Esseri luminosi noi siamo, non questa
materia grezza.
Yoda
We live our daily lives in a
constant exchange with the set of daily appearances surrounding us – often they
are very familiar, sometimes they are unexpected and new, but always they
confirm us in our lives. They do so even when they are threatening: the sight
of a house burning, for example, or a man approaching us with a knife between
his teeth, still reminds us (urgently) of our life and its importance. What we
habitually see confirms us. Yet it can happen, suddenly, unexpectedly, and most
frequently in the half-light of glimpses, that we catch sight of another
visible order which intersects with ours and has nothing to do with it. The
speed of a cinema film is 24 frames per second. God knows how many frames per
second flicker past our daily perception. But it is as if at the brief moments
I’m talking about, suddenly and disconcertingly we se between two frames. We
come upon a part of the visible which wasn’t destined for us. Perhaps it was
destined for — night-birds, reindeer, ferrets, eels, whales… Perhaps it was
destined not only for animals but for lakes, slow-growing trees, ores, carbon…
Our customary visible order is not the only one: it co-exists with other
orders. Stories of fairies, sprites, ogres were a human attempt to come to
terms with this co-existence. Hunters are continually aware of it and so can
read signs we do not see. Children feel it intuitively, because they have the
habit of hiding behind things. There they discover the interstices between
different sets of the visible.
Knock! Knock!
Who’s there?
Guess who!
Dogs, with their running legs,
sharp noses and developed memory for sounds, are the natural frontier experts
of these interstices. Their eyes, whose message often confuses us for it is
urgent and mute, are attuned both to the human order and to other visible
orders. Perhaps this is why, on so many occasions and for different reasons, we
train dogs as guides.
Probably it was a dog who led
Sammallahti to the moment and place for taking of each picture. In each one the
human order, still in sight, is nevertheless no longer central and is slipping
away. The interstices are open.
John Berger, “The shape of a
pocket”, New York: Vintage: 2001, pp. 4-5 [Sacche di resistenza, Varese:
Giano, 2003]
Per Simone Weil l’impersonalità
rappresenta ciò che vi è di sacro negli esseri umani. È la trascendenza dell’Io
e prima ancora del Noi, giacché l’idolatria del collettivo, osserva la stessa
Weil, frustra ogni tentativo di raggiungere l’impersonalità. Subordinato al
collettivo – come era consuetudine nell’antichità – l’individuo si vede
decurtato di una parte importante dei suoi diritti naturali, assieme alla
possibilità di essere separato, fisicamente e mentalmente, anche da sé stesso.
Il Noi e l’Ego sono ostacoli lungo la via che conduce a questa condizione di
impersonalità, o vero Io, che qualcuno chiamerebbe “coscienza cosmica” e che è
una forma di disincarnazione dell’anima (“decreazione” la chiama Weil). Chi
scopre dentro di sé questa trascendenza inframondana ama nel modo in cui lo
smeraldo è verde, cioè non ne può fare a meno, si emancipa finalmente e
definitivamente da quelle istituzioni ed ideologie che promettono una
pseudo-immortalità alla propria identità sociale. Inoltre, a differenza di
molti gnostici, sente il dovere di salvaguardare la possibilità che anche altri
vi possano attingere e di tutelare e valorizzare la dignità di tutti gli esseri
umani e del mondo circostante. L’essere umano decreato, impersonale è, per
citare il Walt Whitman di Foglie d’Erba, “Dentro e fuori del gioco,
osservandolo e meravigliandosi”, non ricerca certezze assolute ma
esperienze, il midollo della vita, “per non scoprire in punto di morte di
non essere mai vissuto...” (H.D. Thoreau). La mente dell’umano impersonale
non si chiude di fronte all’ignoto, all’imprevisto, all’insolito, ma lo brama,
perché quello è il combustibile della sua creatività.
