Janteloven (la “Legge di Jante”) dal
nome di una cittadina rurale immaginaria che compare in un racconto dello
scrittore danese Aksel Sandemose del 1933. Oggi la Janteloven si riferisce alla
tendenza, rilevata in Scandinavia, ma già presente nella democrazia ateniese e
nelle assemblee vichinghe, e probabilmente generalizzabile all’intero arco
alpino – pur con mille eccezioni –, a non pensare in termini di libertà
personale ma di libertà di gruppo: della famiglia, delle comunità, delle etnie;
non in termini di diritti umani, ma di diritti collettivi di
autodeterminazione. Non in termini di confronto aperto, ma di comunione
spirituale che possa rendere superflua la mediazione. La suddetta legge si può
applicare a tutte quelle società agrarie che si fondano
sull’assolutizzazione dei principi di equità, stabilità ed uniformità e che per
questo sono funestate da invidie, gelosie e livelli soffocanti di controllo
sociale, che escludono ogni istanza pluralista e liberale. Queste sono le
10 regole della legge di Jante, che sono imposte e fatte rispettare dalle
stesse vittime della loro tirannia, cioè i membri della comunità:
Non penserai mai di essere
speciale;
Non penserai mai di avere
la nostra stessa dignità;
Non penserai mai di essere
più sveglio di noi;
Non immaginarti migliore di
noi;
Non penserai mai di sapere
più cose di noi;
Non penserai mai di essere
più importante di noi;
Non penserai mai di
distinguerti per bravura in qualche cosa;
Non riderai di noi;
Non penserai che qualcuno
si preoccupi per te;
Non penserai che ci
puoi insegnare qualcosa.
Come si vede la prima
preoccupazione è quella di mantenere un forte spirito comunitario, a qualunque
costo. Anche a costo di sacrificare l’originalità, la varietà, l’ambizione
e l’iniziativa personale, in breve, il benessere. L’uguaglianza delle
opportunità perde di senso, non esistendo alcun criterio meritocratico. Non è
forse un caso che due società geograficamente molto distanti come la Svezia
ed il Giappone abbiano analoghi sistemi di coercizione (förbudsstat
in svedese) e corporativismo sociale, una simile esaltazione
dell’armonia e mortificazione della tradizione liberale ed un presente ancora
in parte segnato dalla medesima retorica delle tradizionali virtù contadine (nōhonshugi). In Svezia, come nel
resto della Scandinavia, en god uppväxtmiljö, cioè un ambiente adatto
alla crescita dei bambini, dev’essere armonioso, privo di conflitti e dispute.
L’egalitarismo (jämlikhet) e la giusta misura (lagom) sono i
principi trainanti di una società che esteriormente appare smaccatamente
moderna, ma il cui cuore batte per un romantico comunitarismo organicistico à
la Tönnies. In svedese lagom, come in lagom är bäst, vale a
dire “lagom è il meglio”, indica il giusto mezzo, ciò che è appropriato
quantitativamente, qualitativamente e moralmente – un concetto presente anche
nelle altre lingue scandinave. L’accezione non è però quella della giusta
misura, o almeno non laddove conta. Pare che il termine derivi
dall’espressione ga laget om, che significa “fare un giro (di birra)”. Essere
lagom significa essere uno del gruppo, uno che vale né più né
meno degli altri. In Svezia, tradizionalmente (ora le cose stanno
cambiando), quando si
beve con gli amici da un recipiente comune nessuno può bere più degli altri o meno degli altri, men
che meno rifiutarsi di bere perché non ne ha voglia: chi viola questa norma non
scritta infrange lo spirito comunitario. Questo dettaglio rivela delle
insospettabili analogie con la cultura collettivista giapponese. In
Giappone se si esce a cena con amici bisogna bere e mangiare quel che prende il
gruppo. Chi non lo fa è considerato estremamente maleducato, perché prende
pubblicamente le distanze dal gruppo con cui si accompagna. La società
giapponese non è per nulla egalitaria, essendo organizzata in senso
gerarchico-verticale, ma finge di esserlo. Analogamente, il principio
d’ordine della società svedese, come di quelle alpine, è l’equità (rettferd)
che si realizza nell’esigenza di evitare che qualcuno sorpassi gli altri per
status o proprietà. Ovviamente ciò è virtualmente impossibile. In Giappone si
riscontra la stessa logica nel famoso detto deru kugi wa utareru, “il
chiodo che sporge va ribattuto”.
L’origine
di questa ideologia non è difficile da individuare. È la teoria del gioco a
somma zero: alla fine della partita la vincita di un giocatore equivale
alla perdita dello sconfitto. Non v’è alcun afflusso di beni dall’esterno, se
non per grazia divina, né una parte viene distrutta. Nella realtà questo può
solo accadere in un’economia chiusa, come quella dei paesi contadini appunto.
