martedì 10 gennaio 2012

Ma chi ce lo fa fare? Terry Gilliam, Max Weber, Marx e la fuga dall'incubo




Salman Rushdie in dialogo con Terry Gilliam:
SR: “Ci fu un tempo in cui anch’io avevo i capelli…non ero mai stato negli Stati Uniti…arrivai a San Francisco con capelli lunghi e baffi alla Zapata…c’era un cartello: “pochi minuti alla dogana è un piccolo prezzo da pagare per salvaguardare i vostri figli dalla minaccia delle droghe”. Un tizio, un Americano DOC, si gira verso di me e mi dice: “Mi sa che te la vedrai brutta”. E aveva ragione. Mi fecero a pezzi, mi fecero spogliare e m’ispezionarono ovunque. Così arrivai in America, tremante. Un’anziana donnetta che attendeva l’autobus vicino a me che mi vide tremare e mi chiese: “che ti è successo, poverino?”. Mi sfogai con lei. E lei fece questo gesto solenne, con la mano sul cuore, scusandosi formalmente a nome degli Stati Uniti. E, ti dirò, sistemò tutto. Potevo passare oltre e godermi l’America”.
TG: “È vero, è questa la grande cosa dell’America: gli Americani”.
SG: “Sì, prima t’ispezionano il retto e poi si scusano di averlo fatto”.
[Entrambi ridono per quasi un minuto].

È terribile pensare che il mondo potrebbe un giorno essere pieno di nient'altro che di piccoli denti d'ingranaggio, di piccoli uomini aggrappati a piccole occupazioni che ne mettono in moto altre più grandi... questo affanno burocratico porta alla disperazione... e il mondo un giorno potrebbe non conoscere nient'altro che uomini di questo stampo: è in un'evoluzione di tal fatta che noi ci ritroviamo già invischiati, e il grande problema non verte su come sia possibile promuoverla o accelerarla, ma sui mezzi - viceversa - da opporre a questo meccanismo, al fine di serbare una parte di umanità libera da questo smembramento dell'anima, da questo dominio assoluto di una concezione burocratica della vita.
Max Weber, 1909

Ma il destino ha voluto che il mantello si trasformasse in una gabbia di durissimo acciaio….  da cui lo spirito è fuggito. In ogni caso il capitalismo vittorioso non ha più bisogno di questo sostegno, da quando poggia su una base meccanica… e la ricerca del profitto si è spogliata del suo senso etico-religioso, e oggi tende ad associarsi con passioni puramente agonali, competitive… Nessuno sa ancora chi in futuro abiterà in quella gabbia, e se alla fine di tale sviluppo immane ci saranno profezie nuovissime …o se invece avrà luogo una sorta di pietrificazione meccanizzata, adorna di una specie di importanza spasmodicamente autoattribuitesi. Poiché, invero, per gli "ultimi uomini" dello svolgimento di questa civiltà potrebbero diventare vere le parole: "Specialisti senza spirito, edonisti senza cuore; delle nullità che si immaginano di essere ascesi a un grado di umanità mai prima raggiunto". 
Max Weber, “L'etica protestante e lo spirito del capitalismo”

La burocrazia nel suo pieno sviluppo si trova anche, in senso specifico, sotto il principio della condotta sine ira ac studio. La sua specifica caratteristica, gradita al capitalismo, ne promuove lo sviluppo in modo tanto più perfetto quanto più essa si “disumanizza” – e ciò vuol dire che consegue la sua struttura propria, ad essa attribuita come virtù, che comporta l’esclusione dell’amore e dell’odio, di tutti gli elementi affettivi puramente personali, in genera irrazionali e non calcolabili, nell’adempimento degli affari di ufficio.
Max Weber, "Economia e Società"

L’America ti bombarda di sogni e ti priva dei tuoi.
Terry Gilliam

BRIAN: No. No, no, vi prego. Vi prego, vi prego. Ascoltate. Avrei una o due cose da dire, ascoltate.
SEGUACI: Diccele! Diccele tutte e due!
BRIAN: Sentite, voi avete capito male. Non è necessario che seguiate me. Non è necessario che seguiate nessuno al mondo,
non serve. Dovete pensare con la vostra testa. Siete tutti degli individui!
SEGUACI (all’unisono): Sì, siamo tutti degli individui!
BRIAN: E ognuno di voi è diverso.
SEGUACI (all’unisono): Sì, ognuno di noi è diverso!
DENNIS: Io no.
ARTHUR: Shhhh!
BRIAN: Dovete tutti imparare a cavarvela da soli.
SEGUACI (all’unisono): Sì! Dobbiamo imparare a cavarcela da soli!
BRIAN: Esatto!
SEGUACI (all’unisono): Dicci di più!
BRIAN: No! Ecco il punto: non fatevi dire mai da nessuno che cosa fare, altrimenti...
Monty Python, “Brian di Nazareth”

