Sulla base delle diverse
condizioni di base e dei fattori strutturali, a Nord e a Sud del Brennero si è
sviluppata una cultura della vita privata e pubblica molto diversa. […] il
Tirolo ha potuto e voluto rimanere attaccato alla sua tradizione.
Presumibilmente non c’è stata la necessità di ridefinire la propria identità.
Invece nel Trentino Alto Adige la situazione è diversa. Questa Regione si è in
parte integrata nella cultura italiana, ma in parte ha percorso nuove strade.
Nel Trentino Alto Adige, con la spinta generata dalla posizione geopolitica e
dall’obbligo di inventare un sistema di convivenza plurietnico è sorta la
necessità di creare una nuova identità culturale e sociale.
Hermann Denz
Un egoismo e un
provincialismo tramandati da generazioni - e che spesso si travestito da
indifferenza - restringe talmente la visuale da limitare la vista a
piccolissimi ambiti delle molteplici questioni che ci riguardano. Non c'è
dunque da meravigliarsi se i tirolesi non vedono oltre i confini del Tirolo e
gli svizzeri appena un po' oltre i confini del rispettivo cantone! Sino a
quando non ci abitueremo a considerare i nostri problemi nell'ottica più ampia
del contesto mondiale continuerà a mancarci il senso storico del tempo e degli
avvenimenti. Nessuno può più permettersi di far finta di abitare su un'isola.
Alexander Langer, “Segni dei tempi”.
Pius Leitner, consigliere
provinciale dei Freiheitlichen, ha presentato un ordine del giorno durante la
discussione della legge sull' immigrazione avente come scopo di impedire - per
legge - l'ingresso in Alto Adige di immigrati anziani e bambini immigrati
malati. Si tratta di una proposta semplicemente inqualificabile. Una vera
agghiacciante infamità lanciata in una società che è già devastata da 20 anni
di rancori sociali costruiti ad arte contro i migranti, capro espiatorio ideale
di ogni disagio sociale. […]. Le grandi tragedie del Novecento non sono nate
nel giro di pochi minuti ma attraverso un lungo percorso culturale di
costruzione del nemico, di banalizzazione della xenofobia e del pregiudizio, di
banalizzazione appunto del Male.
Luigi Gallo, assessore del comune di Bolzano
Un sondaggio condotto nel
Tirolo austriaco dall’istituto di studi sociali dell’Università di Innsbruck
nella primavera del 2011 (Donat, 2011) ha rilevato che poco meno della metà dei
Tirolesi considera una ferita l’annessione dell’Alto Adige all’Italia (“Die
Trennung von Südtirol hat tiefe Wunden hinterlassen”), un valore che resta
superiore al 40% tra i giovani. Circa il 60% vede in Andreas Hofer un eroe
(48,8% tra chi ha una laurea). Solo un 40% dei 500 rispendenti ritiene che il
Tirolo possa o debba cambiare. La metà (58,5% delle donne) vuole che rimanga
così com’è ed un 10% vorrebbe tornare indietro (16,5% tra i giovani di meno di
25 anni). Prevedibilmente, l’ordine e la sicurezza sono estremamente importanti
per il 59% degli intervistati ed il 36% si proclama tradizionalista. Il 63,2%
considera importante (21,2%) o molto importante (42%) testimoniare
pubblicamente la propria tirolesità con le bandiere, il costume tipico (Tracht)
e parlando il dialetto. Restano una maggioranza anche tra chi ha conseguito la
maturità. Il 54% dei Tirolesi pensa che chi arriva in Tirolo abbia il diritto
di coltivare la propria cultura ed il proprio stile di vita (nei limiti delle
leggi locali), ma per il 56,3% non occorre erigere alcun minareto (“Minarette
in unserem Land sind nicht notwendig”). L’autrice dello studio Elisabeth Donat,
ha sottolineato che l’amore dei Tirolesi per la propria terra acquista a tratti
una dimensione fisica, corporale, legata alle simbologie del cuore, del sangue
e delle radici. Solo un misero 0,6% si sente a casa in Europa ed un 7%
considera “casa” l’Austria. Per il 70% casa è il Tirolo, l’Heimat e una
percentuale analoga non preferirebbe vivere in nessun altro luogo del mondo. I 32 ricercatori coinvolti nel sondaggio
telefonico notano che la crisi economica e sociale ha ravvivato il desiderio di
uno spirito di coesione di stampo hoferiano („Zusammenhalt wie damals am
Bergisel“), che lascia perplesso solo il 42,7% dei rispondenti.
