mercoledì 7 dicembre 2011

Perché Israele non attaccherà l'Iran (secondo Uri Avnery)



Perché Israele non attacchera' l'Iran
Secondo Uri Avnery, scrittore e pacifista israeliano, Israele non attaccherà l'Iran. In questo articolo ci spiega perché.
10 novembre 2011 - Uri Avnery
Fonte: www.counterpunch.org - 03 novembre 2011

Tutti hanno bene a mente la classica scena a scuola del ragazzetto che ha una discussione con un tipo più grosso di lui. “Trattenetemi” grida rivolto ai suoi amici, “prima che gli rompa le ossa”.
Il nostro governo sembra comportarsi alla stessa maniera. Ogni giorno, attraverso tutti i canali, fa sapere a gran voce che da un momento all'altro romperà le ossa dell'Iran.
L'Iran sta per mettere a punto un ordigno nucleare. Non possiamo permetterlo. Quindi dobbiamo raderli al suolo.
Binyamin Netanyahu lo dice in ognuno nei suoi innumerevoli discorsi, incluso quello d'apertura della sessione invernale del Knesset (parlamento d'Israele). Allo stesso modo fa Ehud Barak. Ogni cronista che si rispetti (qualcuno ne ha visto mai uno che non si rispetti?) scrive sull'argomento. I media ne amplificano il tono e il furore.
“Haaretz” ha sbattuto in prima pagina le foto dei sette ministri più importanti (il “settetto di sicurezza”) annunciando che tre sono favorevoli all'attacco, quattro contrari.
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Un proverbio tedesco dice: “Le rivoluzioni annunciate in anticipo non hanno mai luogo”. Lo stesso vale per le guerre.
Le questioni nucleari sono soggette a una censura militare molto rigida. Ma davvero molto rigida.
Tuttavia il censore sembra sorridere benevolmente. Lasciate che i ragazzi, compresi il primo ministro e il ministro della difesa (il massimo capo del censore) facciano il loro gioco.
Il popolare Meir Dagan, per molto tempo a capo del Mossad, ha pubblicamente messo in guardia dall'attaccare, ritenendo che sia l' “idea più stupida che egli abbia mai sentito”. Ha spiegato che considera un suo dovere farlo, considerati i piani di Netanyahu e Barak.
Mercoledì 2 novembre c'è stata una vera e propria fuga di notizie. Israele ha testato un missile che può trasportare una bomba nucleare a più di 5000 km di distanza, oltre tu sai dove. E la nostra aviazione ha appena completato alcune esercitazioni in Sardegna, ancor più lontano di tu sai dove. E il giorno dopo, l' Home Front Command ha tenuto altre esercitazioni nell'intera area metropolitana di Tel Aviv, tra il suono incessante delle sirene.
Tutto sembra suggerire che l'intero clamore sia solo uno stratagemma. Forse per spaventare e dissuadere gli Iraniani. Forse per spingere gli americani ad azioni più estreme. Magari coordinate in principio con gli stessi americani (fonti britanniche, inoltre, fanno trapelare che la Royal Navy si sta preparando per supportare un attacco americano all'Iran).
È una vecchia tattica di Israele: agire come se stessimo impazzendo (“Il capo è impazzito” si è soliti urlare nei nostri mercati, per suggerire che il fruttivendolo sta vendendo sotto costo). Non dobbiamo più prestare ascolto agli Stati Uniti. Dobbiamo semplicemente bombardare, bombardare e bombardare.
Bene, siamo seri per un momento.
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Israele non attaccherà l'Iran. Punto.
Alcuni potranno pensare che stia azzardando troppo. Dovrei aggiungere almeno “probabilmente” o “quasi sicuramente”?
Non lo farò. Al contrario ripeto categoricamente: Israele NON attaccherà l'Iran.
Dalla vicenda Suez del 1956, quando il Presidente Dwight D. Eisenhower lanciò un ultimatum che fermò l'intervento bellico, Israele non ha mai intrapreso nessun operazione militare significativa senza prima ottenere il consenso degli USA.
Gli Stati Uniti sono l'unico alleato fidato di Israele nel mondo (oltre, forse, Fiji, Micronesia, le isole Marshall e Palau). Rovinare un tale rapporto significherebbe tagliare la nostra linea della vita. Per fare questo, devi essere più che semplicemente pazzo. Devi essere matto da legare.
Inoltre, Israele non può combattere una guerra senza il supporto illimitato degli americani, perché i nostri aerei e le nostre bombe vengono dagli USA. Durante un conflitto, c'è bisogno di rifornimenti, ricambi, di ogni forma di equipaggiamento. Nella guerra del Kippur, Henry Kissinger organizzò un ponte aereo che ci riforniva ventiquattrore su ventiquattro. E quella guerra sembrerebbe probabilmente una scampagnata rispetto a una contro l'Iran.
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Diamo un'occhiata alla cartina. É sempre raccomandabile farlo, tra l'altro, prima di iniziare qualsiasi guerra.
Il primo punto che salta agli occhi è lo stretto di Hormuz, attraverso cui circola su nave un terzo della fornitura mondiale di petrolio. Quasi l'intera produzione dell'Arabia saudita, degli stati del Golfo, di Iraq e Iran deve obbligatoriamente passare per questa strettoia di mare.
“Stretto”, poi, è una parola grossa. La larghezza totale di questa strada marittima è di circa 35 chilometri. É più o meno pari alla distanza che vi è tra Gaza e Beer Sheva, coperta la scorsa settimana dai razzi primitivi della Jihad islamica.