“Dentro l’uomo c’è l’anima
del tutto”, dichiara Emerson. Nessuna personalità contingente e localizzata
può contenere l’oceano interiore della coscienza, l’eterno, sublime ed infinito
elemento umano. La coscienza aspira a risolversi in una rete di relazioni
intersoggettive nella loro forma più alta e nobile, cioè quella di una
relazione tra coscienze impersonali, cosmopolite ed interconnesse: “né
giudeo, né greco” diceva Paolo di Tarso.
L’individualità democratica
anti-conformista predicata dal liberalismo rappresenta solo il primo passo
verso l’impersonalità universale, ed è un progetto in corso d’opera, che non è
purtroppo quasi mai completato in vita, per ignoranza e per timore. Gli
antipodi della coscienza, l’infinito oceano interiore, per la quasi totalità
degli esseri umani rimane un miraggio, un territorio vergine. Dogmi,
convenzioni, consuetudini e l’ossessione materialista ci sbarrano la strada, ci
impediscono di riconoscere la straordinarietà altrui e nostra. “Ciascuno deve
assumersi la responsabilità di se stesso – il proprio sé deve diventare un
progetto, dobbiamo diventare gli architetti della nostra anima. La nostra
dignità risiede nell’essere, in larga misura, la persona che abbiamo scelto di
essere, una creazione piuttosto che una creatura o un manufatto socialmente
prodotto e determinato” (Kateb, 1984, p. 343). Poi subentra la presa di
coscienza della propria natura universale, impersonale appunto, e la
disidentificazione, l’acquisizione di una sconfinata molteplicità di identità. Gradualmente,
la cura del sé si estende al prossimo ed all’ambiente, per poi prendere la
forma della cura del cosmo. È una responsabilizzazione solenne che
annienta la vacuità disumana del burocrate à la Eichmann o dell’edonista
à la Christian Troy (della serie Nip/Tuck), cioè la funesta
disconnessione dalla realtà, intorpidimento morale, assopimento dell’empatia,
prioritarizzazione delle regole e degli interessi rispetto agli esseri umani,
anticamera della violenza genocida (Hatzfeld, 2003).
L’impersonalità è, al
contrario, una condizione di trascendenza della socialità e dell’ego (lo jiva
del Vedanta) che pone al centro la sensibilità e la disponibilità del sé (l’atman
del Vedanta), poroso, fluido, illimitatamente espandibile, incurante della
distinzione tra particolare e generale. È, per i trascendentalisti nordamericani
e per George Kateb, uno dei più raffinati filosofi politici dei nostri giorni,
la condizione necessaria al sorgere di una vera antropologia dell’individualità,
che consideri quest’ultima come preziosa perché insostituibile, e di una vera
democrazia dell’interconnessione tra soggetti-cittadini dalle potenzialità
largamente inesplorate (la cosiddetta “mutualità tra sconosciuti”).
Antropologia e democrazia, l’umanità
possibile, trovano la loro realizzazione finale solo in essa, in questo oceano
di potenzialità ancora ignote. Quello che in genere rimane celato ai nostri
occhi per via della cristallizzazione delle differenze, delle divisioni e
barriere tra gli esseri umani, ossia le varie interfacce con le quali ci
relazioniamo verso l’esterno e che tendiamo a feticizzare o idolatrare. Una
cristallizzazione (il velo di Maya) che maschera l’eterno mutare della
molteplicità del mondo, l’indeterminatezza della vita, ma anche l’unitarietà
del suo senso ultimo. Un velo che ci impedisce di comprendere che l’autodeterminazione
è la via maestra per rendersi disponibili al prossimo, consci della sua dignità
e valore, aperti al nuovo ed all’imprevedibile, a quell’azzardo che è la vita.