Complessivamente, il quadro è quello di una società fortemente ancorata ai
valori tradizionali (“fest verankert in ihren Wertestrukturen”). Questi risultati sono stati letti dai
separatisti sudtirolesi – Südtiroler Schützenbund e Süd-Tiroler
Freiheit – come una conferma
della necessità di avvalersi dell’indebolimento dei confini nazionali per
riunificare il Tirolo.
La più recente rilevazione
delle preferenze e delle valutazioni dei giovani altoatesini e sudtirolesi a
cura dell’Istituto provinciale di statistica di Bolzano (Ausserbrunner /
Bonifaccio / Plank / Plasinger / Sallustio / Zambiasi, 2010) offre molti spunti
di riflessione e diversi motivi di sorpresa.
Ponendo a confronto i dati
del 2004 (riportati nella medesima analisi) con quelli del 2009, notiamo che,
alla domanda “Cosa ti piace molto dell’Alto Adige?”, l’autonomia riscuote
sorprendentemente solo il 43-44% dei consensi, un dato che purtroppo non è
stato approfondito dai ricercatori. Forse è ormai un’istituzione che si dà per
scontata, nonostante tutti i sacrifici che sono stati fatti per ottenerla. Tra
il 2004 ed il 2009, la “tradizione” scende dal 33% al 30% e la possibilità di
convivere tra diversi gruppi linguistici è in flessione di ben sette punti
percentuali, dal 36% al 29%. I problemi principali
presenti in Alto Adige, dal punto di vista dei giovani dai 14 anni in su
includono: tossicodipendenza ed alcolismo (oltre il 70%); immigrazione (in
salita dal 63% al 67% tra 2004 e 2009); l’estremismo di destra e la violenza
(52%), la scarsa democrazia e possibilità di partecipazione ai processi
decisionali (che sale dal 21% ad oltre il 37%!), mentre la criminalità è in
discesa (dal 35% al 31%), come la divisione dei gruppi linguistici, che è vista
come un problema da poco meno del 43%, rispetto al 44% del 2004.
L’immigrazione è perciò decisamente un problema di forte rilevanza. Gli stranieri in Alto
Adige, provenienti da oltre 126 paesi del mondo, hanno superato la soglia dei
40mila residenti e si avviano a costituire il 10% della popolazione
complessiva, anche grazie al basso tasso di mortalità (sono, di norma, giovani)
ed all’alto tasso di natalità. Per un utile confronto, in Trentino, al 1
gennaio 2010, gli stranieri erano oltre 46mila e costituivano l’8,8% della
popolazione totale. In Veneto la percentuale ha già superato la soglia del 10%
della popolazione totale, come nel comprensorio trentino della Valle
dell’Adige. In Alto Adige, come in Trentino,
gli stranieri risiedono prevalentemente nei centri urbani.
È chiaro che un fenomeno di
queste dimensioni non può lasciare indifferenti ed è altrettanto chiaro che
chiunque abbia a cuore le sorti di questi esseri umani migranti, dovrebbe
augurarsi che il loro numero si riduca e rimangano solo i migranti per scelta,
non per necessità. Una speranza che mal si concilia con le dinamiche del
modello capitalista globalizzato.
Così, nell’odierno Alto
Adige, anche tra le persone che non considerano
l’immigrazione un problema, quasi un 37% pensa ci siano troppi immigrati e, sia
tra quelli che la considerano un problema sia tra quelli che l’accettano, vi è
una fortissima richiesta (oltre il 70%) di intervento affinché i paesi di
provenienza degli immigrati siano aiutati a sistemare i rispettivi problemi. È
interessante notare che, tra quelli che vedono l’immigrazione come un problema,
oltre un quarto è d’accordo con l’affermazione che “gli immigrati costituiscono
un arricchimento culturale per la nostra provincia” e quasi la metà sottoscrive
l’affermazione che “gli immigrati sono indispensabili per l’economia della
nostra provincia”. La xenofobia in Alto Adige esiste ed è in crescita, perché
“perfino fra i giovani/le giovani che segnalano il problema
dell’estremismo di destra e della violenza in provincia di Bolzano, coloro che
considerano un arricchimento culturale la presenza degli stranieri in provincia
non rappresentano la maggioranza”, ma non è
endemica.
