Non mi
auguro la disfatta degli Alleati. Ma non credo che Hitler sia così cattivo come
lo dipingono. Sta dimostrando un’abilità stupefacente, e sembra che ottenga le
sue vittorie senza grandi spargimenti di sangue.
Mohandas
Karamchand Gandhi, lettera a Rajkumari Amrit Kaur, maggio 1940
Il mondo
non è governato interamente dalla logica. La vita stessa implica una qualche
sorta di violenza e a noi non resta che scegliere la via della violenza minore.
Harijan,
28 settembre 1934
Benché la
violenza non sia lecita, quando è opposta per autodifesa, o in difesa degli
inermi, è un atto di coraggio assai preferibile alla codarda sottomissione.
Harijan,
27 ottobre 1946
Chi si abbrutisce nel proprio disperato sforzo di prevalere sui nemici o di sfruttare le nazioni più deboli o gli uomini più deboli, non solo si degrada ma degrada tutta l’umanità.
Young India, 29 ottobre 1931
GANDHI E I
NERI SUDAFRICANI
Nella sua
autobiografia Gandhi dice di aver creduto che “l’Impero Britannico esistesse
per il bene del mondo”. Da giovane, in Sud Africa, la sua unità medica si prese
cura degli Zulu feriti durante la sollevazione, ma la stampa zulu non fu
benevola nei confronti della minoranza indiana sudafricana, accusando gli
Indiani di essersi offerti volontari nell’aiutare gli inglesi a schiacciare la
rivolta ed impadronirsi delle terre tribali per puro tornaconto, per spartirsi
le loro spoglie. In effetti appoggiò la soppressione armata della rivolta degli
zulu ma, in quei giorni febbrili, si interrogò anche di fronte all’evidenza del
fatto che le operazioni di pacificazione si sono tramutate in una caccia all’uomo
che non risparmia donne e bambini rimasti nei villaggi.
È
certamente vero che Gandhi fu influenzato dalla struttura castale nella quale
era cresciuto e dal disprezzo che gli inglesi nutrivano nei confronti dei
nativi africani, tanto che pretese che gli edifici pubblici fossero dotati di
tre ingressi, cosicché gli Indiani non dovessero più impiegare quello destinato
agli africani. Nel 1909, il futuro Mahatma scriveva “non abbiamo alcuna avversione
verso i Kaffir (i neri), ma non possiamo ignorare il fatto che non c’è un
terreno comune tra noi e loro negli affari di ogni giorno” (Bhana & Vahed,
2005, p. 45). La prigionia servì a Gandhi per constatare la disumanità di
trattamento dei prigionieri africani, ma anche la bestialità di certi carcerati
più refrattari ad una condotta civile. In ogni caso, Gandhi non pensò mai
che fosse possibile fare causa comune. Troppe erano le divisioni tra
Indiani per pensare che fosse possibile superare quelle tra Indiani ed
Africani, separati anche dalla lingua. Non erano semplici pregiudizi ma
considerazioni di natura politica e la constatazione dell’inevitabilità del
conflitto e della competizione tra gruppi denigrati e sfruttati dall’élite
razziale bianca che diventata sempre più evidente nella popolazione
gravitante intorno ai grandi centri urbani, con gli operai indiani ostili a
quelli africani e i residenti africani che malsopportavano il virtuale
monopolio indiano sul commercio al dettaglio. La responsabilità era
chiaramente bianca ma non essendovi realistiche possibilità di riformare il
sistema, i segmenti di popolazione subordinata si dilaniavano a vicenda per
conquistarsi qualche boccone (Bhana & Vahed, op. cit.).
GANDHI,
MUSSOLINI E HITLER
Hitler ha ucciso cinque milioni di Ebrei. È il più grave crimine del nostro tempo. Ma gli Ebrei avrebbero dovuto offrirsi al coltello del macellaio. Si sarebbero dovuti gettare in mare dagli scogli. Per come sono andate le cose, sono comunque morti a milioni.
Gandhi, al suo biografo, Louis Fischer (Fisher, 1950)
Credo che
ogni guerra sia totalmente sbagliata. Ma se analizziamo con attenzione le
ragioni di due parti belligeranti, possiamo scoprire che una è nel giusto e l’altra
nel torto. Per esempio, se A vuole conquistare la terra di B, è ovvio che B è
la parte che subisce il torto. Entrambi combattono con le armi. Non credo nella
violenza della guerra, ciononostante B, la cui causa è giusta, merita il mio
sostegno morale e le mie benedizioni.