George Hanson: Una volta questo era proprio un gran bel paese, e non riesco a capire quello che gli è successo.
Billy: È che tutti hanno paura ecco cos'è successo. Noi non possiamo neanche andare in uno di quegli alberghetti da due soldi, voglio dire proprio di quelli da due soldi capisci? Credono che si vada a scannarli o qualcosa, hanno paura.
George Hanson: Si ma non hanno paura di voi, hanno paura di quello che voi rappresentate.
Billy: Ma quando... Per loro noi siamo solo della gente che ha bisogno di tagliarsi i capelli.
George Hanson: Ah no... Quello che voi rappresentate per loro, è la libertà.
Billy: Che c'è di male nella libertà? La libertà è tutto.
George Hanson: Ah sì, è vero: la libertà è tutto, d'accordo... Ma parlare di libertà ed essere liberi sono due cose diverse. Voglio dire che è difficile essere liberi quando ti comprano e ti vendono al mercato. E bada, non dire mai a nessuno che non è libero, perché allora quello si darà un gran da fare a uccidere, a massacrare, per dimostrarti che lo è. Ah, certo: ti parlano, e ti parlano, e ti riparlano di questa famosa libertà individuale; ma quando vedono un individuo veramente libero, allora hanno paura.
Billy: Eh la paura però non li fa scappare!
George Hanson: No, ma li rende pericolosi.
“Easy Rider”

Un aneddoto ricorrente nelle interviste di Terry Gilliam è il momento che ha definito la sua esistenza, negli anni Sessanta, quando si fece crescere i capelli lunghi e capì che vivere negli Stati Uniti poteva essere un incubo [“ah, è così che dev’essere essere un ragazzo nero o messicano a Los Angeles”]. I poliziotti continuavano a farlo accostare per controllare i suoi documenti, una donna anziana lo insultò, i camionisti gli gridavano “sei un ragazzo o una ragazza?”, un gruppo di bulli lo scacciò da un locale in malo modo [“Chi ti credi di essere, Gesù? Forse hanno anticipato la Pasqua quest’anno?”]. Diventò sempre più arrabbiato per la costante persecuzione ma rimase anche scioccato dal risentimento e dall’ostilità contro tutto ciò che non era conforme, contro la libertà di espressione, che era vista come un’aberrazione [“You just found this outrageous aggression in America that was flailing out at anything that looked different”]. Quest’esperienza rafforzò in lui la determinazione a resistere ad un sistema minaccioso, monolitico e repressivo, alla catalogazione degli esseri umani, ad un’atmosfera soffocante che faceva apparire l’intero universo come nella migliore delle ipotesi indifferente e nella peggiore ostile ed incontrollabile. I classici ribelli donchisciotteschi dei suoi film sono il frutto di questo immaginario, i suoi film sono un ammonimento [“My films are messages in bottles for America”] e gli spettatori devono pensare [“They had just paid their money and they had to go in and think!”]. 

