persino delle star di Hollywood.
Non voglio qui impegolarmi nella vertenza che interessa Tibet e Cina, perché non ho le competenze per farlo e non ho alcuna fiducia nell’affidabilità e trasparenza delle informazioni che provengono dall’una e dall’altra parte per suffragare le rispettive posizioni. Sono invece più interessato a capire questa “relazione mistica” tra tirolismo e tibetismo. Perché parlo di tibetismo? Perché il Tibet, agli occhi degli Occidentali, prima ancora di essere una regione del globo abitata da una popolazione che, giustamente, resiste al totalitarismo cinese e ad un modello di sviluppo, quello del turbocapitalismo e del turismo di massa, che ha già fatto molti danni ecologici e paesaggistici in Alto Adige, è un luogo dell’anima, un’ideologia. Quel che più sorprende, però, è lo scoprire che questo luogo dell’anima, come il Giappone, è sempre stato particolarmente caro soprattutto all’estrema destra (Hübinette, 2007).
Gli intellettuali di destra del secolo scorso videro nell’Estremo Oriente l’Eden arcadico che cercavano, la soluzione a tutti i problemi dell’Occidente, il trionfo del culturalismo sul tanto avversato cosmopolitismo. E fu un amore pienamente corrisposto: una buona fetta dell’élite intellettuale giapponese non fece mistero della sua ammirazione per il fascismo europeo, nel quale si rispecchiava (Najita & Harootunian, 1988; Petzin & Ruprecht, 1994). La dicotomia Est-Ovest divenne uno strumento per il rafforzamento delle strutture esistenti e dei valori tradizionali e s’incentrò sulla contrapposizione di lealtà, obbedienza, familismo patriarcale, olismo, spiritualismo, feudalesimo, autoritarismo politico, omogeneità razziale e tradizionalismo culturale da un lato, ed utilitarismo, individualismo, tecnocrazia materialista, omogeneizzazione, consumismo, Americanismo, relativismo e neutralità dello Stato rispetto ai valori morali dall’altro (Dawson, 1967; Maruyama, 1990).
Leggiamo, in “Ore Giapponesi”, cosa scrive Fosco Maraini a proposito dell’ethos e delle pratiche sociali orientali in relazione allo stile di vita occidentale: “Tutto questo, a prima vista, parrà disperatamente antimoderno, peggio delle caste in India, o del velo per le donne in certi paesi musulmani. Ma non dobbiamo fermarci alla superficie. Occorre guardare alle strutture sottostanti, di fondo. I nostri tempi sono caratterizzati dal tramonto del lavoratore singolo, o del piccolo gruppo di collaboratori – salvo pochi fortunati casi – e dal trionfo delle vaste, smisurate, ciclopiche organizzazioni. In questo paesaggio i popoli a tradizione confuciana presentano straordinari vantaggi sugli altri. Hanno il gruppo nel sangue. Le costrizioni dalle quali l’individualista occidentale si sente imbrigliare e soffocare, qui divengono sostegni, amati binari, protezioni contro il cattivo ed ingannevole mondo di fuori. Naturalmente il gruppo non è solo un divoratore d’individui, ma funziona veramente come cappa, tetto, proteggendo i suoi membri ed affiliati fino al limite del possibile” (Maraini, 2000, p. 32)
Il grande inganno perpetrato da certi, fortunatamente non tutti, orientalisti europei ai danni del loro pubblico e che – è bene che lo si ribadisca – contribuì a preparare il terreno al nazi-fascismo tra le classi dirigenti, in Europa come in Giappone, fu quello di spacciare il nazionalismo xenofobo giapponese o la teocrazia spiritualista tibetana come una terza via tra capitalismo e comunismo, il percorso di modernizzazione ideale, di gran lunga superiore a quello occidentale delle democrazie liberali.