Harijan,
18 agosto 1940
A Roma Gandhi incontra i gerarchi fascisti e Mussolini, desiderosi di legittimazione
internazionale per la rivoluzione fascista, come lui era alla ricerca di forze
da contrapporre all’impero britannico. Il 23 luglio del 1939 scrive a Hitler,
chiamandolo “caro amico”. Il 24 dicembre del 1940 scrive una seconda lettera,
più lunga, in cui spiega che “se vi chiamo amico, non è un formalismo. Io non
ho nemici”. Gandhi prosegue spiegando che il compito che si è prefissato è
quello di “assicurarmi l’amicizia di tutta l’umanità, senza distinzione di
razza, di colore o di credo” e che non crede che Hitler sia un mostro: “Non
dubitiamo della vostra bravura e dell’amore che nutrite per la vostra patria e
non crediamo che siate il mostro descritto dai vostri avversari”, sebbene “molti
dei vostri atti siano mostruosi e attentino alla dignità umana”. Per questo “noi
resistiamo tanto all’imperialismo britannico quanto al nazismo”. Gandhi è
fiducioso che la sua battaglia sarà vincente perché, come Étienne de La Boétie
prima di lui, ritiene che “nessuno sfruttatore potrà mai raggiungere il suo
scopo senza un minimo di collaborazione, volontaria o forzata, da parte della
vittima” (Payne, 1969).
Enrico
Peyretti (1999) definisce “sconcertante” l'appello rivolto agli inglesi da
Gandhi il 7 luglio 1940, in cui li invita ad abbassare le armi e a combattere
il nazismo con la noncooperazione: “Darete ai dittatori tutto, ma non darete
mai loro i vostri cuori e le vostre menti. Se essi vorranno occupare le vostre
case, voi le abbandonerete. Se non vi lasceranno uscire, voi insieme alle
vostre donne e ai vostri figli vi lascerete uccidere piuttosto che
sottomettervi. Questo metodo, che io ho chiamato non-collaborazione
nonviolenta, in India ha avuto notevoli successi. (...) Ho sperimentato con
rigore scientifico la nonviolenza e le sue possibilità di applicazione per più
di cinquanta anni consecutivi. (...) Non conosco un solo caso in cui essa abbia
fallito”
In una
lettera indirizzata ad Hitler e datata 24 dicembre 1940 che il servizio postale
britannico non recapitò mai, per tassativo ordine del governo, Gandhi rivolse
un appello a Hitler affinché seguisse la via della pace e riconoscesse l’esistenza
di milioni di persone che lo consideravano un mostro. Gandhi assicurava il
dittatore tedesco che era al corrente del fatto che quest’ultimo considerava le
sue azioni come virtuose ma anche che la forza della nonviolenza poteva
tranquillamente tener testa a “tutte le più violente forze del mondo”, senza
necessitare di denaro, scienza e tecnologia distruttiva. In quello stesso
periodo, in un appello rivolto agli Ebrei, il Mahatma dichiarava che Hitler si
sarebbe piegato di fronte al coraggio morale della loro resistenza nonviolenta,
perché non aveva ancora mai fatto esperienza di una tale tenacia ed ardimento,
infinitamente superiori a quelli delle sue migliori truppe d’assalto. Si
diceva sicuro che l’alternativa non poteva essere peggiore di essere uccisi sul
posto o gettati in qualche segreta. Solo con questo sfoggio di coraggio e
determinazione si poteva sperare di convertire persone disumanizzate come i
nazisti alla comprensione ed apprezzamento della dignità umana. Lo stesso
Gandhi non esitava ad ammettere che un Gandhi ebreo nella Germania nazista
sarebbe stato ghigliottinato nel giro di cinque minuti, ma per il maestro
spirituale indiano la propria morte era infinitamente preferibile all’omicidio
o abuso di qualcun altro.
Adolf
Hitler aveva peraltro già chiarito nel Mein Kampf che solo un ragazzino viziato
e insano di mente avrebbe potuto non vomitare ascoltando la retorica pacifista.
Per lui i pacifisti erano solo “egoisti e codardi camuffati che trasgredivano
le leggi dello sviluppo”. Difficile immaginare un interlocutore meno disposto
ad ascoltare le ragioni di Gandhi.
È un
atteggiamento responsabile quello di chi sceglie di non usare la violenza
quando l’avversario ha dimostrato ampiamente che non è interessato a
compromessi e negoziazioni, ma solo ad una vittoria totale e definitiva?
No.
GANDHI FU
UN BURATTINO DEGLI INGLESI?
Il
messaggio di “Gandhi” [il film di Richard Attenborough] è che il modo migliore
di ottenere la libertà è quello di mettersi in fila, senza armi, e marciare
verso gli oppressori, permettendo loro di ridurti inerme al suolo a suon di
manganello; se resisti sufficientemente a lungo, li metterai in tale imbarazzo
da costringerli ad andar via. Tutto ciò è la peggior sciocchezza mai sentita ed
è una sciocchezza pericolosa. La nonviolenza fu una strategia scelta da un
popolo specifico nei confronti di un oppressore specifico; generalizzare da
tutto ciò costituisce un atto sospetto. Che utilità avrebbe avuto la
nonviolenza, ad esempio, contro i nazisti? […]. “Gandhi” ci mostra un santo che
vinse un impero, ma non è che frutto di invenzione.
Salman
Rushdie, 1991
Il 13
aprile del 1998, Time Magazine pubblicava una dottissima analisi della figura
di Gandhi. L’autore era nientemeno che Salman Rushdie che, con la sua consueta
tagliente eleganza, scriveva: “Oggi Gandhi… è diventato astratto, a-storico,
postmoderno, non più uno del e nel suo tempo ma un concetto da parassitare, un
elemento nella nostra riserva di simboli culturali, un’immagine che può essere
presa in prestito, usata, distorta, re-inventata per mille scopi, e all’inferno
la storicità o la verità”.
