Salman Rushdie in dialogo
con Terry Gilliam:
SR: “Ci fu un tempo in cui
anch’io avevo i capelli…non ero mai stato negli Stati Uniti…arrivai a San
Francisco con capelli lunghi e baffi alla Zapata…c’era un cartello: “pochi
minuti alla dogana è un piccolo prezzo da pagare per salvaguardare i vostri
figli dalla minaccia delle droghe”. Un tizio, un Americano DOC, si gira verso
di me e mi dice: “Mi sa che te la vedrai brutta”. E aveva ragione. Mi fecero a
pezzi, mi fecero spogliare e m’ispezionarono ovunque. Così arrivai in America,
tremante. Un’anziana donnetta che attendeva l’autobus vicino a me che mi vide
tremare e mi chiese: “che ti è successo, poverino?”. Mi sfogai con lei. E lei
fece questo gesto solenne, con la mano sul cuore, scusandosi formalmente a nome
degli Stati Uniti. E, ti dirò, sistemò tutto. Potevo passare oltre e godermi
l’America”.
TG: “È vero, è questa la
grande cosa dell’America: gli Americani”.
SG: “Sì, prima t’ispezionano
il retto e poi si scusano di averlo fatto”.
[Entrambi ridono per quasi
un minuto].
È terribile pensare che il
mondo potrebbe un giorno essere pieno di nient'altro che di piccoli denti
d'ingranaggio, di piccoli uomini aggrappati a piccole occupazioni che ne
mettono in moto altre più grandi... questo affanno burocratico porta alla
disperazione... e il mondo un giorno potrebbe non conoscere nient'altro che
uomini di questo stampo: è in un'evoluzione di tal fatta che noi ci ritroviamo
già invischiati, e il grande problema non verte su come sia possibile
promuoverla o accelerarla, ma sui mezzi - viceversa - da opporre a questo
meccanismo, al fine di serbare una parte di umanità libera da questo
smembramento dell'anima, da questo dominio assoluto di una concezione
burocratica della vita.
Max Weber, 1909
Ma il destino ha voluto che
il mantello si trasformasse in una gabbia di durissimo acciaio…. da cui
lo spirito è fuggito. In ogni caso il capitalismo vittorioso non ha più bisogno
di questo sostegno, da quando poggia su una base meccanica… e la ricerca del
profitto si è spogliata del suo senso etico-religioso, e oggi tende ad
associarsi con passioni puramente agonali, competitive… Nessuno sa ancora chi
in futuro abiterà in quella gabbia, e se alla fine di tale sviluppo immane ci
saranno profezie nuovissime …o se invece avrà luogo una sorta di pietrificazione
meccanizzata, adorna di una specie di importanza spasmodicamente
autoattribuitesi. Poiché, invero, per gli "ultimi uomini" dello
svolgimento di questa civiltà potrebbero diventare vere le parole:
"Specialisti senza spirito, edonisti senza cuore; delle nullità che si
immaginano di essere ascesi a un grado di umanità mai prima raggiunto".
Max Weber, “L'etica
protestante e lo spirito del capitalismo”
La burocrazia nel suo pieno
sviluppo si
trova anche, in senso specifico, sotto il principio della condotta sine ira
ac studio. La sua specifica caratteristica, gradita al capitalismo, ne
promuove lo sviluppo in modo tanto più perfetto quanto più essa si
“disumanizza” – e ciò vuol dire che consegue la sua struttura propria, ad essa
attribuita come virtù, che comporta l’esclusione dell’amore e dell’odio, di
tutti gli elementi affettivi puramente personali, in genera irrazionali e non
calcolabili, nell’adempimento degli affari di ufficio.
Max Weber, "Economia e Società"
L’America ti bombarda di
sogni e ti priva dei tuoi.
Terry Gilliam
BRIAN: No. No, no, vi
prego. Vi prego, vi prego. Ascoltate. Avrei una o due cose da dire, ascoltate.
SEGUACI: Diccele! Diccele
tutte e due!
BRIAN: Sentite, voi avete
capito male. Non è necessario che seguiate me. Non è necessario che seguiate
nessuno al mondo,
non serve. Dovete pensare
con la vostra testa. Siete tutti degli individui!
SEGUACI (all’unisono):
Sì, siamo tutti degli individui!
BRIAN: E ognuno di voi è
diverso.
SEGUACI (all’unisono): Sì,
ognuno di noi è diverso!
DENNIS: Io no.
ARTHUR: Shhhh!
