Vorrei capire perché
abbiamo fallito; perché, dopo tutti gli scioperi della fame e le iniziative
legali, la resistenza nonviolenta è stata repressa con una brutalità pari a
quella usata contro la lotta armata. Ci siamo fidati troppo dello stato di
diritto? In India i potenti devono prendersi un bello spavento.
Arundhati Roy, impegnata
nella lotta contro la diga di Narmada
L'ingiustizia non si può
tollerare. Bisogna opporvi resistenza ad ogni costo. La non violenza non
diventerà mai una scusa per disertare la lotta contro l'ingiustizia. Forse non abbiamo
bisogno di pace in questa società ingiusta; abbiamo bisogno di persone che
siano preparate a resistere.
Arundhati Roy
Cosa custodivano qui, care
compagne e compagni? Cosa difendevano? Armi. Oro. La civiltà stessa. Questo è
ciò che dice la guida…Quando le ossa di pietra di questo leone di pietra
saranno interrate nella terra inquinata, quando la
Fortezza-che-non-è-mai-stata-attaccata sarà ridotta in macerie e la polvere
delle macerie avrà formato dei cumuli, chissà che non nevichi di nuovo.
Arundhati Roy, “The
Briefing” (Manifesta 7, 2008)
La scrittrice (autrice del
celebre “Il dio delle piccole cose”, Guanda 1997) ed attivista indiana, già
vincitrice del Sydney Peace Prize nel 2004, dopo aver visto come “la
più grande democrazia del mondo” massacra le sue minoranze nell’indifferenza
del mondo e come un’abbondanza pressoché illimitata si concentra nelle mani di
pochi, mentre centinaia di milioni di concittadini vivono nella più abietta
miseria, senza alcuna prospettiva di migliorare la propria condizione, ha
ripudiato la nonviolenza.
La democrazia com’è intesa
oggi è un conflitto perpetuo tra gatti a cui sono state tagliate le unghie, un
male minore. La dittatura è una falsa armonia in cui si strappano le unghie ai
gatti “sconvenienti” e si fanno crescere quelle dei gatti ubbidienti e
diligenti.
Arundhati Roy ha constatato
che nell’uno e nell’altro caso i gatti più forti riescono comunque a
trasformare tutti gli altri in topi. Cosa si può fare quando le persone
che dissentono pacificamente vengono intimidite, imprigionate o uccise senza
che questo sia di ostacolo ai gattoni tracotanti?
In “Listening to
grasshoppers. Field notes on democracy” (London: Penguin Books, 2009) la
scrittrice spiega che la gente ha bisogno di una visione e nel contempo di
assicurarsi che chi pretende democrazia e giustizia sia giusto e democratico.
Nel movimento non ci può essere spazio per le ingiustizie ai danni di donne e
bambini. Se si lotta per la libertà bisogna anche pensare alla giustizia, anche
a costo di alcune sconfitte nel breve. Opportunismo e convenienze particolari
non possono compromettere certi principi, altrimenti nulla ci distinguerà dagli
avversari. La lotta deve avere un obiettivo collettivo, ogni conquista deve
valere per tutti. Non è un teatrino dei buoni sentimenti, una promozione degli
interessi personali o di quelli delle ONG, che in troppi casi rendono più
dipendenti e meno politicizzate le popolazioni assistite. Bisogna colpire il
portafogli – anche perché il potere ha un codazzo di parassiti che pretendono
ricompense. Come spiegava Howard Zinn, ribadisce Arundhati Roy, lo
stato di diritto serve anche a legalizzare e rafforzare una condizione di
privilegio ed iniquità nella distribuzione della ricchezza e del
potere.
Estratti dal discorso di
Arundhati Roy a Zuccotti park il 16 novembre 2011 [Arundhati Roy, “Lo chiamano
progresso”, The Guardian, Gran Bretagna]:
“Avete riportato il diritto
di sognare in un sistema che cercava di trasformare tutti i suoi cittadini in
zombie stregati dall’equazione tra consumismo insensato, felicità e
realizzazione di sé. Per una scrittrice, lasciate che ve lo dica, questa è una conquista
immensa. Non potrò mai ringraziarvi abbastanza.
