lunedì 2 gennaio 2012

Janteloven - siamo mughi, potremmo essere sequoie




Janteloven (la “Legge di Jante”) dal nome di una cittadina rurale immaginaria che compare in un racconto dello scrittore danese Aksel Sandemose del 1933. Oggi la Janteloven si riferisce alla tendenza, rilevata in Scandinavia, ma già presente nella democrazia ateniese e nelle assemblee vichinghe, e probabilmente generalizzabile all’intero arco alpino – pur con mille eccezioni –, a non pensare in termini di libertà personale ma di libertà di gruppo: della famiglia, delle comunità, delle etnie; non in termini di diritti umani, ma di diritti collettivi di autodeterminazione. Non in termini di confronto aperto, ma di comunione spirituale che possa rendere superflua la mediazione. La suddetta legge si può applicare a tutte quelle società agrarie che si fondano sull’assolutizzazione dei principi di equità, stabilità ed uniformità e che per questo sono funestate da invidie, gelosie e livelli soffocanti di controllo sociale, che escludono ogni istanza pluralista e liberale. Queste sono le 10 regole della legge di Jante, che sono imposte e fatte rispettare dalle stesse vittime della loro tirannia, cioè i membri della comunità:

Non penserai mai di essere speciale;
Non penserai mai di avere la nostra stessa dignità;
Non penserai mai di essere più sveglio di noi;
Non immaginarti migliore di noi;
Non penserai mai di sapere più cose di noi;
Non penserai mai di essere più importante di noi;
Non penserai mai di distinguerti per bravura in qualche cosa;
Non riderai di noi;
Non penserai che qualcuno si preoccupi per te;
Non penserai che ci puoi insegnare qualcosa.