In un paese come l’Italia
dove l’ignoranza viene sbandierata ai più alti livelli istituzionali, è
importante rilevare il dato che “i giovani provenienti da famiglie in cui né il
padre né la madre hanno un titolo di studio superiore alla scuola dell’obbligo,
ravvisano nell’immigrazione un grave problema con una frequenza quasi doppia
(29,5%) rispetto ai giovani appartenenti al ceto medio o alto. Appare evidente
che questo gruppo di giovani ha maggiori problemi nell’affrontare culture
diverse o persone di lingua diversa dalla propria”.
Quanto alla separazione dei
gruppi linguistici, si tratta di un fenomeno avvertito maggiormente dai
residenti urbani. È possibile che, al di fuori dei centri urbani, il contatto
con l’altro gruppo linguistico si sia ridotto. In una diversa rilevazione,
risalente al 2006 ed effettuata sull’intera popolazione residente, emergeva
chiaramente che “sono gli italiani a sentire maggiormente la problematicità
della divisione dei gruppi linguistici: il 30,8% ritiene che sia un problema
molto presente e il 41,8% che sia presente; per i tedeschi, invece, tali
percentuali sono rispettivamente dell’8,5% e del 24,7%”. “La maggior parte
degli intervistati (54,4%) ritiene che la situazione sia rimasta invariata
rispetto a cinque anni fa” (Ausserbrunner /Giungano/Koler, 2007). Com’era
prevedibile, sono più frequenti i rapporti amicali con gli altri membri del
proprio gruppo (67,3%), ma oltre un terzo frequenta giovani di un altro
gruppo linguistico (35,0%) e quasi un quarto ha stretto amicizia con degli
stranieri (24,5%). All’aumentare dell’età cresce l’eterogeneità degli amici.
Le differenze tra gruppi
linguistici sono quasi certamente di natura geografica-demografica: “i giovani
di lingua tedesca sono quelli che maggiormente tendono a rimanere fra di loro:
il 72,3% ha solo amici ed amiche dello stesso gruppo linguistico. Nei ladini la
relativa quota è pari al 74,2%, nel gruppo linguistico italiano si registra il
45,8%”, mentre “le amicizie interculturali si riscontrano invece soprattutto
fra i giovani di lingua italiana: il 42,6% ha anche amici/amiche appartenenti
ad altre nazionalità/culture. Negli altri gruppi linguistici è circa il 20% a
dare tale risposta”. È chiaro che chi vive in città ha semplicemente più
opportunità di incontrare e frequentare persone di altra lingua e cultura non
presenti su base esclusivamente stagionale. In molti comuni rurali questa è
un’eventualità remota. Lo dimostra il fatto che le percentuali di giovani che
parlano di un eccesso di immigrati non si discostano molto tra altoatesini
(62,1%), sudtirolesi (66,4%) e ladini (71,2%). Le distanze sono più marcate tra
chi è in disaccordo con l’affermazione che “sarebbe meglio che gli immigrati
tornassero a casa loro”: sono assolutamente contrari il 39,6% dei giovani di
lingua italiana, ma solo il 18,3% dei giovani sudtirolesi ed il 15,2% dei
ladini. Ma è anche vero che, tra chi è molto d’accordo, le percentuali sono del
tutto analoghe: il 12,4% dei sudtirolesi e l’11,8% degli altoatesini (il 16,2%
per i ladini). Dunque le divergenze esistono, ma non sono di natura
etnico-linguistica.