Oggi l’esercito degli Stati
Uniti conduce una guerra di occupazione in Iraq e in Afghanistan. I droni
statunitensi uccidono civili in Pakistan e altrove. Decine di migliaia di
soldati americani e di squadre della morte stanno entrando in Africa. Se
spendere migliaia di miliardi dei vostri dollari per occupare l’Iraq e
l’Afghanistan non dovesse bastare, oggi si parla anche di una guerra contro
l’Iran. Dai tempi della grande depressione, la produzione di armi e
l’esportazione di conflitti sono state gli strumenti fondamentali con cui gli
Stati Uniti hanno stimolato la loro economia. L’amministrazione del presidente
Barack Obama ha concluso un accordo con l’Arabia Saudita che prevede la
fornitura di armamenti per 60 miliardi di dollari.
Gli Stati Uniti sperano di
vendere migliaia di bombe antibunker agli Emirati Arabi Uniti. E hanno venduto
aerei militari per cinque miliardi di dollari al mio paese, l’India, che ha più
poveri di tutti i paesi dell’Africa messi insieme. Tutte queste guerre – dal
bombardamento di Hiroshima e Nagasaki al Vietnam, dalla Corea all’America
Latina – sono costate milioni di vite umane. E sono state tutte combattute per
garantire l’american way of life.
Oggi sappiamo che l’american
way of life – il modello a cui dovrebbe aspirare tutto il resto del mondo –
ha fatto sì che negli Stati Uniti 400 persone possiedano la ricchezza di
metà della popolazione. Ha significato migliaia di persone sbattute fuori
dalle loro case e dal lavoro mentre il governo di Washington salvava le banche
e le multinazionali: il gruppo assicurativo Aig ha ricevuto, da solo, 182
miliardi di dollari.
Il governo indiano adora la
politica economica statunitense. Grazie a vent’anni di economia di libero
mercato, oggi i cento indiani più ricchi possiedono beni che valgono un
quarto del pil del paese, mentre più dell’80 per cento dei cittadini vive con
meno di 50 centesimi al giorno.
Duecentocinquantamila
agricoltori trascinati in una spirale di morte hanno finito per suicidarsi.
L’India lo chiama progresso, e oggi si considera una superpotenza. Come voi,
anche noi indiani abbiamo una popolazione ben istruita, bombe nucleari e un
livello di diseguaglianza vergognoso.
La buona notizia è che la
gente ne ha abbastanza e non vuole più accettare tutto questo. Il movimento
Occupy Wall street si è unito a migliaia di altri movimenti di resistenza in
tutto il mondo grazie ai quali i più poveri tra i poveri si alzano in piedi per
fermare l’avanzata delle multinazionali.
In pochi sognavamo di poter
vedere voi – i cittadini degli Stati Uniti che stanno dalla nostra parte –
combattere questo sistema nel cuore stesso dell’impero. Non trovo le parole per
spiegare quanto tutto questo significhi.
Loro (l’1 per cento) dicono
che non abbiamo richieste precise da fare. Non sanno, forse, che la nostra
rabbia da sola sarebbe sufficiente a distruggerli.
Noi vogliamo mettere un
freno a questo sistema che fabbrica ineguaglianza. Vogliamo mettere un limite
alla smisurata accumulazione di ricchezza da parte di alcuni individui e alcune
società.
Da qualche parte, nel suo
cammino, il capitalismo ha ridotto l’idea di giustizia al solo significato di
“diritti umani”, e l’idea di sognare l’uguaglianza è diventata blasfema. Non
stiamo combattendo per giocherellare con la riforma del sistema. Questo sistema
deve essere sostituito”.
Traduzione di Giuseppina
Cavallo.
Internazionale,
numero 929, 23 dicembre 2011
2 commenti:
Grazie per questo post. C'è una vergognosa mancanza di informazione sulle battaglie di Arundhaty Roy, e in generale sulla reale qualità della democrazia in India. A dire il vero ci sarebbe molto da dire sulla reale qualità della democrazia anche da noi... Forse davvero non è più tempo di non-violenza.
e io ringrazio per il commento!
Se la nonviolenza diventa autocastrazione, ossia diventa il mezzo con cui il buon cuore viene usato per imprigionare milioni di esseri umani in un sistema iniquo, oppressivo, violento e soffocante, un sistema che manipola le menti al punto da distorcere la percezione della realtà, allora bisogna tirar fuori le unghie e DIFENDERSI. Qualcuno lo deve pur fare, se vogliamo dare una chance a chi verrà dopo di noi.
Auguro a tutti un 2012 di grande forza morale e grande lucidità!
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