La moralità dell'uomo politico consiste
nell'esercitare il potere che gli è stato affidato, al fine di perseguire il
bene comune. Non c'è un solo cittadino italiano che non sia fiero di essere
stato rappresentato nel nostro Paese e nel mondo da un Uomo che ha interpretato
il diritto degli uomini come cosa sacra, sia nell'esercizio del suo incarico
istituzionale che sotto il dominio fascista.
Norberto Bobbio su
Sandro Pertini
Consentire al governo in carica di vendere liberamente beni di tutti
(beni comuni) per far fronte alle proprie necessità contingenti di politica
economica è, sul piano costituzionale, tanto irresponsabile quando lo sarebbe
sul piano familiare consentire al maggiordomo di vendere l’argenteria migliore
per sopperire alla sua necessità di andare in vacanza. Purtroppo,
l’assuefazione alla logica del potere della maggioranza, tipica della
modernità, ci ha fatto perdere consapevolezza del fatto che il governo dovrebbe
essere il servitore del popolo sovrano, e non viceversa. […]. Il modello di
soggetto avido e bulimico descrive assai accuratamente i comportamenti delle
due più importanti istituzioni che popolano il nostro mondo. Tanto la moderna
società per azioni quanto il moderno Stato sovrano, infatti, tendono a
comportarsi rispetto ai beni comuni esattamente come l’avido invitato al
buffet: essi mirano sistematicamente alla massima acquisizione quantitativa di
risorse a spese di altri. Questi soggetti, motivati rispettivamente
dall’interesse degli azionisti (e dei manager) e da quello nazionale (e dei
leader politici), pongono in essere comportamenti miopi ed egoistici, dalle
conseguenze catastrofiche per tutti, che vanno denunciati e combattuti,
nell’interesse della stessa conservazione di un pianeta vivo. Per farlo occorre
innanzitutto sfidare la spessa coltre ideologica che li sostiene.
Ugo Mattei, “Beni comuni: un
manifesto”, Roma; Bari: Laterza, 2011.
Un pubblico non può essere illuminato che lentamente. Una rivoluzione
potrà produrre la fine di un despotismo personale e d'una oppressione cupida e
dispotica; ma nuovi pregiudizi serviranno, come gli antichi, a dirigere
ciecamente la grande moltitudine che non pensa. Per questa illuminazione non
s'esige tuttavia altro che libertà e invero la più innocente di tutte le
libertà: quella di fare pubblicamente uso del proprio intelletto in tutti i
punti.
Immanuel Kant, “Che cos’è
l'illuminismo?”
I beni
comuni sono "a titolarità diffusa", appartengono a tutti e a nessuno,
nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese
esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà.
Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche
nell´interesse delle generazioni che verranno. In questo senso sono davvero
"patrimonio dell´umanità". Un bene come l´acqua non può essere
considerato una merce che deve produrre profitto. E la conoscenza non può
essere oggetto di "chiusure" proprietarie, ripetendo nel tempo nostro
la vicenda che, tra Seicento e Settecento, in Inghilterra portò a recintare le
terre coltivabili, sottraendole al godimento comune e affidandole a singoli
proprietari. […]. I beni comuni ci parlano dell´irriducibilità del mondo alla
logica del mercato, indicano un limite, illuminano un aspetto nuovo della
sostenibilità: che non è solo quella imposta dai rischi del consumo scriteriato
dei beni naturali (aria, acqua, ambiente), ma pure quella legata alla necessità
di contrastare la sottrazione alle persone delle opportunità offerte
dall´innovazione scientifica e tecnologica. […]. Il bene comune, di cui s’erano
perdute le tracce nella furia dei particolarismi e nell´estrema
individualizzazione degli interessi, s´incarna nella pluralità dei beni comuni.
Poiché questi beni si sottraggono alla logica dell´uso esclusivo e, al
contrario, rendono evidente che la loro caratteristica è quella della
condivisione, si manifesta con nuova forza il legame sociale, la possibilità di
iniziative collettive di cui Internet fornisce continue testimonianze. Il
futuro, cancellato dallo sguardo corto del breve periodo, ci è imposto dalla
necessità di garantire ai beni comuni la permanenza nel tempo. Ritorna, in
forme che lo rendono ineludibile, il tema dell´eguaglianza, perché i beni
comuni non tollerano le discriminazioni nell´accesso se non a prezzo di una
drammatica caduta in divisioni che disegnano davvero una società castale, dove
ritorna la cittadinanza censitaria, visto che beni fondamentali per la vita,
come la stessa salute, sono più o meno accessibili a seconda delle
disponibilità finanziarie di ciascuno. Intorno ai beni comuni si propone così
la questione della democrazia e della dotazione di diritti d´ogni persona.
Stefano Rodotà, “Se il mondo perde il senso del bene
comune”, Repubblica, 10 agosto 2010.