Le azioni e le parole delle persone che non subiscono abusi, non affrontano un degrado
morale e sociale permanente e sono esposte all’influenza della tensione
spirituale, cioè quelle persone che si possono permettere di coltivare l’autostima,
il rispetto di sé, il senso della misura e, come vedremo, il senso dell’impersonalità
o trascendenza, dimostrano che può esistere un mondo migliore. Un mondo in cui
tutti quanti meritiamo di vivere. Un mondo che renda possibile l’autocompimento
espressivo ed esistenziale per ognuno di noi, lo stesso auspicato dalla
filosofa tedesca Edith Stein, che invitava ad attualizzare il proprio
potenziale per una vita più intensa, di inesauribile pienezza umana, di
infinitezza, di trascendenza della materialità. Il mondo che aveva ammirato Etty
Hillesum rivolgendosi alla sua interiorità, prestando orecchio (hineinhorchen)
a quel che diceva il suo daimon. Un mondo in cui si riesca a guardare
all’altro con occhio benevolo, apprezzandolo e dedicandovi sollecitudine ed
attenzione più di quanto l’altro riesca a fare nei confronti di se stesso,
senza classificarlo, ridurlo in categorie, asservirlo ad un destino
predeterminato o, peggio ancora, renderlo invisibile, irrilevante, inferiore,
spregevole (Kateb, 1989; 1992). Un mondo che pretende onestà,
trasparenza e genuina autenticità. Non l’autenticità del sangue e del suolo,
quella che dissolve l’io in un noi irresponsabile, infantile, barbaro, idolatra
ed onnipotente, strumento del potere pastorale denunciato da Foucault, argilla
nelle mani di leader narcisisti ed incontinenti nelle loro ambizioni e pretese
di riconoscimento pubblico. Quei leader timorosi della vita perché bisognosi di
ordine, di controllo, di potenza, di autorità, e perciò inclini al cannibalismo
degli altri, in senso naturalmente figurato.
È l’autenticità della voce
interiore che conta, quella della propria natura, che assicura l’integrità
personale anche nell’impersonalità, che contrasta la necrofilia, l’amore per ciò
che non è vivo, per la disgregazione, lo smembramento, la parcellizzazione, l’atomizzazione
degli esseri umani. Le contrasta in nome di eros, l’attrazione per il
vivente, per l’integrazione e l’unione, ossia per il divino che è nell’umano e
che è nella natura e nell’universo (Fromm, 1984; Mancuso, 2008).
Perciò l’impersonalità – la
conciliazione di unità e molteplicità – è, in modo apparentemente paradossale,
il nostro essere più autentico. Come giustificare questa posizione ontologica
che ha messo a dura prova la filosofia occidentale per l’intera sua storia? Non
lo posso certo fare chiamando in causa un destino cosmico comune che mi è stato
disvelato e contando sulla fiducia dei lettori, che in questo caso sarebbe
malriposta. Mi appellerò quindi al buon senso: se i migliori tra noi,
esemplari della nostra specie che sono universalmente riconosciuti come maestri
di vita, talvolta indipendentemente l’uno dall’altra, hanno creduto di
individuare nell’impersonalità la ragion d’essere dell’umanità ed il fine
ultimo del processo di maturazione morale della nostra specie, allora dovevano
avere delle buone ragioni per farlo.
I maestri di vita e di
pensiero in questione sono, tra gli altri, Plotino, Meister Eckart, Jakob Böhme,
William Blake, Simone Weil, Etty Hillesum, Jiddu Krishnamurti, Sri Ramakrishna
Paramahamsa, San Francesco d’Assisi, Ibn Arabi, Ralph Waldo Emerson, Walt
Whitman, Carl Gustav Jung, Paolo di Tarso, Siddhārtha Gautama, il pioniere
austriaco della meccanica quantistica Erwin Schrödinger, Johann Wolfgang von
Goethe, Kahill Gibran, Lao Tzu, Jorge Luis Borges, Empedocle, Socrate,
Maometto, Spinoza e Gesù di Nazareth. Quel che li accomuna è, appunto, la
sensazione oceanica, cioè un sentimento di espansione compassionevole dei
confini del sé fino ad abbracciare l’intera umanità e l’universo materiale, l’oceano
come simbolo dell’abbattimento di ogni barriera – del Noi, dell’Io, della
specie – e dell’unità nella molteplicità, della coincidentia oppositorum.
