Perché
Israele non attacchera' l'Iran
Secondo
Uri Avnery, scrittore e pacifista israeliano, Israele non attaccherà l'Iran. In
questo articolo ci spiega perché.
10
novembre 2011 - Uri Avnery
Fonte: www.counterpunch.org - 03 novembre 2011
Tutti
hanno bene a mente la classica scena a scuola del ragazzetto che ha una
discussione con un tipo più grosso di lui. “Trattenetemi” grida rivolto ai suoi
amici, “prima che gli rompa le ossa”.
Il nostro
governo sembra comportarsi alla stessa maniera. Ogni giorno, attraverso tutti i
canali, fa sapere a gran voce che da un momento all'altro romperà le ossa
dell'Iran.
L'Iran sta
per mettere a punto un ordigno nucleare. Non possiamo permetterlo. Quindi
dobbiamo raderli al suolo.
Binyamin
Netanyahu lo dice in ognuno nei suoi innumerevoli discorsi, incluso quello
d'apertura della sessione invernale del Knesset (parlamento d'Israele). Allo
stesso modo fa Ehud Barak. Ogni cronista che si rispetti (qualcuno ne ha visto
mai uno che non si rispetti?) scrive sull'argomento. I media ne amplificano il
tono e il furore.
“Haaretz”
ha sbattuto in prima pagina le foto dei sette ministri più importanti (il “settetto
di sicurezza”) annunciando che tre sono favorevoli all'attacco, quattro contrari.
* * *
Un
proverbio tedesco dice: “Le rivoluzioni annunciate in anticipo non hanno mai
luogo”. Lo stesso vale per le guerre.
Le
questioni nucleari sono soggette a una censura militare molto rigida. Ma
davvero molto rigida.
Tuttavia
il censore sembra sorridere benevolmente. Lasciate che i ragazzi, compresi il
primo ministro e il ministro della difesa (il massimo capo del censore)
facciano il loro gioco.
Il
popolare Meir Dagan, per molto tempo a capo del Mossad, ha pubblicamente messo
in guardia dall'attaccare, ritenendo che sia l' “idea più stupida che egli
abbia mai sentito”. Ha spiegato che considera un suo dovere farlo, considerati
i piani di Netanyahu e Barak.
Mercoledì
2 novembre c'è stata una vera e propria fuga di notizie. Israele ha testato un
missile che può trasportare una bomba nucleare a più di 5000 km di distanza,
oltre tu sai dove. E la nostra aviazione ha appena completato alcune
esercitazioni in Sardegna, ancor più lontano di tu sai dove. E il giorno dopo,
l' Home Front Command ha tenuto altre esercitazioni nell'intera area
metropolitana di Tel Aviv, tra il suono incessante delle sirene.
Tutto
sembra suggerire che l'intero clamore sia solo uno stratagemma. Forse per
spaventare e dissuadere gli Iraniani. Forse per spingere gli americani ad
azioni più estreme. Magari coordinate in principio con gli stessi americani
(fonti britanniche, inoltre, fanno trapelare che la Royal Navy si sta
preparando per supportare un attacco americano all'Iran).
È una
vecchia tattica di Israele: agire come se stessimo impazzendo (“Il capo è
impazzito” si è soliti urlare nei nostri mercati, per suggerire che il
fruttivendolo sta vendendo sotto costo). Non dobbiamo più prestare ascolto agli
Stati Uniti. Dobbiamo semplicemente bombardare, bombardare e bombardare.
Bene,
siamo seri per un momento.
* * *
Israele
non attaccherà l'Iran. Punto.
Alcuni
potranno pensare che stia azzardando troppo. Dovrei aggiungere almeno “probabilmente”
o “quasi sicuramente”?
Non lo farò.
Al contrario ripeto categoricamente: Israele NON attaccherà l'Iran.
Dalla
vicenda Suez del 1956, quando il Presidente Dwight D. Eisenhower lanciò un
ultimatum che fermò l'intervento bellico, Israele non ha mai intrapreso nessun
operazione militare significativa senza prima ottenere il consenso degli USA.
Gli Stati
Uniti sono l'unico alleato fidato di Israele nel mondo (oltre, forse, Fiji,
Micronesia, le isole Marshall e Palau). Rovinare un tale rapporto
significherebbe tagliare la nostra linea della vita. Per fare questo, devi
essere più che semplicemente pazzo. Devi essere matto da legare.
Inoltre,
Israele non può combattere una guerra senza il supporto illimitato degli
americani, perché i nostri aerei e le nostre bombe vengono dagli USA. Durante
un conflitto, c'è bisogno di rifornimenti, ricambi, di ogni forma di
equipaggiamento. Nella guerra del Kippur, Henry Kissinger organizzò un ponte
aereo che ci riforniva ventiquattrore su ventiquattro. E quella guerra
sembrerebbe probabilmente una scampagnata rispetto a una contro l'Iran.
* * *
Diamo
un'occhiata alla cartina. É sempre raccomandabile farlo, tra l'altro, prima di
iniziare qualsiasi guerra.
Il primo
punto che salta agli occhi è lo stretto di Hormuz, attraverso cui circola su
nave un terzo della fornitura mondiale di petrolio. Quasi l'intera produzione
dell'Arabia saudita, degli stati del Golfo, di Iraq e Iran deve
obbligatoriamente passare per questa strettoia di mare.
“Stretto”,
poi, è una parola grossa. La larghezza totale di questa strada marittima è di
circa 35 chilometri. É più o meno pari alla distanza che vi è tra Gaza e Beer
Sheva, coperta la scorsa settimana dai razzi primitivi della Jihad islamica.
