venerdì 9 dicembre 2011

I pacifisti francesi alla prese con Hitler



Lo studio di oltre un centinaio di testi scolastici, delle riviste professionali, dei bollettini e degli archivi scolastici di tre dipartimenti (Somme, Seine, Dordogne) rivela che gli insegnanti pacifisti erano patrioti repubblicani che coltivavano la lealtà nei confronti della Francia, ma erano intenti a “distruggere l’arsenale mentale di concetti e credenze che avevano reso concepibile, e in ultimo accettabile, la guerra” (p. 3).
Il disarmo morale era necessario perché si riteneva che nessun arbitrato internazionale o cooperazione economica sostenuta avrebbero potuto impedire il ritorno della guerra se prima non ci si fosse liberati dagli impulsi sciovinistici per aprirsi alla comprensione reciproca tra i popoli. Fino a quel momento la pace e la stabilità globale sarebbero stati un miraggio.
Non ci fu un tradimento da parte degli insegnanti pacifisti, come denunciarono i pétainisti (in cerca di un capro espiatorio per la sconfitta ad opera dei nazisti), ma piuttosto il recupero del repubblicanesimo rivoluzionario, dell’immagine di una Francia faro di civiltà, votata a rieducare l’intero continente ai valori della libertà, dell’uguaglianza e soprattutto della fratellanza, come stava facendo nel suo impero coloniale. Pur essendo pacifisti, giustificavano la guerra difensiva.
Lo slittamento dal più gretto nazionalismo ad una maggiore sensibilità nei confronti della causa della pace e del cosmopolitismo fu probabilmente prodotto dalla falcidie di giovani uomini nelle trincee della Grande Guerra, che permise a molte più donne di accedere a ruoli di maggiore responsabilità, e dal risentimento dei veterani di guerra, sconvolti dall’esperienza ed intenzionati a far sì che non toccasse ai loro figli. Ci provarono con le visite di studio in Germania, i contatti tra insegnanti delle due nazioni, l’insegnamento dell’esperanto, ma l’ascesa di Hitler pose fine a tentativi peraltro velleitari.
A misura che la prospettiva di una nuova guerra si faceva sempre più palpabile, gli insegnanti spostarono l’enfasi dalla pace tra i popoli alla guerra puramente difensiva e, quando poi la guerra scoppiò, si arruolarono per andare al fronte: insegnarono ai loro alunni a non glorificare e romanticizzare la guerra, ma non ad astenersi dal difendere la patria.
Per la verità, una forte revisione della loro ottica occorse anche prima, nel corso della guerra civile spagnola, alla quale parteciparono migliaia di insegnanti spagnoli, alcuni dei quali intrattenevano rapporti epistolari coi loro colleghi francesi: “per la prima volta dopo la Prima Guerra Mondiale, degli insegnanti sindacalizzati cominciarono a parlare apertamente di coraggio e di eroismo in battaglia, del comportamento criminale di un nemico ben definito e di una guerra combattuta per i più nobili principi” (p. 205). Fu allora, dopo essere entrati in contatto con i rifugiati spagnoli nel sud della Francia, che gli insegnanti cominciarono a prendere le distanze dai loro leader sindacali, presero coscienza della spaventosa realtà della minaccia nazi-fascista e del fatto che la guerra è una triste necessità in un mondo in cui il potere è aggressivo.
Continuarono a denunciare la retorica virilista e dozzinale di manuali di storia che instillavano negli studenti la diffidenza se non l’odio nei confronti dei Tedeschi e l’idea della guerra come una scuola di eroismo e sacrificio e non un massacro che deturpa i corpi e le anime; ma, con lo scoppio della guerra civile spagnola, le posizioni della dirigenza sindacale rimasero sciaguratamente inflessibili, nella speranza che dall’altra parte ci fossero orecchie disposte ad ascoltare proclami di pace invece di farsi irretire dai tamburi di guerra. La base invece si preparò a fare il suo tragico dovere
La dirigenza sindacale non capì minimamente quel che stava accadendo. Il loro fallimento rispecchiò il fallimento della politica dell’appeasement (accomodamento) nei confronti di una Germania sempre più aggressiva e vorace, che non si accontentava della revisione delle clausole sui danni di guerra del Trattato di Versailles, dell’ammissione alla Lega delle Nazioni, del tacito accoglimento del programma di riarmo, della “ridefinizione” dei confini austriaci e cecoslovacchi. La Lega delle Nazioni non evitò la guerra. Il pacifismo, imperniato sull’internazionalismo socialista e sul femminismo nonviolento, non fornì soluzioni sufficientemente persuasive al problema dei conflitti armati. 
Il brano di una lezione di educazione civica tenuta nel 1921, additato come un pessimo esempio di sciovinismo e militarismo – “perché la Francia viva in pace, non è sufficiente che si appassioni alla libertà ed alla giustizia e che detesti la guerra. Deve anche essere forte e ben armata per poter difendersi contro la brutalità della sua pericolosa vicina, la Germania, per la quale l’unica legge è la forza” (p. 69) –, non sarebbe sembrato né eccessivo né fuori luogo, nel 1939. Al contrario, sempre nel 1939, le parole, non meno roboanti, della studentessa che, nel 1930, scrisse “sarà il dovere e l’onore di tutti coloro che sono stati salvati dalla sudditanza dalla Grande Guerra quello di organizzare la Grande Pace in cui l’Umanità intraprenderà il suo nuovo destino” (p. 154), non potevano che suonare irrealistiche, ingenue ed autolesionistiche.

Bibliografia:
Mona L. Siegel. The Moral Disarmament of France: Education, Pacifism, and Patriotism, 1914-1940, Cambridge, UK: Cambridge University Press, 2004.

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