Il film “Gandhi”,
di Richard Attenborough, vincitore di otto premi oscar ed un costante afflusso
di agiografie hanno trasformato il Mahatma in un santo laico, una figura simile
al Cristo, ma incarnazione della Sapienza Orientale quintessenziale, un guru
sempiterno e globalizzato, un totem new-age inattaccabile, sacralizzato. Un
vero peccato, protesta Rushdie, perché il “vero” Gandhi era “una delle più
complesse e contraddittorie personalità del secolo”, a partire dal nome, che è
stato tradotto “Azione-Schiavo-Fascinazione-DroghieredellaLuna” dal
brillantissimo scrittore indo-kenyota G.V. Desani.
Indomito
di fronte alla morte, temeva il buio e dormiva sempre con una candela accesa.
Non voleva
la partizione dell’India, ma si alienò deliberatamente le simpatie del
leader musulmano indiano Ali Jinnah, l’unico che poteva evitarla.
Predicava
la sobrietà, la povertà e la vita rurale, ma godeva del sostegno finanziario
dei magnati dell’industria indiana, come Ghanshyam Das Birla.
Con i suoi
scioperi della fame riuscì ad impedire rivolte e massacri, ma usò lo stesso
metodo anche per stroncare uno sciopero dei lavoratori di uno dei suoi
mecenati.
Era
contrario alla segregazione degli intoccabili, ma gli intoccabili si
identificano con Bhimrao Ramji Ambedkar, che di Gandhi era rivale.
Architetto
di una rivoluzione del pensiero politico come la strategia della nonviolenza,
dedicò il suo tempo alla formulazione di eccentriche teorie sul
veganismo, l’energia eiaculatoria tantrica, i clisteri e l’astinenza sessuale
assoluta, non senza indulgere negli esperimenti “brahmacharya”, in cui dormiva
nudo con delle adolescenti per dar prova di continenza ed autodisciplina e per
accrescere i suoi poteri spirituali.
Fu l’uomo
che, quasi da solo, riuscì a mobilitare trasversalmente milioni di Indiani
nella lotta per l’indipendenza, ma l’India indipendente non assomigliò neppure
lontanamente a quella che sognava. Anzi, la fase finale della lotta per l’indipendenza
fu segnata da stragi e immani sciagure, tanto che si rifiutò di partecipare
alle celebrazioni per l’indipendenza in segno di protesta.
Iniziò la
sua predicazione della nonviolenza nella convinzione che potesse avere successo
contro qualunque avversario, ma le azioni di Hitler e Stalin lo indussero a
rivedere questa sua posizione oltranzista.
Rushdie
ipotizza che Gandhi fosse in buona fede, ma che l’emancipazione dell’India dal
giogo coloniale sia stata programmata e realizzata da “forze storiche più
oscure e più profonde” in cui si inserì lui e la sua filosofia di disobbedienza
civile.
“Oggi
poche persone si fermano a riflettere sul complesso carattere della personalità
di Gandhi, l’ambigua natura dei risultati e della sua eredità, o persino sulle cause
reali dell’indipendenza indiana. Sono tempi precipitosi, in cui gli slogan
la fanno da padroni e non abbiamo tempo o, peggio ancora, la disponibilità ad
assimilare verità composite. La verità più crudele è che Gandhi è sempre più irrilevante
per la nazione di cui fu il “piccolo padre” – Bapu”. La sua condanna del
nazionalismo e degli aspetti più biechi del modernismo, del liberismo e dell’edonismo
sono stati dimenticati. Eppure, all’estero, la visione di Gandhi resiste
ancora, contro l’imperialismo dell’omologazione e della mercificazione
globalista: contro questo nuovo impero – McCulture lo chiama Rushdie – l’intelligenza
gandhiana è un’arma più efficace della sua devozione. E la resistenza passiva? –
conclude lo scrittore anglo-indiano – Si vedrà.
Rushdie
non può essere certamente annoverato tra i guerrafondai o i sobillatori di
violenza. Non solo è stato colpito da una fatwa per aver osato “affermare l’indicibile”
– “il re è nudo”, ma è anche un grande ammiratore della civiltà moresca dell’Andalusia
e della sua capacità di mescolare il meglio delle tre tradizioni monoteistiche,
raggiungendo le vette della civiltà umanista, senza cadere nella trappola delle
faide interreligiose ed interetniche.
Dove
possiamo collocare il celeberrimo Mohandas Karamchand Gandhi, la figura simbolo
della nonviolenza e del pacifismo? Io penso tra i violenti inconsapevoli. Quel
che è certo è che si trattava di un uomo estremamente violento. George Orwell,
in un bellissimo ritratto di Gandhi intitolato “riflessioni su Gandhi” e
pubblicato sul Partisan review nel gennaio del 1949, ci ricorda che la stessa
autobiografia gandhiana riporta che “in tre occasioni era disposto a lasciare
che la moglie o un figlio morissero, piuttosto che somministrare loro la carne
prescritta dal medico”. Su questo punto il Dalai Lama ha dimostrato una
maggiore ragionevolezza, accettando di mangiare una modica quantità di carne
per ragioni mediche.