BRIAN: Dovete tutti
imparare a cavarvela da soli.
SEGUACI (all’unisono): Sì!
Dobbiamo imparare a cavarcela da soli!
BRIAN: Esatto!
SEGUACI (all’unisono):
Dicci di più!
BRIAN: No! Ecco il punto:
non fatevi dire mai da nessuno che cosa fare, altrimenti...
Monty Python, “Brian di
Nazareth”
George Hanson: Una volta questo era
proprio un gran bel paese, e non riesco a capire quello che gli è successo.
Billy: È che tutti hanno paura
ecco cos'è successo. Noi non possiamo neanche andare in uno di quegli
alberghetti da due soldi, voglio dire proprio di quelli da due soldi capisci?
Credono che si vada a scannarli o qualcosa, hanno paura.
George Hanson: Si ma non hanno paura di
voi, hanno paura di quello che voi rappresentate.
Billy: Ma quando... Per loro noi
siamo solo della gente che ha bisogno di tagliarsi i capelli.
George Hanson: Ah no... Quello che voi
rappresentate per loro, è la libertà.
Billy: Che c'è di male nella
libertà? La libertà è tutto.
George Hanson: Ah sì, è vero: la libertà
è tutto, d'accordo... Ma parlare di libertà ed essere liberi sono due cose
diverse. Voglio dire che è difficile essere liberi quando ti comprano e ti
vendono al mercato. E bada, non dire mai a nessuno che non è libero,
perché allora quello si darà un gran da fare a uccidere, a massacrare, per
dimostrarti che lo è. Ah, certo: ti parlano, e ti parlano, e ti
riparlano di questa famosa libertà individuale; ma quando vedono un
individuo veramente libero, allora hanno paura.
Billy: Eh la paura però non li
fa scappare!
George Hanson: No, ma li rende
pericolosi.
“Easy Rider”
Un aneddoto ricorrente
nelle interviste di Terry Gilliam è il momento che ha definito la sua
esistenza, negli anni Sessanta, quando si fece crescere i capelli lunghi e capì
che vivere negli Stati Uniti poteva essere un incubo [“ah, è così che
dev’essere essere un ragazzo nero o messicano a Los Angeles”]. I poliziotti
continuavano a farlo accostare per controllare i suoi documenti, una donna
anziana lo insultò, i camionisti gli gridavano “sei un ragazzo o una ragazza?”,
un gruppo di bulli lo scacciò da un locale in malo modo [“Chi ti credi di
essere, Gesù? Forse hanno anticipato la Pasqua quest’anno?”]. Diventò sempre
più arrabbiato per la costante persecuzione ma rimase anche scioccato dal
risentimento e dall’ostilità contro tutto ciò che non era conforme, contro la
libertà di espressione, che era vista come un’aberrazione [“You just found this
outrageous aggression in America that was flailing out at anything that looked
different”]. Quest’esperienza rafforzò in lui la determinazione a resistere
ad un sistema minaccioso, monolitico e repressivo, alla catalogazione degli
esseri umani, ad un’atmosfera soffocante che faceva apparire l’intero universo
come nella migliore delle ipotesi indifferente e nella peggiore ostile ed
incontrollabile. I classici ribelli donchisciotteschi dei suoi film
sono il frutto di questo immaginario, i suoi film sono un ammonimento [“My
films are messages in bottles for America”] e gli spettatori devono pensare
[“They had just paid their money and they had to go in and think!”].
Ho studiato Max Weber
all’università e, come spesso succede, l’ho capito solo dopo la laurea. Mi
ricordo che ad un esame, estenuato dalla tensione, dalle poche ore di sonno e
da una docente che puniva insensatamente chi non era riuscito ad andare alle
sue lezioni, scoppiai a piangere per la sadica insistenza con cui mi chiedeva
di Max Weber, ben sapendo che non l’avevo preparato come si deve (perché lo
trovavo banale ed inutile). Insomma, non avevo un buon ricordo di lui.
Da studente mi rimasero
però in mente varie idee associate a lui: la moglie straordinaria che lo aiutò
a diventare la celebrità che fu, l’etica protestante e lo spirito del
capitalismo, le gabbie d’acciaio della modernità, gli specialisti senza spirito
ed i gaudenti senza cuore (un perfetto ritratto del mondo attuale, laddove ci
sono le leve del potere). La cosa sorprendente è che mi rimase impressa
l’immagine di un sociologo dell’establishment, quando invece il suo pensiero
era molto più rivoluzionario di quello di Marx. Quel che Marx non aveva
capito per Weber era evidentissimo: il progresso esteriore non emancipa ma
schiavizza. Per questo il marxismo ha avviato molti al totalitarismo ed una
cosa come il weberismo non esiste.