Non stiamo parlando della
dissoluzione dell’io nel tutto della razza ariana o del popolo fascista, il cui
indiscutibile carattere trascendente ha ipnotizzato milioni di persone in
passato ma che in realtà è antitetica rispetto ad una genuina sensazione
oceanica. Stiamo piuttosto parlando di una facoltà latente nella specie
umana, che si esplicita in un’empatia profonda ed inclusiva e nella
certezza interiore dell’interconnessione di ogni cosa, dell’illusorietà delle
separazioni, della presenza dell’origine della creazione (Tao, o Dio) in ogni
istante, in ogni atomo, in ogni luogo, in ciascuno di noi, oltre che del
fondamentale contributo di ognuno al Libro della Vita. ”Ero tutto, o
piuttosto tutto era in me, inanimato ed animato, le montagne, il verme, e tutte
le cose che respirano” (Krishnamurti). “Più di una volta mi è capitato
di riavermi, uscendo dal sonno del corpo, e di estraniarmi da tutto, nel
profondo del mio io. In quelle occasioni godevo della visione di una bellezza
tanto grande quanto affascinante che mi convinceva, allora come non mai, di
fare parte di una sorte più elevata, realizzando una vita più nobile: insomma
di essere equiparato al divino, costituito sullo stesso fondamento di un dio”
(Plotino, Enneadi IV, 8, 1). “Nell’istante della visione non c’è nulla
che si possa chiamare gratitudine, né propriamente gioia. L’anima sollevata al
di sopra della passione, contempla l’identità e la causa eterna, percepisce l’esistenza
indipendente della Verità e dell’Esattezza, e si rasserena nella consapevolezza
che tutto procede per il meglio” (Emerson, “Self-Reliance”).
Sigmund Freud rimase
affascinato dall’estasi auto-trascendente e, non avendola esperita in prima
personala investigò nella sua corrispondenza con Romaine Rolland, il quale si
diceva convinto che questa esperienza avesse coinvolto milioni di persone nella
storia, pur con diverse sfumature e gradi di intensità, quasi sempre
inconsapevoli della natura del fenomeno (Parsons, 1999). Sulla base di quanto
appreso dall’amico Rolland, Freud la descrive come “un sentimento di
indissolubile legame, di immedesimazione con la totalità del mondo esterno”
(Freud, 2003, p. 197).
Plotino avrebbe detto che l’anima,
attraverso Amore, si universalizza in un flusso di intuizione che la trasfonde
dalla dimensione del parziale, del particolare e del diviso, alla dimensione
della totalità indivisa e della verità, della contemplazione anti-narcisistica
della propria bellezza come immagine della Bellezza. A partire da questo
risveglio, dopo il riconoscimento della propria identità col cosmo e col
divino, la persona (o per meglio dire l’anima, lo sfarfallante “fascio di
coscienza”, l’Aleph di Borges) irradierà di consapevolezza chi la incontra.
Etty Hillesum se n’era accorta
ben presto, notando che la forza elementare che aveva scoperto al centro di se
stessa si irradiava attorno a lei (Hillesum, 2008). Mircea Eliade chiamava
questa corrispondenza diretta tra macrocosmo e microcosmo macrantropia.