Anche
Orwell era convinto che Gandhi fosse stato manovrato a sua insaputa.
Orwell sospettava
che dietro Gandhi ci fosse un disegno più vasto e che questo spiegasse la
ragione per cui era stato trattato con relativa cortesia dalle autorità
anglo-indiane. Negli ambienti dell’alta società britannica da lui frequentati
si ammetteva cinicamente che Gandhi era utile alla causa britannica perché
impediva una rivoluzione ed i miliardari indiani preferivano lui a possibili
derive socialiste o comuniste delle masse del subcontinente, che li avrebbero
privati delle loro ricchezze. Orwell si
domanda però se non avesse ragione Gandhi quando affermava che “alla fine,
gli ingannatori ingannano solo se stessi”. In fondo, diversi ufficiali
inglesi lo ammiravano, per la sua incorruttibilità e tenacia, per il suo
incredibile coraggio ed assenza di malizia. Lo scrittore e giornalista
britannico era però incline a stigmatizzare la prospettiva ultramondana del
saggio indiano – il mondo della realtà materiale è solo un’illusione a cui
sfuggire – che escludeva che il nostro compito sia quello di rendere
accettabile l’esistenza sulla terra. È turbato anche dall’inclinazione
gandhiana ad amare Dio e l’umanità nel suo complesso, sacrificando l’amore per
le persone a lui vicine: lo considera un compito irrealizzabile per le persone
ordinarie e dunque inumano: “l’essenza dell’essere umani risiede nel fatto
che uno non cerca la perfezione, che a volte è pronto a commettere dei peccati
per lealtà, che uno non istiga se stesso all’ascetismo fino al punto da rendere
impossibile i rapporti amicali, che uno sa che, nella vita, alla fine, ci
attende la sconfitta e lo sconforto, il prezzo che inevitabilmente si paga
quando si forgiano legami d’amore con altre persone”. Insomma, per Orwell,
la maggior parte delle persone non desidera essere un santo e che, al
contrario, chi desidera la santità forse non è mai stato tentato dall’idea di
comportarsi come un essere umano: “se si potessero rinvenire le radici
psicologiche, si scoprirebbe che il motivo principale del distacco è il
desiderio di fuggire dalla sofferenza del vivere, e specialmente dall’amore
che, sia esso di natura sessuale o meno, è un duro lavoro”. L’autore non
ritiene sia possibile stabilire che cosa sia più nobile, si accontenta di
concludere che le due visioni sono incompatibili: o si sceglie Dio, o si
sceglie l’Uomo. Di Gandhi apprezza la coerenza e la sincerità. Non cercò di
svicolare evasivamente dalla questione ebraica durante il conflitto mondiale: E
gli Ebrei? Ti va bene che siano sterminati? Altrimenti, come pensi di salvarli
senza combattere una guerra? Orwell rammenta di non aver mai sentito una
risposta onesta ed inequivocabile su questo punto da un singolo pacifista
occidentale. La posizione di Gandhi non mutò prima e dopo l’Olocausto: se uno
non intende togliere la vita altrui, dev’essere pronto ad accettare che tante
altre vite siano perse. Tuttavia Orwell dubita che Gandhi abbia pienamente
compreso la natura della minaccia totalitaria. La sua causa aveva bisogno di
pubblicità, di visibilità planetaria: “è difficile vedere come il suo
metodo avrebbe potuto funzionare in una nazione in cui gli oppositori al regime
scompaiono da un giorno all’altro senza che si sappia più nulla sulla loro
sorte. Senza una stampa libera ed il diritto di riunirsi non è soltanto
impossibile appellarsi all’opinione pubblica estera, ma anche dare l’avvio ad
un movimento di massa o più semplicemente far sapere le tue intenzioni agli
avversari…Le masse russe potrebbero mettere in pratica la disubbidienza civile
se venisse a tutti la stessa idea simultaneamente e persino in quel caso, a giudicare
dalla storia della carestia ucraina, non farebbe alcuna differenza”.
Quanto alle guerre internazionali, continua Orwell, in politica estera, il
pacifismo o cessa di essere tale oppure si trasforma in appeasement, ossia remissività,
accomodamento. Il problema, secondo lui, è che la premessa di partenza di
Gandhi che tutte le persone siano ragionevoli e, alla lunga, si sentano in
dovere di reagire positivamente e generosamente ad un atteggiamento fermo,
dignitoso e nonviolento, è discutibile: “Chi è sano di mente? Lo era Hitler? È
non è possibile che un’intera cultura sia folle per gli standard di un’altra?”.
Orwell apprezza la nonviolenza e crede che sia l’unica alternativa ad un
apocalittico conflitto nucleare con l’Unione Sovietica ma si chiede se gli
inglesi avrebbero abbandonato l’India pacificamente, se al posto di un governo
laburista ci fosse stato un governo guidato da Churchill, che aveva il dente
avvelenato con Gandhi per le aperture di quest’ultimo a Hitler ed ai
Giapponesi.