I maggiori orientalisti occidentali, incluso Giuseppe Tucci, furono vittime dell’auto-lobotomizzazione delle proprie facoltà critiche (Kersten, 1996; Hübinette, 2007), accecati dal loro aristocratico rigetto della modernità massificante occidentale, quella del suffragio universale e della popolarizzazione dell’arte. Le culture orientali, come oggi le culture alpine, divennero ineffabili monoliti nelle loro descrizioni, così implacabilmente altre da non poter essere comprese e spiegate appieno. Meglio rassegnarsi ad una muta devozione piuttosto che tradire lo spirito dell’Oriente. Meglio continuare a credere che le roboanti scempiaggini di certi pensatori orientali – come gli esponenti della scuola romantica giapponese (Nihon Rôman ha), così rapidi nell’allinearsi al totalitarismo nipponico – celassero dei profondi, benché ermetici, messaggi per un Occidente decadente ma forse non ancora malato terminale (Dale, 1986). La logica deduttiva era troppo occidentale per essere applicata ai testi orientali. E così l’Oriente fu “orientalizzato”, cioè reso più orientale di quel che era: più omogeneo, internamente coerente, sublime, altro, remoto, misterioso, esotico, singolare, sorprendente, ecc. Si riscoprì il tenebroso fascino dell’Europa medievale nell’etica virilista, militarista e paternalista del bushido, che legittimò l’imperialismo giapponese, nell’estetizzazione della violenza e della morte del Buddismo Zen (Victoria, 1997; 2003) e nel modello mistico-feudale tibetano (Bishop, 1993). Un pensiero grondante di narcisismo: si esaltava l’Altro per celebrare la propria alterità rispetto ad una società che aveva scelto la via della democrazia e del pluralismo.
Questa corrente di pensiero, che divulgò in Europa un’idea estremamente parziale e molto spesso contraffatta del Tibet e del Giappone, è stata chiamata “modernismo reazionario”, ma una definizione migliore è quella di “radicalismo reazionario”. L’idea, infatti, non è quella di indirizzare il progresso in una certa direzione, né tantomeno quella di moderarne la velocità. È piuttosto quella di sfruttare il suo momento per invertirne il corso ed inserirlo in un ordine ciclico e non più lineare, che conduca al recupero delle virtù rurali e delle strutture sociali e simboliche feudali. In questo risiede il radicalismo del nazi-fascismo e dell’etnopopulismo contemporaneo, ma anche il suo appeal: la controparte di una strutturazione sociale rigidamente piramidale e gerarchica, munita di spietati sistemi di sanzione verso i riottosi e gli spiriti liberi, è la promessa, non necessariamente mantenuta, di un’esistenza semplice e serena, di buon senso, dove ci si intende all’istante, dove i legami affettivi sono più saldi ed affidabili, più caldi. Una società completamente diversa dalla modernità descritta come livellante ed omologante, generatrice di eterno spaesamento, incertezza e trasformazione, della dimensione metropolitana dell’incertezza e dell’eterna trasformazione. Una società in cui si ritiene che l’emancipazione personale ed il libero esercizio delle facoltà critiche nuocciano alla moralità pubblica ed all’integrità della nazione e che perciò esige che si facciano tornare in auge i valori del consenso, della cooperazione, dell’armonia e del comportamento ritualizzato. Il feticcio della volontà generale di Rousseau, recuperato al fine di disfarsi dell’impiccio della volontà personale, che ostacola il perseguimento di un obiettivo molto più “nobile” ed onnicomprensivo del destino dei singoli. È allora che fa capolino lo Stato pastorale o materno con le sue incessanti indicazioni su come regolare la vita di ciascuno in modo da dare l’apparenza di un ordine permanente, che promette servizi totali dalla culla all’urna in cambio della quiescenza dei suoi cittadini.