Ho studiato Max Weber all’università e, come spesso succede, l’ho capito solo dopo la laurea. Mi ricordo che ad un esame, estenuato dalla tensione, dalle poche ore di sonno e da una docente che puniva insensatamente chi non era riuscito ad andare alle sue lezioni, scoppiai a piangere per la sadica insistenza con cui mi chiedeva di Max Weber, ben sapendo che non l’avevo preparato come si deve (perché lo trovavo banale ed inutile). Insomma, non avevo un buon ricordo di lui.
Da studente mi rimasero però in mente varie idee associate a lui: la moglie straordinaria che lo aiutò a diventare la celebrità che fu, l’etica protestante e lo spirito del capitalismo, le gabbie d’acciaio della modernità, gli specialisti senza spirito ed i gaudenti senza cuore (un perfetto ritratto del mondo attuale, laddove ci sono le leve del potere). La cosa sorprendente è che mi rimase impressa l’immagine di un sociologo dell’establishment, quando invece il suo pensiero era molto più rivoluzionario di quello di Marx. Quel che Marx non aveva capito per Weber era evidentissimo: il progresso esteriore non emancipa ma schiavizza. Per questo il marxismo ha avviato molti al totalitarismo ed una cosa come il weberismo non esiste.
L’insegnamento di Weber è che il capitalismo è diventato una vocazione religiosa, un pensiero unico che ha plasmato l’immaginario collettivo spazzando via ogni alternativa, favorito dall’improponibilità del paradigma accentratore marxista. Ma entrambi sono disumani perché sono materialisti, utilitaristici, gerarchici, irrazionalmente iperrazionali, maniacalmente fissati con il dogma del lavoro indefesso, dell’abnegazione, della dedizione al datore di lavoro, del sacrificio della propria esistenza sull’altare della produzione, crescita, conquista, lotta, sopraffazione.
Il marxismo è una religione laica materialista ed apocalittica che si definisce scientifica senza esserlo, s’indirizza verso una Battaglia Finale tra le forze del bene e quelle del male, che sarà seguita da un’utopia. Il conflitto è inevitabile per via della dialettica hegeliana di tesi, antitesi e sintesi. Il materialismo dialettico è lo scontro violento di forze tenacemente contrapposte e quindi giustifica e favorisce il conflitto sociale, considerandolo desiderabile. Un’utopia in cui tutti ottengono quello di cui hanno bisogno ma non necessariamente quel che vogliono e non c’è alcuno spazio per la spiritualità. Prima che questa utopia si realizzi serve però una dittatura, la dittatura del proletariato in cui tutti lavorano, zitti e muti, in vista di un mondo migliore eternamente prorogato.
Il professor Carroll Quigley (Princeton, Harvard, Georgetown, Smithsonian), con il suo “Tragedy and Hope, A History of the World in Our Time” (1964), ci spiega invece cos’è il capitalismo. I padroni del capitale mirano a creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private capace di dominare la politica di ciascuna nazione e l’economia del mondo. Un sistema neo-feudale che ha i suoi centri di potere nelle banche centrali che operano di concerto, ma segretamente. Il progetto prevede speculazioni massicce, dirigismo dell’economia nazionale a vantaggio degli oligopoli, cooptazione di politici ambiziosi, crisi generate che rimettano in linea le masse.
Max Weber, un secolo fa, aveva capito dove tutto questo ci avrebbe condotti. Una disumanizzante razionalizzazione, formalizzazione, meccanizzazione, spersonalizzazione, burocratizzazione e monetizzazione di ogni sfera dell’esistenza umana e non solo, totalmente incompatibile con la caritas, la compassione, l’empatia, la coscienza, la morale. L’obiettivo primario è quello di una fredda, dozzinale, prosaica eccellenza materiale. Il duro lavoro è una virtù e quindi un obbligo morale, non c’è alcuna qualità in un’opera che non abbia richiesto uno sforzo: più ragguardevole lo sforzo, maggiore la qualità. Naturalmente tutto questo puritanesimo ascetico vale esclusivamente per le masse: chi sta in cima alla piramide può indulgere in tutti gli stravizi e le condotte parassitarie che più gli aggradano.
Ma, alla fine, tutti, quelli in alto come quelli in basso, sono accumulati dalla medesima sindrome.
Una cronica insicurezza viene tenuta a bada accumulando beni di proprietà che dovrebbero, nelle loro intenzioni, comprovare l’importanza, lo status (prestigio), il potere del proprietario. Gentilezza, affetto, premura, sollecitudine, generosità, intuito personale, coscienza, indipendenza, spiritualità: tutte virtù che, in seno alla società capitalista, sono diventate dei vizi. Ci si può permettere di essere virtuosi in famiglia, ma sul lavoro le qualità richieste sono altre: determinazione, egoismo, impersonalità, durezza, brutalità, conformismo, ambizione insaziabile. In questo modo la società occidentale è finita su un binario morto e, lungi dal concentrarsi su un razionale perseguimento della soddisfazione dei bisogni umani, si sforza, irrazionalmente ed auto-distruttivamente, di realizzare le ambizioni materiali. Nel farlo, ha dato forma ad un apparato tecno-burocratico che, come osserva Weber, “per via del suo carattere impersonale…può prestarsi alle finalità di chunque sappia come assumerne il controllo”. È la banalità del male su scala collettiva, totale, necrofila.

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