Il senso dell’obbligo di assistenza
nei confronti dei migranti è purtroppo diminuito marcatamente negli ultimi
dieci anni, immagino essenzialmente a causa della crisi economica: si è passati
da un eccellente 68,0% del 1999, ad un ottimo 62,6% nel 2004, fino ad un
mediocre 49,4% dei nostri giorni. Molto positivo è quel 34,8% degli
intervistati che considera la presenza degli stranieri come un arricchimento
culturale, con un incremento di oltre 10 punti percentuali rispetto al 1999, a
dimostrazione del fatto che, per molte persone, la conoscenza reciproca attenua
sfiducia e sospetto ed incrementa il senso di apertura all’altro. Ancora una
volta il luogo di residenza – centri urbani o centri rurali – è decisivo. Gli
“xenofili” sono proporzionalmente più numerosi tra gli altoatesini (56,1%) che
negli altri gruppi linguistici (poco meno del 30%). I ricercatori dell’ASTAT
confermano che vi è “una correlazione significativa fra il grado di ostilità ed
i contatti con i concittadini stranieri: i ragazzi e le ragazze che più si
dimostrano ostili nei confronti degli stranieri sono coloro che più
frequentemente hanno solo amici/amiche all’interno del loro gruppo linguistico.
I giovani ostili verso gli stranieri hanno molto meno contatti personali con
cittadini stranieri. In presenza, invece, di contatti con altre culture o
nazioni, l’atteggiamento ostile si attenua sensibilmente. […]. I giovani che
hanno amici stranieri dimostrano una maggiore apertura culturale, pretendono in
misura minore che gli stranieri si adeguino al mondo culturale locale ed infine
tendono meno ad affermazioni negative riguardo ai cittadini stranieri” (pp.
49-51). In piena corrispondenza con questa valutazione, l’estremismo di destra
è meno un problema a Bolzano e in Ladinia che nel resto dell’Alto Adige, dove
sfiora o supera abbondantemente il 50%. A dispetto dei proclami ufficiali e con
buona pace di chi difende la segmentazione etnica, quest’ultima rappresenta
perciò una minaccia per la coesione sociale e per la sicurezza dei cittadini.
Un dato che dovrebbe far riflettere, in una società normale.
Passando quindi alla
politica, il coinvolgimento è molto basso ed in calo rispetto al 2004. Solo la
metà degli intervistati ha partecipato ad uno sciopero o ad una manifestazione
politica. In un mondo integralmente globalizzato, sorprende che ben due terzi
dei giovani altoatesini/sudtirolesi si interessino poco o niente delle vicende
politiche internazionali. Non a caso, solo il 35,4% degli intervistati è
curioso di conoscere il mondo, in flessione dal 36,1% del 2004. Il maggior polo
di attrazione, la politica provinciale (che batte quella comunale) attira
comunque poco più di un 40% di interesse. Ciò che dovrebbe preoccupare è che la
democrazia rappresentativa risulta completamente screditata: oltre l’80% dei
giovani è del parere che gli esponenti politici facciano i propri interessi
personali. Non bisognerebbe però tacciare di qualunquismo i giovani dell’Alto
Adige. Contrariamente a quanto si aspetterebbero i cinici, “colpisce il fatto
che con l’aumentare dell’età aumentano anche le posizioni negative sui
politici, come pure l’opinione secondo cui i giovani si interessano di temi
politici” (p. 118). È vero che il materialismo sembra dominare l’orizzonte di
ciò che è considerato “in”, ma è anche vero che il volontarismo e la solidarietà
sono ben radicati e che in testa alla classifica c’è, a pari merito con “avere
un bell’aspetto”, anche la voce “viaggiare”. Inoltre trovo molto incoraggiante
il fatto che una prospettiva quasi unanimemente condivisa rimanga quella di
“metter su famiglia” e che tra i fattori che fanno funzionare un matrimonio al
primo posto ci siano lealtà, fedeltà, rispetto e stima reciproci (oltre il 90%)
e comprensione e tolleranza reciproche (oltre l’80%) ed agli ultimi posti la
“stessa provenienza culturale” (12,6%) e lo “stesso gruppo linguistico” (8,6%).