Come si vede la prima preoccupazione è quella di mantenere un forte spirito comunitario, a qualunque costo. Anche a costo di sacrificare l’originalità, la varietà, l’ambizione e l’iniziativa personale, in breve, il benessere. L’uguaglianza delle opportunità perde di senso, non esistendo alcun criterio meritocratico. Non è forse un caso che due società geograficamente molto distanti come la Svezia ed il Giappone abbiano analoghi sistemi di coercizione (förbudsstat in svedese) e corporativismo sociale, una simile esaltazione dell’armonia e mortificazione della tradizione liberale ed un presente ancora in parte segnato dalla medesima retorica delle tradizionali virtù contadine (nōhonshugi). In Svezia, come nel resto della Scandinavia, en god uppväxtmiljö, cioè un ambiente adatto alla crescita dei bambini, dev’essere armonioso, privo di conflitti e dispute. L’egalitarismo (jämlikhet) e la giusta misura (lagom) sono i principi trainanti di una società che esteriormente appare smaccatamente moderna, ma il cui cuore batte per un romantico comunitarismo organicistico à la Tönnies. In svedese lagom, come in lagom är bäst, vale a dire “lagom è il meglio”, indica il giusto mezzo, ciò che è appropriato quantitativamente, qualitativamente e moralmente – un concetto presente anche nelle altre lingue scandinave. L’accezione non è però quella della giusta misura, o almeno non laddove conta. Pare che il termine derivi dall’espressione ga laget om, che significa “fare un giro (di birra)”. Essere lagom significa essere uno del gruppo, uno che vale né più né meno degli altri. In Svezia, tradizionalmente (ora le cose stanno cambiando), quando si beve con gli amici da un recipiente comune nessuno può bere più degli altri o meno degli altri, men che meno rifiutarsi di bere perché non ne ha voglia: chi viola questa norma non scritta infrange lo spirito comunitario. Questo dettaglio rivela delle insospettabili analogie con la cultura collettivista giapponese. In Giappone se si esce a cena con amici bisogna bere e mangiare quel che prende il gruppo. Chi non lo fa è considerato estremamente maleducato, perché prende pubblicamente le distanze dal gruppo con cui si accompagna. La società giapponese non è per nulla egalitaria, essendo organizzata in senso gerarchico-verticale, ma finge di esserlo. Analogamente, il principio d’ordine della società svedese, come di quelle alpine, è l’equità (rettferd) che si realizza nell’esigenza di evitare che qualcuno sorpassi gli altri per status o proprietà. Ovviamente ciò è virtualmente impossibile. In Giappone si riscontra la stessa logica nel famoso detto deru kugi wa utareru, “il chiodo che sporge va ribattuto”.  
L’origine di questa ideologia non è difficile da individuare. È la teoria del gioco a somma zero: alla fine della partita la vincita di un giocatore equivale alla perdita dello sconfitto. Non v’è alcun afflusso di beni dall’esterno, se non per grazia divina, né una parte viene distrutta. Nella realtà questo può solo accadere in un’economia chiusa, come quella dei paesi contadini appunto. Il mio successo deve per forza essere ottenuto a spese del resto della comunità, il che è inaccettabile in termini di coesione sociale. Per questo ancora oggi in Trentino può accadere che un paesano di successo sia costretto a nascondere il miglioramento delle sue condizioni di vita, per evitare ritorsioni collettive. Questo significa anche che la competizione è intrinsecamente immorale, perché crea vincitori e vinti, cioè disarmonici squilibri sociali ed infelicità. Inoltre non è lecito far trasparire la propria felicità. In una società fatalistica essere fortunati attira il rischio di una qualche calamità, magari invocata da chi nutre invidia. Essere felici significa sottolineare l’infelicità altrui e quindi generare ulteriore invidia.
In Giappone si è risolto questo problema tramite l’usanza di elogiare gli altri e biasimare se stessi. Una falsa umiltà di rara ipocrisia ma utilissima in una società conformista e prepotentemente gerarchica. La legatura dei piedi o il bonsai sono efficaci metafore di queste restrizioni auto-imposte per non risaltare troppo nella massa. Essere diversi, pensare con la propria testa, è visto come una minaccia.
Anche l’Italia rinascimentale era vittima di questa sindrome livellatrice. Allora si chiamava sprezzatura, da cui “disprezzare”, ed era una forma di dissimulazione. Non potendo impegnarsi per essere migliore, la persona di talento – in generale il nobiluomo – doveva fingere di eccellere in modo disinvolto, come se non potesse farci niente:Ce l’ha nel sangue, non è certo colpa sua”. Una predisposizione così dirompente che uno non può tenerla sotto controllo è un dono divino e la comunità se ne fa una ragione; anzi si può arrivare ad ammirare questa specialità, perché non è acquisita in cattiva fede o togliendo qualcosa a qualcun altro. Non è inappropriato suggerire che i leader populisti siano dispensati dalle norme comunitarie proprio come effetto di questo stesso tipo di meccanismo psicologico. Sono gli eroi palingenetici, toccati dalla Provvidenza ed inviati a rigenerare e rinnovare una società in frantumi.
Quante possibilità ci sono di fare strada in una società del genere? Se sai che il tuo successo dipende in ogni caso dal fallimento di qualcun altro, allora non sarai mai privo di sensi di colpa, e ti sentirai sempre in debito. Sarai caritatevole verso i bisognosi non in maniera disinteressata ma per non incorrere in qualche sciagura karmica/divina riequilibrante; non semplicemente perché è giusto così, perché è bello poter fare qualcosa di buono per qualcuno che ne ha bisogno.
Come detto, la legge di Jante opera in tutto il mondo, non solo negli ambienti rurali. In fondo il condominio altro non è che un villaggio ricontestualizzato. Pensiamo a come il gruppo schernisce uno dei suoi membri perché “si sente speciale”, “si sente migliore di noi”, “adesso si è montato la testa”, invitandolo a “scendere prima di farsi male”, ecc. Oppure quando i lettori delle riviste si deliziano nell’apprendere delle ultime scelleratezze dei vip e delle star, augurandosi in cuor loro che siano riportati tra i mortali, se possibile con una caduta fragorosa. È quel che in tedesco si chiama Schadenfreude, “piacere nelle altrui sventure”. Nei paesi anglosassoni si chiama tall poppy syndrome, dal racconto liviano di come Tarquinio il Superbo insegnò al figlio Sesto Tarquinio come domare i Gabii: decapitandone i capi come il padre aveva reciso i papaveri più alti.