Quando il primo velivolo israeliano sconfinerà nello spazio aereo iraniano, lo stretto sarà chiuso. La marina iraniana è dotata di parecchie motocannoniere ma non ci sarà bisogno di usarle. Basteranno le postazioni missilistiche terrestri.
Il mondo si trova già in bilico sull'orlo del baratro. La piccola Grecia sembra poter precipitare e portarsi con sé settori rilevanti dell'economia mondiale. L'eliminazione di quasi un quinto delle risorse di petrolio delle nazioni industrializzate comporterebbe, quindi, una catastrofe difficile anche a immaginarsi.
Riaprire lo stretto con la forza richiederebbe un'importante operazione militare (incluso un intervento di truppe via terra) che farebbe passare in secondo piano tutti i problemi degli americani in Iraq e Afghanistan. Possono sopportarlo gli USA? E la NATO? La stessa Israele non sarebbe in grado.
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In ogni caso Israele sarebbe pienamente coinvolta nell'azione, magari come destinataria dell'attacco.
In una rara dimostrazione di unità, tutti i capi dell'intelligence israeliana, compresi quelli del Mossad e dello Shin Bet, si stanno pubblicamente opponendo all'idea di un'intervento militare. Possiamo solo immaginare il perché.
Non so se l'operazione sia così fattibile. L'Iran è un Paese molto vasto, più o meno l'estensione dell'Alaska: le installazioni nucleari sono ampiamente disseminate sul territorio e generalmente segrete. Anche con le speciali bombe ad alta penetrazione fornite dagli Stati Uniti, una tale operazione potrebbe vanificare le iniziative iraniane – quali esse siano – solo per qualche mese. Il prezzo rischierebbe di essere troppo alto per dei risultati così miseri.
Per di più, è quasi certo che con l'inizio di una guerra, pioveranno missili su Israele – non solo dall'Iran, ma anche da Hezbollah, e forse da Hamas. Non abbiamo difese adeguate per le nostre città. Il numero dei morti e dei danni sarebbe insostenibile.
Tutt'a un tratto, i media mandano in onda innumerevoli servizi sui nostri tre sottomarini, che presto diventeranno cinque, o anche sei, se i tedeschi si mostreranno comprensivi e generosi. Viene detto apertamente che grazie a essi avremo la possibilità di effettuare un “secondo colpo” nucleare, qualora l'Iran dovesse usare le sue (non ancora esistenti) testate atomiche contro di noi.
E per finire c'è il prezzo politico. C'è molta tensione nel mondo islamico. L'Iran è ben lungi dall'essere popolare in molte parti di esso. Ma un attacco di Israele contro un importante paese musulmano unirebbe all'istante Sunniti e Sciiti, dall'Egitto e la Turchia fino al Pakistan e oltre. Israele potrebbe diventare una villa in una giungla in fiamme (“villa in una giungla” è come Barak definisce Israele rispetto al Medio Oriente, n.d.t.).
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Ma il dibattito sulla guerra è utile a molti scopi, compresi quelli della politica interna.
Sabato 29 ottobre, il movimento di protesta si è rianimato. Dopo una pausa di due mesi, una massa di persone si è riunita in piazza Rabin a Tel Aviv. È un dato abbastanza significativo se si tiene conto che nello stesso giorno alcuni razzi stavano cadendo su alcune città della striscia di Gaza. Fino ad oggi, in una tale situazione le dimostrazioni sarebbero state annullate. I problemi di sicurezza hanno la priorità su qualsiasi altra cosa. Non stavolta.
In molti credevano, poi, che l'euforia delle celebrazioni per Gilad Shalit avrebbe rimosso la protesta dai pensieri della gente. Non l'ha fatto.
È da notare, invece, una cosa che è accaduta: i media, dopo aver appoggiato per mesi la protesta, hanno cambiato atteggiamento. Improvvisamente tutti, compreso Haaretz, si son messi a pugnalare il movimento alle spalle. Come se ordinati da qualcuno, il giorno successivo tutti i giornali hanno scritto che “in più di 20mila” hanno preso parte alla manifestazione. Beh, io ero là, e ho una certa idea di queste cose. C'erano almeno 100mila persone, per lo più giovani. Potevo a malapena muovermi.
La protesta non si è esaurita, come sostengono i media. È ben lontano dal farlo. Ma quale modo migliore che parlare di un “pericolo esistenziale reale” per distogliere la mente della gente dalla giustizia sociale?
Inoltre, le riforme chieste dai manifestanti avrebbero bisogno di soldi. In vista della crisi finanziaria mondiale, il governo si oppone strenuamente ad un aumento del bilancio, per paura che il rating del credito venga declassato.
Ma allora, da dove si possono prendere questi soldi? Ci sono solo tre possibili soluzioni: gli insediamenti (e chi si azzarderebbe a toccarli?), la Chiesa ebraica ortodossa (idem!) e le enormi spese militari.
Tuttavia, alla vigilia di una delle guerre più cruciali della nostra storia, chi toccherebbe le forze armate? Abbiamo bisogno di ogni shekel (moneta israeliana, n.d.t.) per comprare più aerei, più bombe, più sottomarini. Scuole e ospedali devono, ahimè, aspettare.
Perciò Dio benedica Mahmoud Ahmadinejad. Dove saremmo senza di lui?
Note:
URI AVNERY è uno scrittore e pacifista israeliano del movimento Gush Shalom. È un collaboratore del libro “La politica dell'anti-semitismo” (Counter Punch editore).

Tradotto da Valerio Macchia.

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