Il mio successo deve per forza essere ottenuto a spese del resto della
comunità, il che è inaccettabile in termini di coesione sociale. Per questo
ancora oggi in Trentino può accadere che un paesano di successo sia
costretto a nascondere il miglioramento delle sue condizioni di vita, per
evitare ritorsioni collettive. Questo significa anche che la
competizione è intrinsecamente immorale, perché crea vincitori e vinti, cioè
disarmonici squilibri sociali ed infelicità. Inoltre non è lecito far
trasparire la propria felicità. In una società fatalistica essere
fortunati attira il rischio di una qualche calamità, magari invocata da chi
nutre invidia. Essere felici significa sottolineare l’infelicità altrui e quindi
generare ulteriore invidia.
In Giappone
si è risolto questo problema tramite l’usanza di elogiare gli altri e
biasimare se stessi. Una falsa umiltà di rara ipocrisia ma utilissima in
una società conformista e prepotentemente gerarchica. La legatura dei piedi
o il bonsai sono efficaci metafore di queste restrizioni auto-imposte per non
risaltare troppo nella massa. Essere diversi, pensare con la
propria testa, è visto come una minaccia.
Anche
l’Italia rinascimentale era vittima di questa sindrome livellatrice. Allora si
chiamava sprezzatura, da cui “disprezzare”, ed era una
forma di dissimulazione. Non potendo impegnarsi per essere migliore, la persona
di talento – in generale il nobiluomo – doveva fingere di eccellere in modo
disinvolto, come se non potesse farci niente: “Ce l’ha nel sangue,
non è certo colpa sua”. Una predisposizione così dirompente che uno non può
tenerla sotto controllo è un dono divino e la comunità se ne fa una ragione;
anzi si può arrivare ad ammirare questa specialità, perché non è acquisita in
cattiva fede o togliendo qualcosa a qualcun altro. Non è inappropriato
suggerire che i leader populisti siano dispensati dalle norme comunitarie
proprio come effetto di questo stesso tipo di meccanismo psicologico. Sono gli
eroi palingenetici, toccati dalla Provvidenza ed inviati a rigenerare e
rinnovare una società in frantumi.
Quante
possibilità ci sono di fare strada in una società del genere? Se sai che il tuo
successo dipende in ogni caso dal fallimento di qualcun altro, allora non sarai
mai privo di sensi di colpa, e ti sentirai sempre in debito. Sarai caritatevole
verso i bisognosi non in maniera disinteressata ma per non incorrere in qualche
sciagura karmica/divina riequilibrante; non semplicemente perché è giusto così,
perché è bello poter fare qualcosa di buono per qualcuno che ne ha bisogno.
Come
detto, la legge di Jante opera in tutto il mondo, non solo negli ambienti
rurali. In fondo il condominio altro non è che un villaggio ricontestualizzato.
Pensiamo a come il gruppo schernisce uno dei suoi membri perché “si sente
speciale”, “si sente migliore di noi”, “adesso si è montato la
testa”, invitandolo a “scendere prima di farsi male”, ecc. Oppure
quando i lettori delle riviste si deliziano nell’apprendere delle ultime
scelleratezze dei vip e delle star, augurandosi in cuor loro che siano
riportati tra i mortali, se possibile con una caduta fragorosa. È quel che in
tedesco si chiama Schadenfreude, “piacere nelle altrui sventure”.
Nei paesi anglosassoni si chiama tall poppy syndrome, dal racconto
liviano di come Tarquinio il Superbo insegnò al figlio Sesto Tarquinio
come domare i Gabii: decapitandone i capi come il padre aveva reciso i papaveri
più alti.
A
dimostrazione della sua universalità ed antichità, essa è presente anche tra
gli Oroikava della Nuova Guinea: “Gli uominibianchi non sembrano essere
soggetti alla normale economia morale delle relazioni interpersonali, quella
per cui la vista della ricchezza fa crescere negli altri il desiderio e la
cupidigia, mettendo in azione quei processi che fanno decrescere la ricchezza,
o distribuendone una parte a chi l’ha vista, come forma di compensazione, o
altrimenti generando dei sentimenti negativi di desiderio frustrato e gelosia
che spingono le persone a contraccambiare distruttivamente, con un atto
criminale oppure con un sortilegio” (Bashkow, 2006, p. 209).