A dimostrazione della sua universalità ed antichità, essa è presente anche tra gli Oroikava della Nuova Guinea: “Gli uominibianchi non sembrano essere soggetti alla normale economia morale delle relazioni interpersonali, quella per cui la vista della ricchezza fa crescere negli altri il desiderio e la cupidigia, mettendo in azione quei processi che fanno decrescere la ricchezza, o distribuendone una parte a chi l’ha vista, come forma di compensazione, o altrimenti generando dei sentimenti negativi di desiderio frustrato e gelosia che spingono le persone a contraccambiare distruttivamente, con un atto criminale oppure con un sortilegio” (Bashkow, 2006, p. 209).
Esiste naturalmente nelle valli alpine e, guarda caso, si accompagna ad una maggiore certezza etica e ad una minore disponibilità al cambiamento ed all’accoglienza degli immigrati (Gubert e Pollini, 2006). Nel suo "Il pane di ieri”, Enzo Bianchi, pur ammettendo che la vita nelle campagne del Monferrato poteva essere un incubo per donne, minori e non-conformisti, non si avvede che le virtù contadine che vorrebbe preservare come “magistero umano” sono al fondo del suo autoritarismo e soffocante moralismo. Per il priore della comunità monastica di Bose, Fa’ el to duvèr, cherpa ma va’ avanti!, è “una sorta di traduzione popolare dell’imperativo categorico kantiano: fare il proprio dovere a costo di crepare è il fondamento dell’etica individuale”. A dire il vero è una massima perfettamente compatibile con l’interpretazione che Adolf Eichmann – “Agisci come se il principio delle tue azioni fosse quello stesso del legislatore o della legge del tuo Paese” – e il giurista nazista Hans Frank – “Agisci in maniera tale che il Führer, se conoscesse le tue azioni approverebbe” – hanno dato della medesima. In altre parole obbedire alla legge significa allinearsi di buon grado alla volontà della comunità. L’è question ‘d nen pièssla, “Si tratta di non prendersela”, la seconda massima, sembra invece esprimere l’ideologia dell’armonia e della conformità assoluta. La terza massima, Mesciùma nenta el robi!, “Non mescoliamo le cose!” è corredata da un ambiguo commento del priore: “Principio minimo di ordine che successivamente, durante i miei studi, ho scoperto essere alla base delle prescrizioni bibliche contenute nella tradizione sacerdotale sulla «purità». Non mescolare le cose – «non adulterare» recita letteralmente il comandamento biblico di solito tradotto con un improbabile «non fornicare» o con un sessuofobo «non commettere atti impuri» – è principio di ordine che esige trasparenza di pensiero, chiarezza del discorso, rettitudine nell’agire. […]. Nessun ibrido, nessun sconfinamento di campo, nessun appiattimento in un magma indefinito, ma il sapore schietto di un vino non tagliato”. O il sapore schietto dell’ossessione per la Terra e per il Sangue (Blut und Boden), per la razza pura e l’Heimat (patria) incontaminata da elementi esterni. Infine Esagerùma nenta! “Non esageriamo!”, che equivale al lagom svedese ed al deru kugi wa utareru giapponese.
Nel Monferrato, come altrove, la ricerca (estorsione) del consenso è sempre stato uno dei valori imperanti.
Risulta difficile da un lato accettare il disaccordo e lo scostamento dal codice etico collettivo, e dall’altro dare il giusto peso alle istanze private che abbiano una rilevanza generale, laddove la nozione stessa di sfera privata è quantomai precaria ed il livellamento sociale è la norma (cf. studi di Piero S. Colla sulla società svedese http://books.google.it/books/about/Per_la_nazione_e_per_la_razza.html?id=sAkVAAAACAAJ&redir_esc=y).
Da ciò deriva la forte staticità della società e l’indolenza nel provvedere a distinguere tra gruppo di appartenenza ed individui, questi ultimi inchiavardati in un destino predefinito ed incapaci di percepire se stessi come possessori di un’identità separata dalla società nella quale vivono. La rimozione di ogni discrimine tra i vari membri della comunità tradizionale significa in ultima analisi che non possono esistere interessi qualitativamente differenti dei quali è necessario tener conto: “Se siamo tutti uguali, non c’è ragione di prendere sul serio delle differenze solo apparenti”. Un compromesso, per quanto insoddisfacente, rimane un’opzione preferibile rispetto alla collisione di posizioni contrapposte che impediscono di tutelare il sistema di reciprocità (do ut des) che regge le sorti degli agglomerati rurali.
Questo tipo di società, che ricalca come detto il modello Gemeinschaft di Ferdinand Tönnies, è totemizzato: la sua rappresentazione simbolica coincide con i legami di lealtà, alleanza e mutualità tra i suoi membri. Questi vincoli costituiscono un quadro di riferimento assoluto che è raramente messo in discussione, perché la totemizzazione conferisce alla società stessa la sua legittimità e ragion d’essere e permette di venerarla. La condizione di estrema prossimità dei suoi membri fa sì che, anche se nessuno crede davvero di essere uguale al vicino, ognuno senta il dovere di dar mostra di credere di non essere migliore degli altri, per non diventare il bersaglio dell’invidia sociale. Questa finzione di massa permette alla comunità di conservare intatti ed immutati i rapporti, i ruoli, la serialità dei comportamenti e delle relazioni e soprattutto le norme tradizionali e quindi le ragioni della propria identità. In cambio chi non è parte della comunità è virtualmente inesistente, perché la funzione totemica è intrinsecamente esclusivista: non avrai altra comunità all’infuori di me. Questa è la sostanza di cui sono fatti gli incubi del fondamentalismo religioso e del totalitarismo politico.
Quel che si perde in questo genere di assetto sociale “permeante”, fondato sulla solidarietà organica, è il valore dei singoli – che risulta derivato, mai originario – e la funzione e l’importanza del conflitto. Non un conflitto fine a se stesso, non una divisione permanente, che sarebbe autolesionistica. Ma l’antagonismo come corollario del pluralismo, che genera quei legami che mantengono coese le democrazie. Una società che non è capace di superare l’autoreferenzialità e di comprendere ed assorbire ciò che le manca non è sana. È una distopia falsamente egalitaria che abolisce ciò che potrebbe distinguere una persona dall’altra, sancendo che il mero atto di far valere la propria personalità, anche senza causare danno alcuno agli altri, è intrinsecamente sbagliato e disdicevole; in altre parole, che qualcosa è andato storto nell’evoluzione umana.

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