Io sono uno di quelli che si fanno
confutare con piacere, se non dice la verità, ma che con piacere confutano se
qualcun altro non dice il vero, e anzi mi lascio confutare con un piacere non
minore di quello che provo confutando. Infatti ritengo che essere confutato sia
un bene maggiore, tanto maggiore quanto lo è essere liberati dal male piuttosto
che liberarne altri. Perché io penso che per l’essere umano non ci sia un male
paragonabile a un’opinione falsa su ciò di cui ora verte il discorso.
Socrate
– Platone, “Gorgia”, 458a-b
Che
cosa sono i beni comuni e perché saranno la spina dorsale del Mondo Nuovo (o
almeno di quello non-totalitario)?
Ce
lo spiega Maria Chiara Pievatolo, filosofa politica dell’Università di Pisa.
“Secondo Vandana Shiva, il
tentativo di estensione globale del sistema dei brevetti e dei diritti di
proprietà intellettuale vigente negli Stati Uniti può essere visto come
l'estensione del colonialismo al mondo delle idee. Nel 1493 papa Alessandro VI,
nella sua funzione di arbitro fra spagnoli e portoghesi, assegnò ai Re
Cattolici, con la bolla Inter Caetera,
tutte le terre al di là di una linea di demarcazione posta cento miglia ad
ovest delle Azzorre. In questo modo l'usurpazione coloniale venne trasformata
in volere divino, sulla base del presupposto che le popolazioni delle terre
così arbitrariamente assegnate fossero riducibili alla stregua di natura priva
di ogni forma di umanità e libertà. La pretesa di appropriarsi del codice
genetico tramite brevetti e diritti di sfruttamento esclusivi si basa su una
logica analoga: tutto ciò che non è stato sottoposto al regime eurocentrico
della proprietà privata - per esempio perché è stato da sempre patrimonio
collettivo di una cultura tradizionale - può essere liberamente privatizzato.
Vandana Shiva chiama questa processo di recinzione dei territori comuni del
mondo delle idee biopirateria e si propone di combatterla per salvaguardare la
diversità culturale e biologica”.
Maria Chiara Pievatolo
“Secondo Lessig, ci sono buone
ragioni per mantenere alcuni tipi di beni in un regime di commons. Il carattere collettivo si
addice in modo paradigmatico alle entità del mondo delle idee. Lo scrisse molto
chiaramente Jefferson, in armonia con la tradizione dell'Illuminismo, in una
lettera a Isaac MacPherson del 13 agosto 1813: le idee sono di
proprietà esclusiva di chi le ha pensate solo finché non le rivela in pubblico.
Ma, una volta rese pubbliche, possono essere possedute da tutti, senza privare
di nulla il loro primo autore. «Chi riceve un idea da me, riceve egli stesso istruzione senza
diminuire la mia; come chi accende il suo lume al mio riceve luce senza
oscurare me.» Per questo, le idee devono diffondersi liberamente
nel mondo, per istruire e migliorare gli uomini, e le invenzioni non possono
essere soggette a proprietà privata”.
Maria Chiara Pievatolo
“Gli economisti, sui commons,
sono riusciti a comporre una tragedia. Nel 1968 Garret Hardin scrisse che una
risorsa che può essere usata liberamente da tutti ha come effetto collaterale
che i costi derivanti dall'uso di ciascuno si scaricheranno su tutti gli altri.
Se posso portare le mie bestie al pascolo sul prato comune, rispetto alla mia
utilità individuale è per me razionale cercare di sfruttarlo il più possibile,
perché è gratis; ma in questo modo esaurisco il pascolo stesso, a danno di
tutti gli altri. A chi viaggia piace trovare la strada libera; ma se tutti la
usano contemporaneamente, perché è gratis, viaggiare diventa impossibile. Ecco
la tragedia dei commons: i beni comuni, in quanto vengono usati in comune,
tendono a venir sfruttati fino all'esaurimento. Tendono, cioè, se rimangono
comuni, a cessare di essere beni. Solo gli autori di utopie possono rimpiangere
i commons, immaginandoli come verdeggianti. Per gli
economisti, le recinzioni sono una necessità inevitabile. […]. Una strada o un
pascolo sono commons competitivi, perché un loro uso incontrollato li deteriora
e li impoverisce. Non bisogna fare l'errore di confondere i pascoli di erba con
i pascoli delle idee: le idee, a differenza dell'erba, crescono se vengono
condivise, e il loro valore aumenta, perché la condivisione dà loro la
possibilità di svilupparsi e di migliorarsi. Infine, niente ci autorizza a
credere, in generale, che se un bene è pubblico sia impossibile vincolarlo a
regole d'uso”.
Maria
Chiara Pievatolo,
Il pirata di Koenigsberg, "Linux Magazine", 13 novembre
2004
“Avevo commesso l'errore di dare
per scontato, nello spirito del capitalismo, che l'unico motore che ci spinge a
imparare e a creare sia il desiderio di guadagno. Platone non ragionava così:
per gli antichi, le cose veramente importanti erano quelle che si fanno per
scelta, liberamente e gratuitamente, al di là della necessità economica. Per
loro, chi si dedicava solo ai suoi
interessi economici, pur avendo già quanto bastava per vivere, era
semplicemente un idiotes.