La mia opinione coincide
con quella di Aung San Suu Kyi: “Non trovo niente di sbagliato nelle persone
che identificano la felicità in una casa, due automobili e una famiglia. Se è
una famiglia davvero felice, creerà felicità intorno a sé, perciò non c’è
niente di male. Credo anche che la mediocrità nei desideri non sia un crimine,
né qualcosa di cui vergognarsi. Anzi, ammiro le persone che hanno desideri
contenuti e che non cedono ad essi continuamente. È molto in sintonia con il
pensiero buddista. Certo, se però la casa e le due automobili diventano il fine
ultimo dell’esistenza e una persona è pronta a fare di tutto per ottenerli,
anche calpestare altre persone, ovviamente questo non è giusto. Viceversa, se
si ha questa ambizione mediocre e ci si impegna con rigore ed equità, senza far
del male al prossimo per raggiungere questa mediocre esistenza con una casa,
due auto e una famiglia felice, non penso ci sia niente di sbagliato. Molte
persone che all’apparenza sembrano degli individui qualsiasi hanno menti molto
aperte e valori spirituali di cui noi siamo all’oscuro” (Aung San Suu Kyi,
2008, p. 220).
Le notizie veramente cattive provengono dalla sezione
dedicata alla violenza, che indica un’allarmante escalation di propensione all'uso della forza rispetto a solo cinque anni fa: “è quasi raddoppiata la quota di giovani
altoatesini disposti ad utilizzare anche la forza fisica per far valere i
propri interessi (dal 12,2% di chi nel 2004 si dichiarava “totalmente
d’accordo” o “d’accordo” al 21,2% del 2009). […]. Nel 2009 il 31,4% dei maschi
approva il ricorso alla forza fisica, contro il 17,9% del 2004” (p. 148).
Persino tra le ragazze che, di norma, rimangono in favore della nonviolenza e
timorose di ogni violenza, la percentuale di contrarietà all’uso di metodi
violenti è scesa dal 76,9% del 2004 al 69,3% del 2009. Quest’inclinazione
diminuisce all’aumentare dell’età, ma rimane piuttosto alta anche nella classe
23-25 anni (16,6%), dove è più che triplicata (!) rispetto al 2004 (raddoppiata
tra i 20-22enni). L’ineludibile constatazione degli analisti è che “anche il
solo fatto di approvare un comportamento violento è in crescita tra gli
adolescenti: coloro che pur non adoperando mai la forza fisica, ritengono
comunque giusto che ci siano persone che mettono a posto le cose in questo
modo, sono passati dal 18,6% del 2004 al 23,2% del 2009, mentre rimane
sostanzialmente stabile la quota di coloro che reputano normale l’uso della
forza fisica nel genere umano per imporsi (dal 14,8% al 15,0%)”. Si sottolinea
infine che chi ha ricevuto un’educazione violenta tende a comportarsi in modo
più violento e chi ha avuto genitori più propensi al dialogo sceglierà la
nonviolenza come metodo di risoluzione dei conflitti.
Quello della violenza è il
problema centrale della nostra specie e della nostra civiltà. Non siamo miti,
tendiamo all’egoismo, all’egocentrismo ed alla sopraffazione e per di più
abbiamo raggiunto un livello di avanzamento della nostra tecnologia bellica e
neurocognitiva che garantisce la nostra autoestinzione o la nostra riduzione in
un asservimento inebetito. È dunque quanto mai stupefacente che, sul tema della
violenza domestica ed extra-domestica, gli autori dell’indagine sugli stili di
vita e orientamenti di valore in provincia di Bolzano del 2006 abbiano dovuto
rimarcare come “la decisione di effettuare questo sondaggio è legata alla
scarsità dei dati disponibili in questo ambito. Finora in Alto Adige sulle
cause e le conseguenze della violenza in famiglia non esistono dati rappresentativi”
(Ausserbrunner /Giungano/Koler, 2007, p. 154). È ancora più paradossale che ciò
avvenga proprio in Alto Adige, una regione con una storia di violenza politica
da una parte e dall’altra del crinale etnico-linguistico ed in cui il conflitto
permanente tra gruppi umani è stato istituzionalizzato.