L’altra faccia dell’orientalismo reazionario fu l’antisemitismo, che rappresentò presumibilmente la reazione di animi insicuri, alle prese con la globalizzazione generata dall’imperialismo europeo e con un lancinante senso di anomia, di disgregamento delle norme tradizionali, di cambiamento inarrestabile, percepito come inevitabilmente deleterio. Una risposta che nacque dall’impatto improvviso ed inatteso su un comune sostrato rurale di ideologie eminentemente urbane e borghesi che, proprio in virtù del loro universalismo, non potevano che cercare di convertire, volenti o nolenti, dei contadini peraltro gelosi delle proprie autonomie e tendenzialmente autoritari. Molti reagirono deplorando le trasformazioni che interessavano la terra che aveva dato loro i natali, aborrivano la laicità, la modernizzazione, la progressiva scristianizzazione della società in cui vivevano, l’ascesa del socialismo ed accusavano gli Ebrei di essere dietro tutto questo. Così, per esempio, i conservatori austriaci conservatori austriaci se la prendevano con i socialisti ebrei, allo stesso modo in cui i nazionalisti se la prendevano con i cosmopoliti ebrei, i socialisti con i capitalisti ebrei e gli stessi ebrei assimilati con gli ebrei integralisti e sionisti, mentre questi ultimi condannavano i primi, per aver tradito l’ebraismo (Pauley, 1992). L’antisemitismo funzionava e funziona perché è astratto e perché il bersaglio è una minoranza diffusa nella società. Meno Ebrei in carne ed ossa s’incontrano, più facile è rafforzare lo stereotipo dell’Ebreo incarnazione di tutti i mali della modernità. Sorte analoga toccò ai gitani. È utile sapere che, nel 1908, in quella Vienna tendenzialmente ostile ai residenti ebrei, slavi ed italiani in cui Adolf Hitler costruì la sua coscienza politica, fu avanzata la proposta di tatuare un numero sul braccio di ogni Rom per prevenire eventuali borseggi durante una parata in onore dell’imperatore (Hamann, 1998).
L’Utopia, come l’Arcadia, è il regno della luce, dell’ortodossia più feroce: non può esistere un’utopia migliore e quindi l’alterità cela in sé i germi della violenza, della sovversione, dell’annichilimento. L’Ebreo è la personificazione di tutto ciò che si oppone all’estetica dell’Arcadia e dell’Utopia e come tale va combattuto, perché la società va salvaguardata da tutto ciò che mira alla sua disintegrazione. Nasce la paura del contagio. Dall’Altro ci si protegge con l’isolamento xenofobico, l’ostracismo, la violenza e la “guerra giusta”. La prospettiva di un mondo futuro senza peccato, senza iniquità, senza sofferenza, dove il progresso morale si accompagna a quello materiale giustifica la fratellanza per coercizione e l’uguaglianza per imposizione. Una società di eguali, dove l’uguaglianza è conseguenza di un’unanimità indiscussa ed offre ai cittadini una facciata rispettabile dietro cui nascondere la paura della variabilità, dell’incerto, dell’originale, del dissenso. Simbolicamente, Utopia e Arcadia sono rappresentate dall’isola (Giappone) e dalla valle fatata circondata da alte catene montuose (Tibet).
Tra quelli che aderirono a questa rete internazionale criptonazista di ammiratori della purezza ed autenticità orientale figurano lo scienziato politico Rudolf Kjellén, fondatore svedese della geopolitica, Karl Haushofer, consigliere di Hitler, Sven Hedin, il celebre esploratore del quale si è convenientemente rimosso il razzismo, le sue simpatie per la destra eversiva svedese e il suo sfogo isterico al momento della sconfitta del Terzo Reich su una rivista neonazista (Hübinette, 2007). L’antropologo Bruno Beger e lo zoologo Ernst Schäfer ricoprirono posizioni prestigiose all’interno della SS-Ahnenerbe, l’organizzazione himmleriana operativa anche in Alto Adige e Trentino, preposta a rinsaldare la coscienza razziale ariana – l’unità di stirpe, suolo, tradizione e sangue – giacché, come chiariva Himmler, “un popolo vive felicemente il suo presente ed il suo futuro a patto che sia consapevole del suo passato e della grandezza dei suoi antenati”. Poi lo SS-Standartenführer Walther Wüst, indologo, inauguratore dell’istituto Sven Hedin per l’Asia Centrale a Monaco, nel 1943, l’orientalista Giuseppe Tucci, del quale sono note anche le simpatie fasciste e la sua sottoscrizione dell’infame “Manifesto degli scienziati razzisti”, il buddologo tedesco Wolfgang Schumacher e, ovviamente il guru del neofascismo, Julius Evola. Senza tralasciare però Guido von List (1848-1919), Jorg Lanz von Liebenfels (1874-1954), i teosofisti e gli ambienti della Thule Gesellschaft, che tanta parte ebbero nel plasmare quella che divenne la dottrina del nazionalsocialismo.