L’enfasi sull’unità della diversità, cioè sulla convinzione che la diversità
era solo l’espressione di una superiore unità, quella della Persona Cosmica, è
molto antica, e risale forse all’età del Bronzo, anche se trova una
formulazione più articolata solo nelle Upanisad e nel Timeo platonico
(McEvilley, 2002). L’osservazione di Vito Mancuso (2007) che il cosmo è
votato alla relazione, “dalle particelle subatomiche fino alla punta dell’anima”
e che “io sono anche il mondo: io, micro-cosmo, sono uguale al mondo,
macro-cosmo, nel senso che la logica che governa entrambi è la medesima”
sarebbe giudicata senz’altro corretta all’interno di quest’ottica. Per Hillesum
la diluizione dell’io nell’infinito universale consente di sviluppare una
coscienza cosmica che rende la vita più piena, abbondante e meravigliosa, anche
nei suoi aspetti apparentemente tragici (Tommasi, 2002). Per il Walt Whitman di
“Prospettive democratiche”, l’unica giustificazione adeguata della democrazia “risiede
nel futuro, essenzialmente nell’abbondante produzione di indoli perfette tra la
gente e nell’avvento di una sana e diffusa religiosità”. Per il poeta e
scrittore statunitense il merito della democrazia è stato quello di liberare le
persone dai vincoli delle convenzioni tradizionali e di gettare le basi per l’edificazione
di “torreggianti personalità…in possesso della nozione di infinito” e in
grado di comprendere che una vita morale degna di questo nome è quella che fa
riferimento “all’immortale, all’ignoto, allo spirituale, a ciò che è
permanentemente reale, ciò che, come l’oceano attende ed accoglie i fiumi,
aspetta ciascuno di noi”. Il valore della persona è perciò direttamente
legato al potenziale, innato in ogni essere umano, di ergersi al livello dell’individualità
impersonale, che Emerson chiama Superanima (Oversoul), della quale noi siamo
solo catalizzatori e vettori.
Vivere nella pienezza dell’Essere,
per i Trascendentalisti americani come per i mistici di tutto il mondo,
significa affidarsi ai propri impulsi fondamentali, all’istinto più
profondo, quello del Bene, quello dell’imperativo categorico kantiano, che
reprimiamo quando prestiamo ascolto alle sirene della materialità e dei
determinismi. Quando rinserriamo noi stessi e gli altri nella falsa
sicurezza di un passato e di un futuro già determinati, di un ambiente e di un
orizzonte costretti e divisi, ci e li priviamo della possibilità di dare libero
sfogo alla naturale tensione verso la libertà più piena e di comprendere che
ogni persona ed ogni cosa è solo una particolare inflessione dell’universale,
nel presente. “Queste rose sotto la mia finestra non rimandano a rose
precedenti o migliori; sono ciò che sono; esistono assieme a Dio nell’oggi. Il
tempo non esiste per loro. Vi è semplicemente la rosa: perfetta in ogni
momento del suo esistere. Prima che un solo bocciolo si sia dischiuso,
la sua intera vita è già in atto; nel fiore pienamente sbocciato non ve n’è di
più; nella spoglia radice non ve n’è di meno. La sua natura è soddisfatta ed
essa soddisfa la natura, in ogni momento, in egual misura. L’uomo invece
pospone o ricorda; non vive nel presente, ma con un occhio rivolto alle spalle
rimpiange il passato, oppure, incurante delle ricchezze che lo circondano, si
solleva sulle punte dei piedi per prendere visionare il futuro. Non potrà
essere felice e forte finché non vivrà anche lui con la natura nel presente, al
di sopra del tempo” (Emerson, “Self-Reliance”). Questo comporta anche che un
elevato livello di educazione non è di per sé indice di saggezza. Anzi, lo zelo
con il quale si dedicano ad una specifica direzione del sapere in qualche modo
li ostacola. Tant’è che “dobbiamo molte preziose osservazioni a persone
che non sono particolarmente perspicaci o profonde, ma che dicono con grande
naturalezza quel che volevamo ed eravamo andati invano in cerca per lungo tempo”
(Emerson, “The Over-Soul”). Nell’abbandono alla comune ed eterna natura che
scorre interiormente, gli esseri umani si de-individualizzano, affinano l’intelletto
e distillano i significati apparentemente più reconditi, e pensano, kantianamente,
il particolare come contenuto dell'universale. La trama della loro esistenza
non si dipana più disordinatamente e discontinuamente, ma nell’armonia della
divina unità, nella resistenza alle pressioni conformiste ed alla superficialità
dell’io quotidiano.