È plausibile che ciò sia
avvenuto perché, dato il robusto sostrato autoritario di entrambe le culture
dominanti (quella di lingua tirolese-tedesca e quella di lingua italiana – si
vedano i dati che seguono), la ragionevole definizione di “violenza” adottata
dai ricercatori dell’ASTAT – “ogni azione compiuta (oppure la relativa
minaccia) da una persona per recare danno ad un’altra persona o per
costringerla a fare (o non fare) qualcosa, senza tener conto o violando la
volontà dell’altra persona” (Ausserbrunner /Giungano/Koler, 2007, p. 153) –
sarebbe rigettata categoricamente anche da molti esponenti politici. Nel
Devoto-Oli è riportata la seguente definizione: “azione volontaria, coercitiva,
esercitata da un soggetto su un altro, in modo da determinarlo ad agire contro
la sua volontà”. Per violenza sulle donne, le Nazioni Unite intendono “ogni
atto di violenza indirizzato alle persone di sesso femminile che abbia o possa
avere come risultato un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica
per la donna, così come le minacce di questi atti, la coazione o la privazione
arbitraria della libertà, tanto se si producono nella vita pubblica come nella
vita privata” (Risoluzione 48/104, 1993). Stando a questa definizione, che
condivido, Gandhi e Tolstoj, due apostoli della nonviolenza, erano estremamente
ed intollerabilmente violenti nei confronti delle loro famiglie. Quasi tutte le
loro biografie fanno riferimento non solo all’occasionale impiego della forza
contro le rispettive mogli ma anche ai ricatti psicologici più feroci, all’uso
del digiuno (Gandhi) e del vittimismo (Gandhi e soprattutto Tolstoj) come arma
di coercizione. Ciò non toglie nulla ai loro meriti, ma deve solo aiutarci a
capire che siamo tutti, inevitabilmente violenti. Non c’è una Bestia Interiore
pronta a scatenarsi su tutto e tutti, ma non siamo neppure degli angeli
storditi da una cultura della violenza: siamo contemporaneamente angelici e
demonici e forse proprio questa interazione ci consente di maturare
spiritualmente, apprendendo dai nostri errori e imparando ad essere tolleranti
verso le manchevolezze altrui, che quasi sempre sono anche le nostre.
Perciò Gandhi e Tolstoj non
potevano che essere violenti, a dispetto delle loro migliori intenzioni, perché
solo una definizione inadeguata e fin troppo generosa di violenza ci
escluderebbe dal novero dei violenti. Questo è un pianeta violento e noi non
siamo all’altezza delle nostre durevoli e poderose aspirazioni – quelle
giustamente esaltate dai due suddetti maestri spirituali. L’esistenza stessa di
questi aneliti dimostra peraltro la nostra libertà – per quanto costretta da
determinismi e vizi innati e cronicizzati – e indica la possibilità che
esistano realtà diverse, nonviolente, in un certo senso edeniche, dalle quali
forse qualcuno proviene e dove forse qualcuno è diretto, come si augurava
Gandhi: “vi sarà, allora, uno Stato di anarchia illuminata. In tale Stato
ognuno sarà il governante di se stesso. E si governerà in maniera da non essere
mai di ostacolo al prossimo” (Young India, 2 luglio 1931). Un’utopia, ma
un’utopia da impiegare come riferimento ultimo.
Alla luce di quanto detto, il sistema di proporzionale etnica è un
vero e proprio atto di violenza ai danni di chi non vuole essere incasellato
per la sua intera esistenza a beneficio di una minoranza di militanti
dell’etnia. In altre parole, l’attuale sistema è un apparato di legittimazione di una violenza psicologica e spirituale,
“giustificato” dalle violenze (anche fisiche) del passato e da quelle che
potrebbero insorgere negli anni a venire. Purtroppo però, come dimostrano
questi studi empirici, è proprio la sua attuale conformazione ad assicurare che
rimangano alti il livello della tensione e la possibilità che questa stessa
tensione sfoci nella violenza. Che questo dato di fatto non sia riconosciuto
come tale non sorprende, proprio alla luce del fatto che il tema delle violenze
domestiche è stato metodicamente trascurato per così a lungo e che molte altre
forme di violenza, dal ricatto, alla minaccia, al controllo coercitivo, allo
stalking (pedinamento/persecuzione), alla privazione del sonno, al
sconfinamento in casa, alla distruzione di oggetti di valore affettivo,
all’istinto di possesso, alla gelosia maniacale, alla critica distruttiva,
all’umiliazione non sono probabilmente identificate come tali.