A noi interessa soprattutto capire quale fosse l’attrattiva del Tibet per il Terzo Reich. Fortunatamente l’argomento è di tale interesse che è stato pubblicato un cospicuo numero di studi specifici che investigano in maniera direi esauriente la relazione tra arianismo, tibetismo ed esoterismo (Bishop, 1993; Rose, 1994; Dodin/Räther 1997; Korom, 1997; Lopez Jr., 1998; Brauen, 2000; Schell, 2000; Hale, 2003; Goldner, 2008). La base di partenza è che, come ogni luogo dell’anima, il Tibet tradizionale è stato mitologizzato, tramite l’escissione di tutto ciò che risultava inopportuno, in conflitto con l’immaginario occidentale focalizzato sul paradiso in terra (Shangri La: la metafora à la page del nobile, astorico ed etereo esotismo) e la spiritualità senza paragoni, che tante persone auspicano si estenda all’intera umanità. Questi scarti dell’opinione pubblica democratica costituivano invece i tagli più pregiati per i simpatizzanti del nazismo e dell’estrema destra in genere. Premetto che nulla di quanto segue può servire a legittimare l’occupazione cinese, anche se il regime ha cercato di fare proprio questo. L’imperialismo ha il costante vizio di indossare gli abiti dell’umanitarismo civilizzatore. Ciò nondimeno, la purezza culturale, come abbiamo visto, non può essere il fine ultimo della restaurazione di uno stato tibetano autonomo. Non dobbiamo cadere nella trappola del relativismo morale e dell’indulgenza estetica, presumendo che vi sia una cultura essenziale, primordiale, sacra e bella in virtù della sua autenticità. Ogni cultura è il prodotto di determinate relazioni di potere, alcune delle quali possono richiedere una condanna categorica, se abbiamo una coscienza e se veramente crediamo nella dignità intrinseca di ogni singolo essere umano. Fermo restando che un Tibet libero avrebbe avuto maggiori opportunità di riformare quegli aspetti della propria società che contrastavano con quei criteri minimi di decoro e rispetto che rendono un’esistenza degna di essere vissuta pienamente.
Mi riferisco in particolar modo al dispotismo delle lamaserie, i monasteri buddisti tibetani, ai rapporti bellicosi che intrattenevano l’uno con l’altro, alla struttura rigidamente piramidale della società tibetana, di stampo feudale, che vedeva una piccola percentuale della popolazione – aristocrazia di circa 200 famiglie e un clero formato da circa il 15 per cento della popolazione, cosicché c’era un monaco da mantenere per ogni due contadini maschi – vivere di rendita grazie ai sacrifici delle masse contadine, relegati allo status di servi della gleba e l’esistenza di una casta di intoccabili. Alla misoginia – alimentata dalla pratica di strappare i figli alle madri, allevandoli in un ambiente unicamente maschile, all’omofobia (paradossalmente, ma come evitare il parallelo con la Chiesa cattolica?), alla violenza domestica endemica, al patriarcato più vieto (è significativo che le donne siano grandemente marginalizzate anche nella comunità tibetana in esilio), alla credenza karmica che a ciascuno era assegnata una collocazione nella società e non poteva aspirare a nulla più di quello (Campbell, 2002). Si è anche parlato di pedofilia tra i monaci. Temo che sia illusorio escluderlo, vista la convivenza di migliaia di bambini e maschi adulti celibi, ma mancano prove certe ed indicazioni affidabili sulla sua estensione. Il sistema penale contemplava punizioni corporali tali da far morire le vittime (essendo vietata la pena capitale per motivi religiosi), amputazioni e la tortura. La religiosità non era per nulla pacifica, tollerante e compassionevole come quella insegnata dal Buddha ed apprezzata ai giorni nostri. Non si diventava monaci per scelta ma perché qualcuno aveva stabilito che certi figli non sarebbero stati allevati in famiglia, con grande sollievo della famiglie più povere. Il cosmo tibetano era popolato di feroci demoni, mostri e vampiri che terrorizzavano bambini ed adulti, chi non seguiva le regole era condannato ad un qualche girone infernale dove avrebbe subito tormenti che neppure Dante sarebbe stato in grado di immaginare. La stessa meditazione e la recitazione dei mantra non erano impiegati per vincere le passioni terrene ma per sopprimere il pensiero critico, la capacità di osservare la realtà in modo autonomo.
