Omnium primum avidum novae
libertatis populum, ne postmodum flecti precibus aut donis regiis posset, iure
iurando adegit neminem Romae passuros regnare.
[Prima di ogni cosa, per
evitare che in seguito potesse lasciarsi piegare da lusinghe e donativi di aspiranti
alla monarchia, (Lucio Giunio Bruto) indusse il popolo, avido di nuova libertà,
a giurare che non avrebbe più consentito che qualcuno regnasse a Roma].
Tito Livio
La storia è scritta dai
vincitori e la storia americana è stata scritta dai federalisti, i fautori
della federazione degli Stati Uniti d’America. Perciò è la storia di come i
Federalisti hanno salvato l’America istituendo un governo forte ed accentrato
sotto l’egida della Costituzione del 1787, assicurando la stabilità è la
prosperità del nuovo stato unitario repubblicano.
Quasi nessuno studente
americano s’imbatte in Brutus, lo pseudonimo usato da un anonimo
anti-federalista, magistrale argomentatore, per perorare la causa della
Confederazione.
Ricordo ai lettori che la
CONFEDERAZIONE è un'unione di stati che conservano la propria sovranità e
si accordano su quali strumenti ed istituzioni servano a mantenere la pace e la
cooperazione. Nella FEDERAZIONE (es. Svizzera e Stati Uniti), gli stati cedono
la loro sovranità ad un'entità giuridico-politica che li sovrasta e non possono
più tornare indietro o chiamarsi fuori. È quel che hanno in mente Merkel e
Sarkozy. L’Unione Sovietica era una federazione. Originariamente la Svizzera
era invece una confederazione: di qui la sua denominazione di Confederazione
Elvetica, sebbene oggi non conservi più alcun elemento confederale. Ci volle
una guerra civile per completare la transizione.
Nessuno sa chi si celasse
dietro lo pseudonimo Brutus, ma quel che è fuor di dubbio è che fu uno dei più
lucidi ed articolati critici del federalismo, nonché un raffinato analista
politologico e sociologico. In 18 articoli pubblicati dal New York Journal, il
Nostro riassunse praticamente tutti i temi politici più scottanti del nostro
tempo e di ogni tempo, riuscendo ad anticipare, con una nitidezza ed
accuratezza senza paragoni, le ramificazioni a lunghissimo termine delle
decisioni che si stavano prendendo allora.
Una sua riflessione che trovo
di fondamentale importanza riguarda il rapporto patologico che si instaura tra
esseri umani e potere. Brutus controbatte ai difensori dello Stato forte
notando come l’esperienza della storia ci dovrebbe aver insegnato che un
gruppo di uomini, investito di autorità, tende a cercare di incrementarla controllando
e rimuovendo ciò che interferisce con questa loro disposizione naturale. Di qui
l’importanza di distribuire il potere il più estesamente possibile, in modo che
non si concentri e finisca per prevaricare i diritti dei più deboli, inclusi
gli stati più piccoli. Coerentemente con questa impostazione, Brutus
non prestò soverchia attenzione alla Carta dei Diritti (Bill of Rights), perché
era consapevole del fatto che i diritti restano sulla carta se un’autorità
conquista una tale supremazia da infischiarsene dei principi e delle norme
concordate precedentemente. Il modo migliore per salvaguardare i diritti
dei cittadini è fare in modo che nessuno sia in grado di imporre il suo
arbitrio. Trovo che questa conclusione sia inoppugnabile e che chi
crede che i nostri diritti non siano precari viva di illusioni.
Brutus era un abolizionista e
non capiva perché l’infame proprietà di schiavi degli stati del sud dovesse
essere premiata con una maggior rappresentanza politica (fu un compromesso per
evitare la secessione, che poi arrivò comunque qualche decennio più tardi).
Brutus non riusciva inoltre a
capire come una minuscola assemblea potesse rappresentare tutti i ceti sociali
americani. Idealmente, uno straniero avrebbe dovuto potersi fare un’idea dell’America
esaminando i politici che rappresentavano l’elettorato, ma l’assetto prescelto
garantiva solo che un’oligarchia avrebbe finito per pretendere di fare gli
interessi di migliaia di persone, corrompendosi e corrompendo il corpo dello
Stato. Un caso esemplare è, odiernamente, quello delle autorità europee, che
peraltro non sono neppure elette.
Per lui l’unica guerra
giustificabile è una guerra difensiva ed osservava come gli stati europei
del suo tempo erano quasi invariabilmente organizzati ed amministrati in vista
degli scontri armati, come se in questo consistesse la loro maggior gloria.