Riguardo alla violenza
fisica, i dati indicano che 13 donne su 100 e 5 uomini su 100 hanno subito
nella loro infanzia/gioventù violenza sessuale in una forma qualsiasi, quasi
mai da sconosciuti (6,6%). “Il 7,2% degli uomini e l’8,2% delle donne afferma
di avere subito dal partner attuale una qualche forma di violenza fisica.
Includendo anche i partner precedenti, la percentuale sale complessivamente al
9,0%”. Il 30% di chi chiede aiuto è un uomo e si registra una “forte
correlazione tra uso di stupefacenti e maggior ricorso alla violenza”. Dopo il
Meridione d’Italia, la maggior concentrazione di denunce per violenze
domestiche si registra in Friuli ed in Alto Adige. C’è ragione di credere che l’omertà
diffusa celi un considerevole numero di abusi, ma va anche detto che è
altrettanto possibile che questi valori indichino invece una maggior
propensione alla denuncia, rispetto ad altre aree (Savona/Caneppele, 2006).
La ricerca demoscopica del
2006 (pubblicata nel 2007) si dimostra molto utile per valutare il livello di
(in)tolleranza della popolazione locale nei confronti di altre categorie
dell’alterità, come gli omosessuali e i non-cattolici. Uno scoraggiante 41% degli intervistati è abbastanza o totalmente
d’accordo con la condotta severa della Chiesa nei riguardi dell’omosessualità,
mentre solo un misero 26% la critica in modo categorico. Come se non
bastasse, disaggregando il dato per età e per genere, si scopre che, tra i
giovani fino a 34 anni, quelli dai quali ci si aspetterebbe maggiore tolleranza
ed apertura mentale, oltre il 28% si allinea alla posizione del Vaticano
sull’omosessualità. Tra i maschi di ogni età la percentuale di condivisioni
sale al 48,1%. A me pare – e mi auguro di essere contraddetto –, che
l’interpretazione più realistica di questo valore sia che, almeno tra gli
adulti di sesso maschile residenti in Alto Adige, l’omofobia sia purtroppo
endemica. Questa mia impressione è confortata dal 45,1% di ragazzi che considera l’omosessualità innaturale – contro
un 14,2% di ragazze – e dal 10,5% che addirittura vorrebbe vederla punita, come
se fosse un crimine. È singolare che si possa considerare innaturale e
punibile un orientamento sessuale che interessa l’8,8% dei giovani altoatesini
tra i 14 e i 25 anni
(Ausserbrunner/Bonifaccio/Plank/Plasinger/Sallustio/Zambiasi, 2010).
Cosa ci dicono invece le
due indagini sul ruolo e la condizione delle donne? Ci dicono che permangono
idee spiccatamente tradizionali: oltre
il 40% di uomini e donne ritiene che le donne dovrebbero lavorare solo se
costrette da necessità economiche e,
mentre “le donne continuano ad accollarsi la maggior parte dei compiti
domestici” e subiscono violenze domestiche con una frequenza considerevole,
oltre il 75% degli intervistati non crede che la discriminazione contro le
donne sia un vero problema (Ausserbrunner /Giungano/Koler, 2007). La situazione
non migliora tra i giovani, tra i quali, “La discriminazione della donna o
dell’uomo sono considerati problemi di lieve entità da tutti i gruppi
socio-demografici, non raggiungendo la soglia del 10%”
(Ausserbrunner/Bonifaccio/Plank/Plasinger/Sallustio/Zambiasi, 2010). Ci sarebbe
di che rimanerne sbigottiti, se non fosse un risultato tristemente scontato in
una società pronunciatamente patriarcale (Fait/Fattor, 2010).
