Lo studio
di oltre un centinaio di testi scolastici, delle riviste professionali, dei
bollettini e degli archivi scolastici di tre dipartimenti (Somme, Seine,
Dordogne) rivela che gli insegnanti pacifisti erano patrioti repubblicani che
coltivavano la lealtà nei confronti della Francia, ma erano intenti a “distruggere l’arsenale mentale di concetti
e credenze che avevano reso concepibile, e in ultimo accettabile, la guerra”
(p. 3).
Il disarmo
morale era necessario perché si riteneva
che nessun arbitrato internazionale o cooperazione economica sostenuta
avrebbero potuto impedire il ritorno della guerra se prima non ci si fosse
liberati dagli impulsi sciovinistici per aprirsi alla comprensione reciproca
tra i popoli. Fino a quel momento la pace e la stabilità globale sarebbero
stati un miraggio.
Non ci fu
un tradimento da parte degli insegnanti pacifisti, come denunciarono i pétainisti
(in cerca di un capro espiatorio per la sconfitta ad opera dei nazisti), ma
piuttosto il recupero del repubblicanesimo rivoluzionario, dell’immagine di una
Francia faro di civiltà, votata a rieducare l’intero continente ai valori della
libertà, dell’uguaglianza e soprattutto della fratellanza, come stava facendo
nel suo impero coloniale. Pur essendo
pacifisti, giustificavano la guerra difensiva.
Lo
slittamento dal più gretto nazionalismo ad una maggiore sensibilità nei
confronti della causa della pace e del cosmopolitismo fu probabilmente prodotto
dalla falcidie di giovani uomini nelle trincee della Grande Guerra, che permise
a molte più donne di accedere a ruoli di maggiore responsabilità, e dal
risentimento dei veterani di guerra, sconvolti dall’esperienza ed intenzionati
a far sì che non toccasse ai loro figli. Ci provarono con le visite di studio
in Germania, i contatti tra insegnanti delle due nazioni, l’insegnamento dell’esperanto,
ma l’ascesa di Hitler pose fine a tentativi
peraltro velleitari.
A misura
che la prospettiva di una nuova guerra si faceva sempre più palpabile, gli insegnanti spostarono l’enfasi dalla
pace tra i popoli alla guerra puramente difensiva e, quando poi la guerra
scoppiò, si arruolarono per andare al fronte: insegnarono ai loro
alunni a non glorificare e romanticizzare la guerra, ma non ad astenersi dal
difendere la patria.
Per la
verità, una forte revisione della loro ottica occorse anche prima, nel corso
della guerra civile spagnola, alla
quale parteciparono migliaia di insegnanti spagnoli, alcuni dei quali
intrattenevano rapporti epistolari coi loro colleghi francesi: “per la prima
volta dopo la Prima Guerra Mondiale, degli insegnanti sindacalizzati
cominciarono a parlare apertamente di coraggio e di eroismo in battaglia, del
comportamento criminale di un nemico ben definito e di una guerra combattuta
per i più nobili principi” (p. 205). Fu allora, dopo essere entrati in
contatto con i rifugiati spagnoli nel sud della Francia, che gli insegnanti
cominciarono a prendere le distanze
dai loro leader sindacali, presero coscienza della spaventosa realtà
della minaccia nazi-fascista e del fatto che la guerra è una triste necessità
in un mondo in cui il potere è aggressivo.
Continuarono
a denunciare la retorica virilista e dozzinale di manuali di storia che
instillavano negli studenti la diffidenza se non l’odio nei confronti dei
Tedeschi e l’idea della guerra come una scuola di eroismo e sacrificio e non un
massacro che deturpa i corpi e le anime; ma, con lo scoppio della guerra civile
spagnola, le posizioni della dirigenza
sindacale rimasero sciaguratamente inflessibili, nella speranza che dall’altra
parte ci fossero orecchie disposte ad ascoltare proclami di pace invece di
farsi irretire dai tamburi di guerra. La
base invece si preparò a fare il suo tragico dovere.
La dirigenza sindacale non capì minimamente quel
che stava accadendo. Il loro fallimento rispecchiò
il fallimento della politica dell’appeasement (accomodamento) nei confronti di
una Germania sempre più aggressiva e vorace, che non si accontentava della
revisione delle clausole sui danni di guerra del Trattato di Versailles, dell’ammissione
alla Lega delle Nazioni, del tacito accoglimento del programma di riarmo, della
“ridefinizione” dei confini austriaci e cecoslovacchi. La Lega delle Nazioni non evitò la guerra. Il pacifismo, imperniato
sull’internazionalismo socialista e sul femminismo nonviolento, non fornì
soluzioni sufficientemente persuasive al problema dei conflitti armati.
Il brano
di una lezione di educazione civica tenuta nel 1921, additato come
un pessimo esempio di sciovinismo e militarismo – “perché la Francia viva in pace, non è sufficiente che si appassioni
alla libertà ed alla giustizia e che detesti la guerra. Deve anche essere forte
e ben armata per poter difendersi contro la brutalità della sua pericolosa
vicina, la Germania, per la quale l’unica legge è la forza” (p. 69) –, non
sarebbe sembrato né eccessivo né fuori luogo, nel 1939. Al contrario, sempre
nel 1939, le parole, non meno roboanti, della studentessa che, nel 1930,
scrisse “sarà il dovere e l’onore di
tutti coloro che sono stati salvati dalla sudditanza dalla Grande Guerra quello
di organizzare la Grande Pace in cui l’Umanità intraprenderà il suo nuovo
destino” (p. 154), non potevano che suonare irrealistiche, ingenue ed
autolesionistiche.
Bibliografia:
Mona L.
Siegel. The Moral Disarmament of France: Education, Pacifism, and
Patriotism, 1914-1940, Cambridge, UK: Cambridge University Press, 2004.
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