Ma, agli occhi dei fautori del Terzo Reich, più attraente ancora – e posso immaginare lo stupore dei lettori – fu la visione di Shambhala, la mitica civiltà sotterranea governata dal carismatico del Re del Mondo, il salvatore dell’umanità alla fine dei giorni (sì, esiste anche un Armageddon buddista!). Il dato incontrovertibile, e per questo ancor più stupefacente, è che un numero davvero consistente di intellettuali di destra credeva nell’esistenza di una razza superumana ariana che dimorerebbe in vaste caverne poste sotto la superficie terrestre e determinerebbe le nostre sorti. Per alcuni tra i sopracitati (ed altri ancora) il Terzo Reich era un programma di “civilizzazione” dell’umanità, che andava addestrata per permettere a questi superuomini nietzscheani di emergere dagli abissi ed assumere il controllo del pianeta. Per questi visionari l’organizzazione sociale ideale tibetana – la teocrazia buddista Kalachakra, che ha poco a che vedere con l’accezione comune del termine, quella di un’innocua benedizione urbi et orbi – rappresentava la migliore approssimazione del modello civile che doveva diventare egemonico nel millennio nazional-socialista, quello di Shambhala, appunto: all’insegna dell’ingiustizia, della discriminazione, della sperequazione, della violenta soppressione del dissenso, della depredazione, dell’armonia uniformante, del privilegio castale su base razziale (Lopez, 1998; Brauen, 2000; Dodin/Räther, 2001; Hale, 2003).
Non possiamo fare a meno di notare che la popolazione tibetana è stato infantilizzata sia dalla destra autoritaria sia dalla sinistra xenofila – amante di ogni esotismo –, sia dal governo cinese sia da quello tibetano in esilio. Pochi hanno potuto sentire la voce dei Tibetani, molti hanno creduto che la voce di pochi Tibetani parlasse a nome di tutti gli altri. Questo è successo perché tutte le varie fazioni non-cinesi hanno rappresentato il Tibet come un mondo nel mondo, una plaga vergine, isolata dal resto del pianeta, più pura, più autentica, più vera, più giusta, più sacra del resto del mondo. La fantasia comune a tutti i militanti tibetisti è quella che il Tibet debba essere conservato in un luogo senza tempo, al riparo dalle contaminazioni, stabilmente ancorato ad un passato idealizzato. Persino il discorso ufficiale cinese, teoricamente improntato al dogma dell’obbligo morale di civilizzare i barbari, non è rimasto immune da questo tipo di suggestioni, anche nella propaganda di regime (Frangville, 2009). Ciascuno si è fatto la propria idea di come debba essere il Tibet, ma quasi nessuno ha consultato i Tibetani, come se fossero dei bambini incapaci di decidere da soli del proprio destino (Barnett, 2001).
Per questa stessa ragione io credo che non si dovrebbe ostacolare il percorso intrapreso dai separatisti sudtirolesi per arrivare ad un possibile referendum sull’autodeterminazione. Per la stessa ragione il paragone con il Tibet è immorale. Quando i militanti etnonazionalisti parlano di sviluppo nel rispetto delle caratteristiche autoctone, la domanda che bisognerebbe porre è: stabilite da chi? Da un “Maestro Oceanico”, il prossimo prescelto nella sequenza reincarnativa? Dal favoloso Re del Mondo? Dai militanti stessi? Da un referendum popolare composto di quesiti al tempo stesso vaghi ed inestricabili?
In una democrazia quel che conta non è l’autenticità di una cultura, ma la dignità dei cittadini.
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