Il
giudizio conclusivo dello scrittore inglese, pur critico, è molto equilibrato: “si
può avere un’antipatia di natura estetica nei confronti di Gandhi, come nel mio
caso, si possono respingere i proclami di santità (che lui non fece mai), si può
rifiutare l’ideale stesso della santità e perciò reputare che gli scopi
fondamentali di Gandhi fossero anti-umani e reazionari: ma se guardiamo al
politico e lo poniamo a confronto con le altre maggiori figure politiche del
nostro tempo, non si può non notare che dietro di sé ha lasciato un profumo di
pulito!”
Il
gandhiano Giuliano Pontara (2008) è invece dell’avviso che il gandhismo non
abbia influenzato la pratica di governo dell’india post-indipendentista: Gandhi
fu utile conro gli inglesi, poi la nuova classe dirigente lo mise da parte.
GANDHI E
GLI PSICOPATICI
Finora, Hitler e i suoi simili si sono basati sull’invariabile esperienza che gli uomini cedono alla forza. Uomini disarmati, donne e bambini che oppongano una resistenza non violenta, priva di rancore nei loro confronti, saranno un’esperienza nuova per loro. Chi può azzardarsi a dire che non sia nella loro natura reagire alle forze più alte e sottili? Hanno la stessa anima che ho io.
Harijan, 15 ottobre 1938
Gandhi
rifiuta l’esistenza di malvagi irredimibili e crede che si possa ragionare
anche con un Hitler. Lo spiega in un articolo apparso la vigilia di Natale del
1938 in uno dei suoi settimanali, “Harijan”: “la fede nella nonviolenza si basa
sull'assunto che la natura umana, nella sua essenza, è una, e dunque
necessariamente è sensibile all’azione dell’amore. Si deve tenere presente che
alla violenza che Hitler e Mussolini hanno usato fino a ora si è sempre data
una risposta violenta. Nella loro esperienza i due dittatori non si sono mai
trovati di fronte una resistenza nonviolenta organizzata in una certa
consistenza. È dunque non solo molto probabile, ma penso inevitabile, che essi
riconoscerebbero la superiorità della resistenza nonviolenza rispetto a
qualsiasi impiego di violenza che essi sarebbero in grado di attuare”.
Il
satyagrahi parte dal presupposto che tutti possiedono delle facoltà morali che
possono essere provvisoriamente ignorate ma tacitate per sempre o eliminate
permanentemente. Ma la realtà e la storia indicano che ci sono persone e forze
che si piegano solo quando incontrano un avversario superiore. Il precipitoso
giudizio di Gandhi sulla Germania nazista - “avrebbe potuto essere e può anche
essere una potenza amichevole” – ci appare ora come surreale.
Un Gandhi
ebreo nella Germania nazista, o nella Russia stalinista o nella Cina maoista,
se anche si fosse trovato, non sarebbe durato un minuto.
Contro un
regime barbaro, se una persona non gode di uno status riconosciuto
internazionalmente, com’è odiernamente il caso di Aung San Suu Kiy, o se non vi
è il coinvolgimento di un’intera popolazione, la nonviolenza equivale alla
perpetuazione della schiavitù, perché l’eliminazione dell’oppositore
nonviolento non costa assolutamente nulla in termini di perdita di immagine.
GANDHI E
GLI EBREI
Se io
fossi un ebreo che è nato, vive e lavora in Germania, rivendicherei il diritto
di considerarla casa mia al pari del più alto tra i gentili tedeschi, e lo
sfiderei a spararmi o a gettarmi in una galera [...]. Se un ebreo o tutti gli
ebrei accettassero il consiglio qui offerto, non potrebbero certo star peggio
di adesso. Inoltre, la sofferenza patita volontariamente conferirebbe loro una
forza interiore e una gioia che neppure mille attestazioni di solidarietà
saranno mai in grado di produrre. Se anche contro la Germania aprissero le
ostilità la Gran Bretagna, la Francia e l’America non potrebbero apportare né
gioia interiore né forza interiore. La violenza freddamente calcolata di Hitler
potrà anche sfociare nel massacro generalizzato degli ebrei come prima risposta
alla dichiarazione di guerra. Se però la mentalità ebraica fosse pronta al
sacrificio volontario, persino il massacro da me immaginato si tramuterebbe in
un giorno di ringraziamento e di letizia e Geova avrebbe realizzato la
redenzione del popolo persino per mano del tiranno. Infatti, la morte non ha
nulla di pauroso per i timorati di Dio.
Messaggio
agli Ebrei nella Germania nazista dopo la Notte dei Cristalli (1938)
Martin
Buber lo accusò di ipocrisia: prima consigliava agli Ebrei di non usare la
violenza per resistere ai nazisti ed agli arabi. Poi condonò la violenza araba
e cinese “in base a canoni comunemente accettati”. In seguito appoggiò l’intervento
militare indiano nella regione musulmana del Kashmir.
GANDHI E
LA SOFFERENZA
Nella
lotta satyagraha “non vi è la più lontana idea di arrecare danno all’avversario.