Brutus riteneva che si trattasse di un enorme equivoco riguardo alle finalità
di uno Stato e del suo governo, che nasce ed esiste per salvare le vite dei
cittadini, non certo per distruggerle. Di conseguenza gli Stati Uniti si
dovevano prefiggere il compito di servire da esempio per tutti gli altri stati,
mirando a garantire ai propri cittadini una ragionevole possibilità di
conseguire la felicità e la virtù: “lasciamo che i monarchi europei
condividano tra loro la gloria di spopolare le loro rispettive nazioni,
massacrando migliaia dei loro figli innocenti…non invidio loro questo onore e
prego il cielo che questa nazione non nutra mai ambizioni di questo genere”.
Oltre alla sua tenace
dedizione alla causa dei diritti umani, Brutus mostrò una non comune
lungimiranza finanziaria quando predisse che l’illimitata prerogativa del
governo di prendere a prestito denaro avrebbe un giorno creato un debito
pubblico che non sarebbe mai stato possibile saldare.
Quanto alla gestione della
cosa pubblica Brutus attribuiva ai Federalisti la tendenza a farsi sedurre dal
fascino degli eserciti, delle organizzazioni stabili in cui gli individui erano
deferenti nei confronti dei loro superiori per natura – un principio
incompatibile con lo spirito della Bill of Rights, la Carta dei Diritti che fu
infatti avversata dalla gran parte dei Federalisti. Brutus stigmatizzava la
fissazione per l’ordine, la tradizione, la separazione gerarchica tra gli
esseri umani, identificando queste inclinazioni con quelle tipiche degli
ufficiali dell’esercito, inappropriate per degli statisti repubblicani.
Un’ulteriore, accuratissima
intuizione di Brutus riguardò la maniera in cui gli articoli che sancivano la
necessità di promuovere il benessere collettivo sarebbero poi stati
strumentalizzati per espandere progressivamente i poteri del governo
centrale riducendo la sovranità dei singoli stati.
Ma perché “Brutus”? Cosa c’è
dietro la scelta di un tale nom de plume?
Era un omaggio al Bruto
cesaricida, difensore della Roma repubblicana, ma anche al Bruto che sconfisse il
tiranno Tarquinio il Superbo, l’ultimo re di Roma, diventando il padre della
gloriosa Repubblica di Roma. Il Bruto tirannicida – Marco Giunio Bruto – si
proclamava discendente di Lucio Giunio Bruto (545 a.C. - 509
a.C.).
Sappiamo abbastanza poco di
quest’ultimo, assurto poi a simbolo universale di libertà per i rivoluzionari
francesi – che ne portarono in corteo l’effigie per celebrare la morte del
tiranno Robespierre – come per quelli americani, e anche quel poco che sappiamo
è avvolto nella leggenda. Come Amleto, pare che Bruto abbia finto per anni
di essere stolto, per non essere fatto fuori da Tarquinio, presso il quale
viveva, uno dei pochi superstiti del suo lignaggio, massacrato dal tiranno.
Nel frattempo si dedicò all’organizzazione di un movimento rivoluzionario
clandestino, che trionfò, nonostante il suo decesso sul campo, nella battaglia
decisiva. Cicerone tramanda che fosse un iniziato dei misteri pitagorici
e in effetti diverse sue iniziative sembrano indicare una sensibilità
pitagorica: abolì l’infanticidio sacrificale, emancipò gli schiavi,
introdusse il principio dell’equilibrio tra i poteri, della moderazione nell’amministrazione
della cosa pubblica, che era un pilastro del pensiero politico e filosofico di
Pitagora, e fu il primo tribuno della plebe.
Malauguratamente, la
costituzione di Bruto non sopravvisse al tracollo economico della crisi del V
secolo, che favorì l’accentramento del potere nelle mani degli oligarchi,
che si costituirono in casta, sotto la protezione del dio Marte.
Corsi e ricorsi della storia.
FONTI
Andrea Carandini, “Res
Publica. Come Bruto cacciò l’ultimo re di Roma”. Milano: Rizzoli, 2011.
Attilio Mastrocinque, “Lucio
Giunio Bruto : ricerche di storia, religione
e diritto sulle origini della repubblica romana”, Trento: La Reclame, 1988.
Cecelia M. Kenyon, “The Antifederalists”, New York:
Bobbs-Merrill & Co., 1966, pp. 323-358
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