Ma come possiamo essere certi
che la voce della nostra coscienza sia giusta e buona? O, per meglio dire, come
si distingue tra la voce di ego e la voce della coscienza? In fondo gli
sterminatori degli Einsatzgruppen erano persone comuni, che credevano di
difendere la patria, la famiglia, la Cristianità (Browning, 2004). Non era
anche quella la voce della coscienza? Lo stesso Hitler dichiarava di
condurre la sua esistenza sulla base di intuizioni e dettami provenienti
direttamente da Dio e quindi di non poter minimamente ritenere di essere in
errore: “E se anche lo fossi, so di aver agito in buona fede” (Hitler,
1941). Riteneva di essere un “Unto del Signore”, emissario di Dio in terra,
chiamato a redimere il mondo. La visione emersoniana non può escludere questo
tipo di interpretazioni. Emerson stesso non era sempre benevolo nei confronti
del “popolo bue” che non sentiva la necessità di riscattarsi spiritualmente,
pur avendone i mezzi, e che accettava “cristianamente” l’esistenza dell’istituzione
schiavista.
Io penso che la risposta possa
essere trovata nella sostanziale univocità delle voci dei maestri di
impersonalità, illustri esponenti dell’antropologia perenne, che trova un’eco
importante nelle spiegazioni fornite dai Giusti tra le Nazioni a chi li
intervistava per capire perché avessero rischiato la loro vita e quella dei
propri cari per aiutare dei perfetti sconosciuti quando sarebbe stato più
semplice pensare agli affari propri. Non furono molti, ma non furono neppure
pochi, forse uno su mille tra chi viveva nell’Europa occupata dai nazisti:
Abraham Maslow (1908-1970),
uno dei maggiori psicologi del secolo scorso, ha studiato clinicamente questo
fenomeno.
A differenza di Freud, e sulla
scia di Wiliam James, lo psicologo statunitense comprese che questo tipo di
esperienze non erano di carattere patologico ma, al contrario, rappresentavano
i picchi della creatività umana, i record olimpici della coscienza, da
additare ad esempio per il resto dell’umanità, in modo che tutti potessero
trovare una maniera per esprimere il loro intero potenziale
(auto-attualizzazione). Era convinzione di Maslow che una buona parte dei
comportamenti devianti che danneggiavano la società fossero causati dalla
privazione di mezzi di sostentamento (livello dei bisogni fisiologici), della
sensazione di sicurezza (livello della stabilità sociale), dell’affettività e
dell’amore (livello dei bisogni affettivi), dello status e dell’amore proprio
(livello dell'autostima e del rispetto) e, infine, degli strumenti necessari
alla realizzazione personale. In questa prospettiva la soddisfazione dei bisogni
primari conduce a maggiori aspettative nei confronti di quelli superiori e così
via fino al quinto livello. La relativa insoddisfazione è il motore che ci
spinge a chiedere sempre di più da noi stessi. E non c'è nulla di male in
questo, sosteneva Maslow, che soleva dire ai suoi studenti che decidere di non
diventare quel che si potrebbe essere li avrebbe resi infelici per il resto
della loro vita. Il segreto era essere realisti ma puntare in alto: “Quel che
un uomo può essere, lo deve essere” (Maslow, 1954, p. 91). Su, fino alle
esperienze-picco, i momenti di intensa felicità, beatitudine, illuminazione,
contemplazione, estasi. Queste non erano riservate a pochi fortunati ma erano
invece nelle corde di ognuno. Ogni qual volta una persona procedeva lungo la
strada dell’eccellenza personale, o si muoveva liberamente verso una condizione
ideale di giustizia e virtù, era più probabile che si producesse un’esperienza-picco.