Idiotes,
in greco, significa "privato", ma vuol dire anche
"deficiente": una persona, cioè, cui manca qualcosa di importante.
Per gli antichi, in altre parole, chi
continuava a lavorare per fare soldi, senza averne bisogno, era semplicemente
uno scemo - uno sprovveduto che non sapeva che cosa fare della propria libertà.
Gli antichi si sarebbero, piuttosto, stupiti del nostro stupore: gli hacker
usano, da uomini liberi, il proprio tempo per discutere e creare cose che hanno
valore di per se stesse. Perché
vivere come schiavi, senza esserne obbligati? Perché credere che chi è
costretto dalla necessità economica produca cose migliori di chi lo fa
liberamente? Nel mondo antico, la libertà del sapere era un ideale
aristocratico, riservato a pochissimi: ma molte rivoluzioni efficaci derivano,
storicamente, dalla democratizzazione di ideali aristocratici. Gandhi riuscì a
convincere milioni di indiani a praticare la non-violenza, per liberarsi dagli
inglesi, anche perché la non-violenza era, in India, un ideale aristocratico
originariamente riservato alla casta superiore, che lasciava ad altri l'onere
di sporcarsi le mani col sangue”.
“Kant si chiedeva se era
inevitabile privatizzare le idee per renderle pubbliche nei libri. Come Richard
Stallman, egli distingueva fra il libro come oggetto fisico e i pensieri in
esso contenuti. Il libro come oggetto fisico diventa proprietà di chi lo
compra. Un proprietario, se vuole riprodurre quello che ha comprato, lo può
fare legittimamente. Secondo Kant, quanto si dice per i libri vale anche per
altri oggetti: immagini, spartiti musicali, opere d'arte. Una volta che me li
sono comprati, posso riprodurli con i miei mezzi, regalarli agli amici o anche
rivenderli. E' divertente osservare che Kant, filosofo prussiano noto per il
suo moralismo, sarebbe oggi considerato un paladino della pirateria”.
“Nel caso del software
libero, possiamo essere in
competizione nell'offrire i nostri servizi, e nello stesso tempo collaborare al
suo sviluppo. I servizi che offriamo, essendo legati al software libero, non
sarebbero possibili se non partecipassimo al suo sviluppo cooperativo. Anche in
questo caso, è la cooperazione a rendere possibile la competizione. Ogni
quattro anni, nella Grecia antica, si sospendevano le guerre, ma non per fare
la pace, bensì per celebrare un'altra competizione: alcuni ambivano all'onore
di vincere le gare di Olimpia e quasi tutti desideravano assistervi. Ma questa
competizione, che interessava a tutti, poteva essere soltanto l'esito di una
cooperazione veramente straordinaria”.
Maria
Chiara Pievatolo, “Cooperare, a Olimpia”
“Perfino in Italia esiste una
tradizione di commons, nota a chi ama la montagna o il diritto: la proprietà
collettiva delle Regole Trentine, che governano l'uso della roba de tuti. In
tutti questi casi i proprietari non sono uno o più individui determinati,
indicati con nome e cognome, ma gruppi aperti a chiunque soddisfi i requisiti
per farne parte”.
“Per il diritto romano, proprio
come per Richard Stallman, la proprietà privata esclusiva si giustificava solo
per gli oggetti materiali, perché – a differenza delle idee - non potevano
essere goduti in comune. In più, i giuristi romani riconoscevano varie forme di
proprietà non esclusiva, su oggetti di diversi tipi.
Le res nullius sono le cose che non appartengono a nessuno,
ma solo perché nessuno se le è ancora prese. Le res communes sono invece cose comuni perché, per la loro
natura, non possono essere privatizzate: i giuristi romani adducevano come
esempi l'oceano e l'atmosfera. Le res
publicae sono cose che appartengono al pubblico e vengono tenute
aperte al pubblico con il diritto – per esempio strade, porti, fiumi, golene,
ponti. Ancor oggi, il carattere pubblico delle strade viene giustificato con
l'argomento che un sistema di vie di comunicazione interamente privatizzato
obbligherebbe a pagare un pedaggio ad ogni passo, strozzando non solo il
commercio, ma la vita stessa di una società. Il diritto romano riconosceva
inoltre delle res universitatis,
che appartenevano a comunità più limitate – come i collettivi di studenti e
docenti che fondarono, in epoca medioevale, le università – e delle res divini iuris, le cose che non
potevano venir possedute da nessun essere umano perché sacre2.
Fonti
Mattei, Ugo, Beni comuni: un
manifesto, Roma; Bari: Laterza, 2011.
Nessun commento:
Posta un commento