Esiste
naturalmente nelle valli alpine e, guarda caso, si accompagna ad una maggiore
certezza etica e ad una minore disponibilità al cambiamento ed all’accoglienza
degli immigrati (Gubert e Pollini, 2006). Nel suo "Il pane di ieri”,
Enzo Bianchi, pur ammettendo che la vita nelle campagne del Monferrato
poteva essere un incubo per donne, minori e non-conformisti, non si avvede che
le virtù contadine che vorrebbe preservare come “magistero umano” sono al fondo
del suo autoritarismo e soffocante moralismo. Per il priore della comunità
monastica di Bose, Fa’ el to duvèr, cherpa ma va’ avanti!, è “una
sorta di traduzione popolare dell’imperativo categorico kantiano: fare il
proprio dovere a costo di crepare è il fondamento dell’etica individuale”. A
dire il vero è una massima perfettamente compatibile con
l’interpretazione che Adolf Eichmann – “Agisci come se il principio delle tue
azioni fosse quello stesso del legislatore o della legge del tuo Paese” – e il
giurista nazista Hans Frank – “Agisci in maniera tale che il Führer, se
conoscesse le tue azioni approverebbe” – hanno dato della medesima. In
altre parole obbedire alla legge significa allinearsi di buon grado alla
volontà della comunità. L’è question ‘d nen pièssla, “Si tratta di non
prendersela”, la seconda massima, sembra invece esprimere l’ideologia
dell’armonia e della conformità assoluta. La terza massima, Mesciùma
nenta el robi!, “Non mescoliamo le cose!” è corredata da un ambiguo
commento del priore: “Principio minimo di ordine che successivamente, durante i
miei studi, ho scoperto essere alla base delle prescrizioni bibliche contenute
nella tradizione sacerdotale sulla «purità». Non mescolare le cose – «non
adulterare» recita letteralmente il comandamento biblico di solito tradotto con
un improbabile «non fornicare» o con un sessuofobo «non commettere atti impuri»
– è principio di ordine che esige trasparenza di pensiero, chiarezza del
discorso, rettitudine nell’agire. […]. Nessun ibrido, nessun sconfinamento di
campo, nessun appiattimento in un magma indefinito, ma il sapore schietto di un
vino non tagliato”. O il sapore schietto dell’ossessione per la Terra e per
il Sangue (Blut und Boden), per la razza pura e l’Heimat (patria)
incontaminata da elementi esterni. Infine Esagerùma nenta! “Non
esageriamo!”, che equivale al lagom svedese ed al deru
kugi wa utareru giapponese.
Nel
Monferrato, come altrove, la ricerca (estorsione) del consenso è sempre
stato uno dei valori imperanti.
Risulta
difficile da un lato accettare il disaccordo e lo scostamento dal codice etico collettivo, e dall’altro
dare il giusto peso alle istanze private che abbiano una rilevanza generale,
laddove la nozione stessa di sfera privata è quantomai precaria ed il
livellamento sociale è la norma (cf. studi di Piero S. Colla sulla società
svedese http://books.google.it/books/about/Per_la_nazione_e_per_la_razza.html?id=sAkVAAAACAAJ&redir_esc=y).
Da
ciò deriva la forte staticità della società e l’indolenza nel provvedere a
distinguere tra gruppo di appartenenza ed individui, questi ultimi
inchiavardati in un destino predefinito ed incapaci di percepire se stessi come
possessori di un’identità separata dalla società nella quale vivono. La
rimozione di ogni discrimine tra i vari membri della comunità tradizionale
significa in ultima analisi che non possono esistere interessi qualitativamente
differenti dei quali è necessario tener conto: “Se siamo tutti uguali, non
c’è ragione di prendere sul serio delle differenze solo apparenti”. Un
compromesso, per quanto insoddisfacente, rimane un’opzione preferibile rispetto
alla collisione di posizioni contrapposte che impediscono di tutelare il
sistema di reciprocità (do ut des) che regge le sorti degli agglomerati
rurali.
Questo
tipo di società, che ricalca come detto il modello Gemeinschaft di
Ferdinand Tönnies, è totemizzato: la sua rappresentazione simbolica coincide
con i legami di lealtà, alleanza e mutualità tra i suoi membri. Questi vincoli
costituiscono un quadro di riferimento assoluto che è raramente messo in
discussione, perché la totemizzazione conferisce alla società stessa la sua
legittimità e ragion d’essere e permette di venerarla. La condizione di
estrema prossimità dei suoi membri fa sì che, anche se nessuno crede davvero di
essere uguale al vicino, ognuno senta il dovere di dar mostra di credere di non
essere migliore degli altri, per non diventare il bersaglio dell’invidia
sociale. Questa finzione di massa permette alla comunità di conservare intatti
ed immutati i rapporti, i ruoli, la serialità dei comportamenti e delle
relazioni e soprattutto le norme tradizionali e quindi le ragioni della propria
identità. In cambio chi non è parte della comunità è virtualmente inesistente,
perché la funzione totemica è intrinsecamente esclusivista: non avrai altra
comunità all’infuori di me. Questa è la sostanza di cui sono fatti gli incubi
del fondamentalismo religioso e del totalitarismo politico.
Quel che si perde in questo genere di assetto sociale
“permeante”, fondato sulla solidarietà organica, è il valore dei singoli – che
risulta derivato, mai originario – e la funzione e l’importanza del conflitto.
Non un conflitto fine a se stesso, non una divisione permanente, che sarebbe
autolesionistica. Ma l’antagonismo come corollario del pluralismo, che genera
quei legami che mantengono coese le democrazie. Una società che non è
capace di superare l’autoreferenzialità e di comprendere ed assorbire ciò che
le manca non è sana. È una distopia falsamente egalitaria che abolisce ciò che
potrebbe distinguere una persona dall’altra, sancendo che il mero atto di far
valere la propria personalità, anche senza causare danno alcuno agli altri, è
intrinsecamente sbagliato e disdicevole; in altre parole, che qualcosa è andato
storto nell’evoluzione umana.
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