Si tratta di una forma avanzata di percezione della realtà, quando il mondo e l’umanità
appaiono come fondamentalmente buoni, giusti, onesti, completi, semplici ed
intensamente vivi. In molti casi la descrizione dell’esperienza non era troppo
dissimile da quella delle estasi mistiche e, in seguito a questo tipo di
esperienza, proprio come i mistici, molte persone sentivano un intenso,
incondizionato, compassionevole, sconfinato amore per il mondo e per il
prossimo, scoprivano in se stessi la capacità di accettare con ironico distacco
la realtà terrena ed infine avvertivano la necessità di fare qualcosa per gli
altri come forma di compensazione per il dono che avevano ricevuto.
Secondo Maslow gli attributi
tipici delle persone psicologicamente e mentalmente auto-attualizzate sono: una
più sofisticata percezione della realtà ed una modalità di interazione con essa
più costruttiva della media, maggiormente tollerante di ambiguità ed
incertezze; una minor sensibilità e vulnerabilità ai sensi di colpa e di
vergogna ed all’ansia: sono più spontanei, meno condizionati dai giudizi della
gente, più disponibili ad ammettere i propri difetti e a comprendere ed
accettare quelli altrui; la relativa assenza di egocentrismo e la disponibilità
verso gli altri; l’autonomia e la cura della propria sfera privata: sono meno
dipendenti dall’incoraggiamento delle altre persone, più selettivi nelle
amicizie, più innovativi e più resistenti alla pressione sociale; la capacità
di sorprendersi e di assaporare la quotidianità; la tendenza ad identificarsi
con l’intera umanità, pur rimanendo realisticamente consapevoli dei limiti
oggettivi della specie; un carattere profondamente democratico, che ignora
barriere sociali e culturali; la preferenza per circoli ristretti di intimi con
i quali coltivare rapporti più profondi.
Credo che questa sia anche una
descrizione piuttosto soddisfacente della personalità dei Giusti e dell’ethos
ideale dei badanti e delle badanti. Anche Jung (1959) aveva stilato una lista
di tratti ammirevoli di quelle che definiva “persone individuate”. Vediamoli
nel dettaglio: vivono la loro vita senza preoccuparsi troppo di conformarsi
alle aspettative degli altri e della società; cercano un punto di equilibrio
tra l’autenticità e l’adesione a gruppi ed associazioni; sono tendenzialmente
solitari ma non reclusi; sono generalmente più tolleranti, profondi,
responsabili e comprensivi della media; si aprono agli altri perché non temono
di perdere il controllo di se stessi; non sono egocentrici né particolarmente
eccentrici, accettano i propri obblighi senza farne un dramma.
Anche qui noto una certa
corrispondenza con gli attributi tipici della coscienza transpersonale dei
soccorritori di Ebrei durante l’Olocausto. Proprio come i Giusti, queste
persone rifiutano ruoli e distinzioni rigide. Come i mistici, le loro
esperienze sono all’insegna della privatezza, dell’impersonalità e dell’universalità.
Maslow potè trarre un’unica conclusione: “È sempre più evidente che questo
fenomeno è una versione, più blanda, più laica e più ordinaria dell’esperienza
mistica che è stata descritta così spesso da diventare quella che Huxley ha
chiamato la Filosofia Perenne. In culture ed epoche diverse assume colorazioni
differenti, eppure la sua essenza è sempre riconoscibile, è la stessa” (Maslow
1973, p. 64).
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2 commenti:
E' semplicemente meraviglioso questo tuo blog. Grazie.
Aria
Mi fa davvero molto piacere sentirlo dire ;o)
Ho sempre avuto paura che il blog sarebbe stato unicamente una valvola di sfogo per il mio narcisismo, ma vedo che, per fortuna, non è solo quello. Spero di maturare assieme a lui (ed ai lettori).
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