L’insegnamento di Weber è
che il capitalismo è diventato una vocazione religiosa, un pensiero unico che
ha plasmato l’immaginario collettivo spazzando via ogni alternativa, favorito
dall’improponibilità del paradigma accentratore marxista. Ma entrambi sono
disumani perché sono materialisti, utilitaristici, gerarchici, irrazionalmente
iperrazionali, maniacalmente fissati con il dogma del lavoro indefesso,
dell’abnegazione, della dedizione al datore di lavoro, del sacrificio della
propria esistenza sull’altare della produzione, crescita, conquista, lotta,
sopraffazione.
Il marxismo è una religione
laica materialista ed apocalittica che si definisce scientifica senza esserlo,
s’indirizza verso una Battaglia Finale tra le forze del bene e quelle del male,
che sarà seguita da un’utopia. Il conflitto è inevitabile per via della dialettica
hegeliana di tesi, antitesi e sintesi. Il materialismo dialettico è lo scontro
violento di forze tenacemente contrapposte e quindi giustifica e favorisce il
conflitto sociale, considerandolo desiderabile. Un’utopia in cui tutti
ottengono quello di cui hanno bisogno ma non necessariamente quel che vogliono
e non c’è alcuno spazio per la spiritualità. Prima che questa utopia si
realizzi serve però una dittatura, la dittatura del proletariato in cui tutti
lavorano, zitti e muti, in vista di un mondo migliore eternamente
prorogato.
Il professor Carroll
Quigley (Princeton, Harvard, Georgetown, Smithsonian), con il suo “Tragedy and
Hope, A History of the World in Our Time” (1964), ci spiega invece cos’è il
capitalismo. I padroni del capitale mirano a creare un sistema mondiale di
controllo finanziario in mani private capace di dominare la politica di
ciascuna nazione e l’economia del mondo. Un sistema neo-feudale che ha i suoi
centri di potere nelle banche centrali che operano di concerto, ma
segretamente. Il progetto prevede speculazioni massicce, dirigismo
dell’economia nazionale a vantaggio degli oligopoli, cooptazione di politici
ambiziosi, crisi generate che rimettano in linea le masse.
Max Weber, un secolo fa,
aveva capito dove tutto questo ci avrebbe condotti. Una disumanizzante
razionalizzazione, formalizzazione, meccanizzazione, spersonalizzazione,
burocratizzazione e monetizzazione di ogni sfera dell’esistenza umana e non
solo, totalmente incompatibile con la caritas, la compassione,
l’empatia, la coscienza, la morale. L’obiettivo primario è quello di una
fredda, dozzinale, prosaica eccellenza materiale. Il duro lavoro è una virtù
e quindi un obbligo morale, non c’è alcuna qualità in un’opera che non abbia
richiesto uno sforzo: più ragguardevole lo sforzo, maggiore la qualità.
Naturalmente tutto questo puritanesimo ascetico vale esclusivamente per le
masse: chi sta in cima alla piramide può indulgere in tutti gli stravizi e
le condotte parassitarie che più gli aggradano.
Ma, alla fine, tutti,
quelli in alto come quelli in basso, sono accumulati dalla medesima
sindrome.
Una cronica insicurezza viene tenuta a bada accumulando
beni di proprietà che dovrebbero, nelle loro intenzioni, comprovare
l’importanza, lo status (prestigio), il potere del proprietario. Gentilezza,
affetto, premura, sollecitudine, generosità, intuito personale, coscienza,
indipendenza, spiritualità: tutte virtù che, in seno alla società
capitalista, sono diventate dei vizi. Ci si può permettere di essere virtuosi
in famiglia, ma sul lavoro le qualità richieste sono altre: determinazione,
egoismo, impersonalità, durezza, brutalità, conformismo, ambizione insaziabile.
In questo modo la società occidentale è finita su un binario morto e, lungi dal
concentrarsi su un razionale perseguimento della soddisfazione dei bisogni
umani, si sforza, irrazionalmente ed auto-distruttivamente, di realizzare le
ambizioni materiali. Nel farlo, ha dato forma ad un apparato tecno-burocratico
che, come osserva Weber, “per via del suo carattere impersonale…può prestarsi
alle finalità di chunque sappia come assumerne il controllo”. È la
banalità del male su scala collettiva, totale, necrofila.
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