Quando il
primo velivolo israeliano sconfinerà nello spazio aereo iraniano, lo stretto
sarà chiuso. La marina iraniana è dotata di parecchie motocannoniere ma non ci
sarà bisogno di usarle. Basteranno le postazioni missilistiche terrestri.
Il mondo
si trova già in bilico sull'orlo del baratro. La piccola Grecia sembra poter
precipitare e portarsi con sé settori rilevanti dell'economia mondiale.
L'eliminazione di quasi un quinto delle risorse di petrolio delle nazioni
industrializzate comporterebbe, quindi, una catastrofe difficile anche a
immaginarsi.
Riaprire
lo stretto con la forza richiederebbe un'importante operazione militare
(incluso un intervento di truppe via terra) che farebbe passare in secondo
piano tutti i problemi degli americani in Iraq e Afghanistan. Possono
sopportarlo gli USA? E la NATO? La stessa Israele non sarebbe in grado.
* * *
In ogni
caso Israele sarebbe pienamente coinvolta nell'azione, magari come destinataria
dell'attacco.
In una
rara dimostrazione di unità, tutti i capi dell'intelligence israeliana,
compresi quelli del Mossad e dello Shin Bet, si stanno pubblicamente opponendo
all'idea di un'intervento militare. Possiamo solo immaginare il perché.
Non so se
l'operazione sia così fattibile. L'Iran è un Paese molto vasto, più o meno
l'estensione dell'Alaska: le installazioni nucleari sono ampiamente disseminate
sul territorio e generalmente segrete. Anche con le speciali bombe ad alta
penetrazione fornite dagli Stati Uniti, una tale operazione potrebbe vanificare
le iniziative iraniane – quali esse siano – solo per qualche mese. Il prezzo
rischierebbe di essere troppo alto per dei risultati così miseri.
Per di più,
è quasi certo che con l'inizio di una guerra, pioveranno missili su Israele –
non solo dall'Iran, ma anche da Hezbollah, e forse da Hamas. Non abbiamo difese
adeguate per le nostre città. Il numero dei morti e dei danni sarebbe
insostenibile.
Tutt'a un
tratto, i media mandano in onda innumerevoli servizi sui nostri tre
sottomarini, che presto diventeranno cinque, o anche sei, se i tedeschi si
mostreranno comprensivi e generosi. Viene detto apertamente che grazie a essi
avremo la possibilità di effettuare un “secondo colpo” nucleare, qualora l'Iran
dovesse usare le sue (non ancora esistenti) testate atomiche contro di noi.
E per
finire c'è il prezzo politico. C'è molta tensione nel mondo islamico. L'Iran è
ben lungi dall'essere popolare in molte parti di esso. Ma un attacco di Israele
contro un importante paese musulmano unirebbe all'istante Sunniti e Sciiti,
dall'Egitto e la Turchia fino al Pakistan e oltre. Israele potrebbe diventare
una villa in una giungla in fiamme (“villa in una giungla” è come Barak
definisce Israele rispetto al Medio Oriente, n.d.t.).
* * *
Ma il
dibattito sulla guerra è utile a molti scopi, compresi quelli della politica
interna.
Sabato 29
ottobre, il movimento di protesta si è rianimato. Dopo una pausa di due mesi,
una massa di persone si è riunita in piazza Rabin a Tel Aviv. È un dato
abbastanza significativo se si tiene conto che nello stesso giorno alcuni razzi
stavano cadendo su alcune città della striscia di Gaza. Fino ad oggi, in una
tale situazione le dimostrazioni sarebbero state annullate. I problemi di
sicurezza hanno la priorità su qualsiasi altra cosa. Non stavolta.
In molti
credevano, poi, che l'euforia delle celebrazioni per Gilad Shalit avrebbe
rimosso la protesta dai pensieri della gente. Non l'ha fatto.
È da
notare, invece, una cosa che è accaduta: i media, dopo aver appoggiato per mesi
la protesta, hanno cambiato atteggiamento. Improvvisamente tutti, compreso
Haaretz, si son messi a pugnalare il movimento alle spalle. Come se ordinati da
qualcuno, il giorno successivo tutti i giornali hanno scritto che “in più di
20mila” hanno preso parte alla manifestazione. Beh, io ero là, e ho una certa
idea di queste cose. C'erano almeno 100mila persone, per lo più giovani. Potevo
a malapena muovermi.
La
protesta non si è esaurita, come sostengono i media. È ben lontano dal farlo.
Ma quale modo migliore che parlare di un “pericolo esistenziale reale” per
distogliere la mente della gente dalla giustizia sociale?
Inoltre,
le riforme chieste dai manifestanti avrebbero bisogno di soldi. In vista della
crisi finanziaria mondiale, il governo si oppone strenuamente ad un aumento del
bilancio, per paura che il rating del credito venga declassato.
Ma allora,
da dove si possono prendere questi soldi? Ci sono solo tre possibili soluzioni:
gli insediamenti (e chi si azzarderebbe a toccarli?), la Chiesa ebraica
ortodossa (idem!) e le enormi spese militari.
Tuttavia,
alla vigilia di una delle guerre più cruciali della nostra storia, chi toccherebbe
le forze armate? Abbiamo bisogno di ogni shekel (moneta israeliana, n.d.t.) per
comprare più aerei, più bombe, più sottomarini. Scuole e ospedali devono, ahimè,
aspettare.
Perciò Dio
benedica Mahmoud Ahmadinejad. Dove saremmo senza di lui?
Note:
URI AVNERY
è uno scrittore e pacifista israeliano del movimento Gush Shalom. È un
collaboratore del libro “La politica dell'anti-semitismo” (Counter Punch
editore).
Tradotto
da Valerio Macchia.
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