Il satyagraha postula la conquista dell’avversario attraverso la sofferenza nella
propria persona” (Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi 1996, p.
18).
Ecco quel
che Gandhi scriveva all’inizio degli anni Trenta a proposito dell’uso della
propria sofferenza per ricattare psicologicamente chi ci opprime: “Mi sono
andato sempre più convincendo che la ragione non è sufficiente ad assicurare
cose di fondamentale importanza per gli uomini, che devono essere conquistate
attraverso la sofferenza. La sofferenza è la legge dell'umanità, cosi come la
guerra è la legge della giungla. Ma la sofferenza è infinitamente più potente
della legge della giungla, ed è in grado di convertire l'avversario e di aprire
le sue orecchie, altrimenti chiuse, alla voce della ragione. Nessuno
probabilmente ha redatto più petizioni o difeso più cause perse di me, e posso
dirvi che quando volete ottenere qualcosa di veramente importante non dovete
solo soddisfare la ragione, ma toccare i cuori. L'appello della ragione è
rivolto al cervello, ma il cuore si raggiunge solo attraverso la sofferenza.
Essa dischiude la comprensione interiore dell'uomo. La sofferenza, e non la
spada, è il simbolo della razza umana” («Young India», 5 novembre 1931). Però
la sofferenza sbattuta in faccia all’aguzzino senza reagire è un ricatto
psicologico, è una forma di manipolazione e non può essere definita
nonviolenta. Fu del resto Gandhi a definire il ricatto una forma di violenza.
Dunque Gandhi non può essere annoverato tra i fautori della nonviolenza.
Inoltre la responsabilità della morte e sofferenza di persone coinvolte nella
strategia della nonviolenza ricade comunque su chi l’ha adottata, come
ricadrebbe quella di chi muore in un’azione violenta. Nessuno ne esce pulito,
nessuno resta innocente.
GANDHI
PESSIMO MARITO E PESSIMO PADRE
AHIMSA
La
non-violenza, per Gandhi, attraversa le contingenze storiche, oltrepassa le
tirannie politiche, non si esaurisce nella funzione ordinatrice della società o
nella maturazione della persona. Affronta a viso aperto il male, himsa (da han
= uccidere e hims = desideroso di uccidere). Himsa è la necrofilia, la pulsione
di morte freudiana. Gandhi la definisce il desiderio di sopprimere la vita e di
far soffrire, per rabbia, vendetta, orgoglio, avidità, odio e per interesse
personale e dunque include anche la menzogna, l’inganno, il sotterfugio. L’ahimsa
(ahimsā = mancante del desiderio di
uccidere, di nuocere) è dalla parte della vita, di tutto ciò che vive, esalta
il principio di non-violenza di eros: “Buona volontà nei confronti di tutto ciò
che vive, amore perfetto”. Himsa è l’idolatria nazionalista, la meccanizzazione
industriale del vivente, il materialismo economico, l’avidità plutocratica.
Ciascuno rivendica per sé il diritto di usare violenza e di sopraffare il
prossimo, invece di amarlo. Secondo Gandhi l’uomo come animale è violento, come
spirito è non-violento e opera in nome della pace, della giustizia, dell’ordine,
della libertà e della dignità. Ahimsa è biofilia e comporta sia il non nuocere
al prossimo, sia l’aiutarlo a crescere e fiorire. Gandhi la ritiene la legge
suprema della nostra specie (ahimsa paramo dharma): “lo spirito resta latente
nella bestia, che non conosce altra legge che quella della forza fisica. La
dignità dell’uomo richiede obbedienza a una legge più alta, alla forza dello
spirito” (Young India, 11 agosto 1920). È inestricabilmente legata alla nozione
di verità (Satyagraha, vocazione alla verità, fermezza nella verità) e si
alimenta di benevolenza, compassione, perdono, tolleranza, generosità,
gentilezza, empatia, ecc.
La
non-violenza non è per i deboli. Per Gandhi la codardia esclude ogni possibile
adesione al movimento della nonviolenza. La violenza è invece dei codardi,
avendo solo l’apparenza della forza, ma essendo un segno di debolezza: “da
codardo, come sono stato per anni, ho albergato la violenza” (Young India,
1928). Chi è interiormente debole sviluppa quella paura che lo conduce a
nuocere a se stesso ed agli altri per difendersi da nemici reali o immaginari.
Si può essere davvero non-violenti quando si è conquistata la paura e si è
domato il proprio ego, che non può essere cancellato, ma va continuamente
tenuto sotto pressione, sfidato: “in presenza di…orgoglio ed egoismo, non c’è non-violenza.
La non-violenza è impossibile senza umiltà” (Harijan, 28 gennaio 1939). La vera
forza non si misura dalla capacità di uccidere, ma dalla disponibilità a
morire, al sacrificio, al subire (il porgere l’altra guancia) e a porre dei
limiti alle emozioni aggressive e distruttive. Il forte non vince per forza
bruta, ma per amore senza paura: “[ahimsa] non significa docile resa alla
volontà del malfattore, ma opposizione di tutta la propria anima alla volontà
del tiranno” (Young India, 1 agosto 1920). Infine Ahimsa non può essere
praticata senza fede in Dio, che implica la consapevolezza della pari dignità
di ogni essere umano, l’unità in Dio: “Ahimsa non è il traguardo. La Verità è
la meta” (Harijan, 1946).