Infine la fede. La Chiesa è
ancora una presenza imponente nella società altoatesina. Circa il 40% della popolazione è in favore del dogma
dell’infallibilità papale, introdotto solo nel 1870, tra forti contestazioni
anche in seno alla Chiesa, per contrastare il successo del cattolicesimo
sociale e liberale. Quasi un giovane su tre (tra 18 e 34 anni) lo
condivide, 4 punti percentuali in più rispetto agli adulti tra i 35 ed i 54
anni. Incontra il sostegno del 43,6% degli uomini di tutte le età. Il 65,5% della popolazione (il 50,0% dei
giovani) è soddisfatto delle risposte della Chiesa alle questioni etico-morali
in genere. La laicità, ossia la
tolleranza delle scelte di coscienza, non pare rappresenti un valore centrale
della società civile della Provincia di Bolzano. Alla debolezza della
laicità corrisponde immancabilmente una robusta intolleranza verso le scelte di
chi non si allinea agli imperativi di un’etica riferita a Dio ed alla
Tradizione. Fu il caso di Gesù, come ci insegna Flavio Pajer, docente di
pedagogia e didattica religiosa alla Pontificia Università Salesiana di Roma:
“L’Ebreo Gesù non
appartiene alla casta sacerdotale. Non esercita funzioni sacrali, né lui né i
suoi discepoli. Il laico Gesù annuncia alla donna samaritana l’approssimarsi
del tempo in cui Dio sarà adorato in spirito e verità, e non più negli spazi
sacri di questa o quella religione. Si sente libero persino di fronte alla
intangibilità della legge mosaico, scardinando la tradizionale sudditanza
leguleia alle tradizioni etiche e rituali: “Non l’uomo è fatto per il sabato,
ma il sabato per l’uomo”. Non si allea al potere religioso né a quello
politico, ma lascerà come unica direttiva quell’inaudito comando: “Date a
Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”. Inaudito perché
ponendo la distinzione fra Stato e religione, Gesù pone fine, in un colpo solo,
sia alle teocrazie (il sacro come strumento del potere), sia alle idolatrie
politiche (il potere assolutizzato come sacro). Gesù libera l’uomo dalla
soggezione allo Stato e costringe nel contempo lo Stato a sfatare la sua
pretesa assolutezza. Gesù scuote alla radice il sistema politico-religioso,
libera le coscienze da una concezione etico-religiosa erronea e alienante,
stabilisce la priorità di alcuni valori che oggi diremmo specificamente laici,
quali il rispetto per la libertà di coscienza individuale, l’eguaglianza dei
diritti fra tutti gli uomini, compresi gli emarginati e gli stranieri,
l’eliminazione di ogni menomazione umana” (Pajer, 2007. p. 63).
Il quadro che ne ricaviamo
è quello di una società ancora fortemente conservatrice ed autoritaria immersa,
suo malgrado, in una realtà in continua trasformazione. L’etnocentrismo ne è
uno strascico: “l’importanza dell’identità etnica diminuisce man mano che si
passa dall’ambiente rurale a quello urbano, man mano che aumenta la mobilità
territoriale, che si avvertono appartenenze territoriali non locali, che
diminuiscono l’età e il prestigio professionale. […] L’atteggiamento autoritario è il fattore più strettamente collegato
al sentimento etnico” (Goglio/Gubert/Paoli, 1979, p. 20-21).
Il problema è che, di
norma, la paura del cambiamento tira fuori il peggio della natura umana, il
ricorso alla violenza come forma di difesa di un ordine esterno ed interiore
che può placare le nostre ansie solo provvisoriamente e che, sfortunatamente,
inibisce ogni stimolo a provare a comprendere quel che ci spaventa. Adattarci a
questa automutilazione delle nostre facoltà e del nostro spirito equivale ad
accettare un isterilimento culturale e sociale. Il problema che fronteggiamo,
in Alto Adige, in Trentino e in molte altre realtà “di frontiera”, non è
strettamente religioso ma culturale in un senso più ampio: la cultura patriarcale della violenza, della prevaricazione e
dell’abuso, che è anche più forte e tenace in società come quelle dalle quali
provengono tanti immigrati.
Lo scontro di paradigmi
reazionari potrebbe introdurre una convergenza verso l’instaurazione di
“democrazie” populiste – come in Israele e nell’Est Europa –, legate ai valori
dell’etnia, del territorio, della tradizione e del consenso sostanzialmente
unanime, cioè la negazione della democrazia liberale. Quest’ultima necessita
invece di minoranze e soprattutto individui che siano messi nella condizione di
farsi sentire e farsi valere, in funzione di stimolo al confronto e di una cittadinanza che sia pronta a
mobilitarsi a difesa del diritto socialmente riconosciuto di ciascuno di
scegliere liberamente di essere diverso e di sperimentare nuove identità,
neutralizzando così la gran parte delle occasioni di scontro e di conseguente
oppressione della maggioranza ai danni delle minoranze.
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