Quanta
saggezza in questa visione del mondo!
GANDHI ERA UN FANATICO?
Lasciate anche che essi prendano possesso della vostra bella isola e dei vostri numerosi bei palazzi. Darete loro tutto questo, ma non le vostre anime né i vostri cuori. Se quei gentiluomini decidono di occupare le vostre case, vi trasferirete, e se non vi permetteranno di andarvene liberamente, vi farete massacrare tutti, uomini, donne e bambini, ma rifiuterete di dar loro la vostra lealtà.
Messaggio agli Inglesi (1940)
Certe
affermazioni gandhiane ci turbano. Penso ad esempio: “per uomini coraggiosi,
sacrificare i propri figli nella guerra dovrebbe essere causa non di pena ma di
gioia (pleasure)” e “il vero obiettivo della nostra lotta dev’essere uccidere
il mostro del pregiudizio razziale…C’è un solo modo di uccidere il mostro ed è
di offrirci in sacrificio. Non c’è vita se non mediante la morte. Solo la morte
ci può sollevare. è l’unico mezzo efficace di persuasione”. Oppure: “il mio
cuore è ora duro come una pietra. In questa lotta per l’autogoverno sono pronto
a sacrificare migliaia e centinaia di migliaia di uomini, se ciò sarà
necessario”. Pare di scorgere un sinistro sottofondo di necrofilia in Gandhi,
un lato oscuro che probabilmente è la causa della sua eccessiva intransigenza.
Altrimenti come si spiega che inviti i suoi seguaci a “corteggiare la morte,
dobbiamo abbracciarla come si abbraccia un amico….Coloro che non sono d’accordo
con tale visione farebbero meglio ad andar via”. Anche il suo senso del tragico
può sollevare delle perplessità. Gandhi sa che la non-violenza è un’azione
suicida per molti e che il satyagrahi è votato alla morte: “prima che costui
possa capire la non-violenza, occorre insegnarli a reggersi sulle proprie gambe
fino ad affrontare la morte nel tentativo di difendersi contro un aggressore
che con ogni probabilità lo sconfiggerà”. Personalmente mi chiedo se questa
visione melodrammatica, così spiccatamente “occidentale” (ma presente anche
nella cultura giapponese del Bushido), possa realmente contribuire al trionfo
della nonviolenza, in un lontano futuro, o in un mondo diverso da questo. Trovo
molto patriarcale e superomistico (e decisamente illusorio) il desiderio di
ottenere per sé una morte eroica che causi la disfatta della polarità
antagonistica, un tema centrale della tradizione euro-americana (Meeker, 1972).
Tra la tragedia e la commedia preferisco istintivamente quest’ultima, che
invece insegna che la sopravvivenza dipende dal nostro adattamento alla realtà,
dalla nostra capacità di trasformare noi stessi invece di trasformare l’ambiente,
di accettare limiti invece di imprecare contro il destino che ci limita. La
commedia cerca di risolvere i conflitti senza distruggere chi ne è coinvolto
(riconciliazione, aikido). Questo è poi il nucleo dell’elaborazione gandhiana
della Satyagraha. Ma l’atteggiamento del Mahatma, in alcune circostanze,
ricorda un po’ troppo il lirismo epico dell’eroe tragico che si carica
sulle spalle il fardello del conflitto, sentendosi in dovere di riaffermare la
sua supremazia e grandezza anche a costo della sua stessa distruzione, o forse
solo in virtù di essa: “se la funzione di himsa è di divorare tutto ciò
che gli viene davanti, la funzione di ahimsa è quella di correre in
bocca all’himsa” (Harijan, 13 maggio 1939). Non vi è coralità,
cooperazione, autentica solidarietà, genuina umiltà.
La
tragedia comunica una concezione del mondo in cui l’inevitabile lotta è lo
scenario della virile immolazione dell’eroe, contrastato da forze più vaste e
potenti di lui (la natura, il fato, gli dèi, l’ingiustizia, ecc.). L’eroe alla
fine deve morire, perché questo è il suo destino, perché solo così dà un senso
alla sua partecipazione al dramma cosmico.
Così facendo si trasforma in un modello e dopo la sua morte viene ricompensato
per la sua abnegazione, la sua autoimmolazione, la rinuncia a far valere l’istinto
di sopravvivenza. Ma, a quel punto, il confine tra resistenza nonviolenta
di Gandhi e movimentismo violento fascista diventa meno netto e la filosofia si
contamina con il narcisismo violento, prevaricatore ed autoritario dell’ “uomo
che non deve chiedere mai”, di chi sacrifica gli altri e anche se stesso per la
“sua” causa, cercando la “bella morte”, come dicevano i fascisti.
Il gusto
per l’eroicismo alimenta la nostra tracotanza, l’hybris, la superbia di chi
deve sentirsi costantemente in lotta, di chi non può trascorrere un solo
istante della sua esistenza senza concepire le sue azioni come parte di uno
scontro tra Davide (che in quanto piccolo e baldanzoso è nel giusto per
definizione) e Golia (che è troppo potente per non avere torto). Vista in
questa luce, la resistenza nonviolenta perde la sua originalità e,
paradossalmente, serve a moltiplicare le occasioni di conflitto invece di
quelle di compromesso e riconciliazione, ossia giustizia.
GANDHI ERA
VIOLENTO E NON POTEVA NON ESSERLO
La società basata sulla nonviolenza può consistere soltanto di gruppi insediati nei villaggi, in cui la cooperazione volontaria sia la condizione di un’esistenza dignitosa e pacifica
Harijan, 13 gennaio 1940
Perché mai
un inglese dovrebbe voler deificare Gandhi? […]. La risposta potrebbe essere
che "Gandhi" (il film, non l'uomo, che irritò enormemente i
britannici ma che ora riposa in pace per la pace di tutti) soddisfa determinate
aspirazioni della psiche occidentale, categorizzabili sotto tre titoli
principali. Prima di tutto, vi è l'impulso esotico, il desiderio di vedere
l'India quale sorgente di saggezza mistico-spirituale. Gandhi, il guru di
celluloide, segue la scia di altri santi uomini che hanno raggiunto la
popolarità - a partire dal Maharishi, che per primo segnò quella via. In
secondo luogo, vi è quella che potrebbe venir definita l'ansia cristiana di un
"capo" devoto agli ideali di povertà e semplicità, un uomo troppo
buono per questo mondo e dunque sacrificato sugli altari della storia. E in
terzo luogo, vi è il desiderio politico liberal-conservatore di sentirsi dire
che le rivoluzioni possono, e dovrebbero, essere combattute unicamente con
l'arma della sottomissione, del sacrificio personale e della nonviolenza. L’uomo
delle masse, dedito a una vita semplice, alla negazione di sé, all’ascetismo,
finanziato per tutta la vita dai magnati del supercapitalismo e, alcuni
direbbero, compromesso fino in fondo con essi? Il messaggio di Gandhi è che il
modo migliore di ottenere la libertà è quello di mettersi in fila, senza armi,
e marciare verso gli oppressori, permettendo loro di ridurti inerme al suolo a
suon di manganello; se resisti sufficientemente a lungo, li metterai in tale
imbarazzo da costringerli ad andar via. Tutto ciò è la peggior sciocchezza mai
sentita ed è una sciocchezza pericolosa. La nonviolenza fu una strategia scelta
da un popolo specifico nei confronti di un oppressore specifico; generalizzare
da tutto ciò costituisce un atto sospetto. Che utilità avrebbe avuto la
nonviolenza, ad esempio, contro i nazisti?
Salman
Rushdie, “Patrie Immaginarie”, Milano: Mondadori, 1991
Fu vera
non-violenza quella di Gandhi? Gandhi si diceva convinto che “se l’umanità non
fosse abitualmente non violenta, si sarebbe estinta da secoli” (Young India, 2
gennaio 1930). Ma questa conclusione mi pare possa derivare solo da una
definizione fin troppo ristretta di violenza. Una definizione più verosimile
dovrebbe anche includere la violazione della volontà altrui, che fu la norma
nei rapporti tra Gandhi ed i suoi famigliari. Nel Devoto-Oli è riportata la
seguente definizione: “azione volontaria, coercitiva, esercitata da un soggetto
su un altro, in modo da determinarlo ad agire contro la sua volontà”. Per
violenza sulle donne, le Nazioni Unite intendono “ogni atto di violenza
indirizzato alle persone di sesso femminile che abbia o possa avere come
risultato un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per la
donna, così come le minacce di questi atti, la coazione o la privazione
arbitraria della libertà, tanto se si producono nella vita pubblica come nella
vita privata” (Risoluzione 48/104, 1993). Stando a questo tipo di definizione,
che condivido, Gandhi era un violento. Di più, lo siamo tutti noi. Gandhi non
poteva che essere violento, perché solo una definizione inadeguata e fin troppo
generosa di violenza ci escluderebbe dal novero dei violenti. Questo è un
pianeta violento e noi non siamo all’altezza delle nostre durevoli e poderose
aspirazioni, l’esistenza delle quali dimostra peraltro la nostra libertà – per
quanto costretta da determinismi, vizi e manchevolezze – e indica la possibilità
che esistano realtà diverse, nonviolente, in un certo senso edeniche, dalle
quali forse proveniamo e dove forse siamo diretti, come si augurava Gandhi: “vi
sarà, allora, uno Stato di anarchia illuminata. In tale Stato ognuno sarà il
governante di se stesso. E si governerà in maniera da non essere mai di
ostacolo al prossimo” (Young India, 2 luglio 1931).
2 commenti:
Sto facendo una tesina di terza media sulla follia, e la mia prof. di inglese mi ha obbligato a portare Ghandi, anche se non si collega.
Ma grazie a questo blog sono riuscito a trovare le informazioni necessarie per lasciarla a bocca aperta.
La manderai fuori di testa...in tema follia
;o))))
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