Luke: “Il lato oscuro è più
forte?”
Yoda: “No, no, no… più
rapido, più facile , più seducente…uno Jedi usa la Forza per la conoscenza e la
difesa, mai per attaccare…le tue armi… bisogno non ne avrai…Grande guerriero…
mmh… guerra non ha mai fatto nessuno grande!”
La misura della vita non sta
nella sopraffazione reciproca o nella prestanza bellica, ma nella misura, nella
socialità, nella gentilezza e perfino nell’eleganza, che non è una colpa ma una
disciplina. […]. Si tratta di scegliere come stare al mondo; con quali idee,
quali speranze, quali gusti e quali disgusti.
Michele Serra, Il Venerdì,
1152, 16 aprile 2010.
Che cos’è la democrazia se non
un insieme di regole (le cosiddette regole del gioco) per la soluzione dei
conflitti senza spargimento di sangue? Che cos’è la democrazia se non la prima
introduzione del metodo nonviolento per risolvere i conflitti politici?
Norberto Bobbio
Per giustificare l'invasione
dell'Iraq gli Americani dissero che era l'unica maniera per liberare una
nazione da un terribile dittatore. Abbiamo dimostrato con la nostra rivoluzione
che si può costringere un dittatore ad andarsene pacificamente.
Alaa al-Aswany, uno dei più
importanti scrittori egiziani contemporanei
Non temete coloro che uccidono
il corpo, ma non possono uccidere l’anima; temete di più chi può far perire sia
l’anima che il corpo.
Matteo 10, 28
Poiché dove c'è gelosia e
spirito di contesa, c'è disordine e ogni sorta di cattive azioni. La sapienza
che viene dall'alto invece è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole,
piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia. Un
frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di
pace.
Lettera di Giacomo, 16-18
La resistenza nonviolenta
funziona solo se il potere è violento. M.L. King fu sconfitto ad Albany perché
il capo della polizia locale, Laurie Pritchett, impiegò metodi
nonviolenti contro i manifestanti nonviolenti. King lo considerava una brava
persona troppo rispettosa del sistema ma fece fatica a perdonargli di avere
usato i suoi metodi morali per tutelare i fini immorali della segregazione
razziale. Tuttavia, con il passare del tempo, diventarono comunque amici. Il
movimento luddista fu nonviolento: era formato da sabotatori, non da assassini.
Eppure oggi, come allora, il lavoratore dipende sempre più dalle macchine. Aung
San Suu Kiy è viva perché la popolazione è dalla sua parte, ma la popolazione è
dalla sua parte perché lei non la espone alla violenza del regime.
Insomma, la questione della
violenza e della nonviolenza è delicata e complicata.
Qualunque persona dotata di
senno e di empatia dovrebbe considerare la violenza come l’extrema ratio, l’ultima
opzione contemplabile. Una persona di buona volontà dovrebbe impegnarsi a
lasciare ai posteri un mondo meno violento di quello in cui è nato. Una persona
di buona volontà, dotata di senno ed empatia, dovrebbero però anche voler
lasciare ai figli un mondo più libero e più giusto. La presenza di bulli,
psicopatici, malati di mente, stupratori, pedofili, violenti e predatori vari,
però, mette in contrapposizione pace e giustizia, nonviolenza e libertà.
La pace del nostro tempo è
iniqua: nel “Mondo Nuovo” di Aldous Huxley il regime si compiace di aver
abolito la guerra.
La simpatia per la causa della
nonviolenza ha indotto alcuni potenti a pensare che resteranno per sempre
impuniti.
Più un paese è prospero, più
sarà pacifico, internamente: il che significa che, se necessario, esporterà la
violenza pur di mantenere la stabilità interna:
Il fatto è che nella vita ci
sono molteplici circostanze in cui la forza fisica è indispensabile, per
difendersi e per evitare che bambini ed adulti dal raziocinio compromesso si
facciano male o ne arrechino ad altri. Non viviamo in un mondo ideale e quindi è
importante che i bambini apprendano a farsi valere di fronte a chi cerca di
prevaricare i loro diritti e a prendere le difese dei più deboli. Anche tra
bambini ci sono bulli e manipolatori, per quanto la cosa ci risulti
spiacevole e facciamo di tutto per rimuoverla dal nostro orizzonte di
consapevolezza. Ciò non toglie che l’uso della forza fisica deve rimanere
sporadico, eccezionale, meditato ed equanime, non deve mirare a dominare il
prossimo, ma a ristabilire un equilibrio compromesso ed insegnare al bambino
che le sue azioni hanno delle conseguenze, che se si ferisce coscientemente
qualcun altro la reazione può essere dolorosa. Solo rendendosi conto che il
mondo è quello che è si può aiutare il bambino a maturare e diventare un adulto
riflessivo e responsabile che non si rende complice del male restandosene zitto
ed inerte: chi non resiste con la forza alla violenza dei predatori è
responsabile anche degli abusi che subiranno gli indifesi. Socrate era
contrario alla violenza, ma fu anche un ottimo soldato.
Il che non significa che
bisogna sempre combattere il fuoco con il fuoco. La violenza, come detto,
dovrebbe essere l’ultima opzione. Una persona che riesce a disciplinare le
proprie emozioni sa capire quando è il momento di farlo e non alimenta un’atmosfera
psicologicamente malsana, l’habitat ideale degli psicopatici. Quando uno è
felice e in pace non nutre alcun desiderio di fare del male a qualcun altro: “La
pace non è assenza di guerra: è una virtù, uno stato d'animo, una disposizione
alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia”, diceva Baruch Spinoza.
Ho già esaminato questa
questione qui (autodifesa):
qui (vendetta):
e qui (paura):
Essere violenti non è la
stessa cosa che essere coraggiosi. In genere la violenza è una risposta
inadeguata alle circostanze, che indica povertà di immaginazione nel concepire
opzioni alternative. È tipico di chi brama il potere e fomenta la violenza
perché conosce solo quella. La prima opzione dovrebbe sempre essere quella
della non-cooperazione:
Ma non bisogna autocompiacersi
narcisisticamente della propria asserita nonviolenza. Nessuno è nonviolento ed
a questo mondo ed è fin troppo facile fare la colomba fino all’estremo
sacrificio pur di mantenere la propria purezza, ad ogni costo. Anche quella è
una violenza, la violenza di ego che impone a tutti gli altri le conseguenza
della sua eroica impresa, magari anche facendo trionfare i violatori incalliti
del diritto.
Diceva bene Jiddu
Krishnamurti: essendo violenta, la mente proietta il suo opposto, l’ideale
della nonviolenza. Si sostiene che l’ideale serva a superare il suo opposto, ma
è davvero così? L’ideale è una meravigliosa e rispettabile via di fuga dall’attuale.
L’ideale della nonviolenza, come ogni utopia collettiva, è fittizio e
compensativo: ciò che dovrebbe essere ci aiuta a dissimulare ciò che purtroppo è.
Il procrastinare non ci aiuta a capire ciò che è ma, anzi, ostacola la nostra
comprensione. Bisognerebbe liberarsi dall’ideale, da ciò che dovrebbe essere.
Krishnamurti osserva, molto acutamente, che se voglio essere nonviolento,
l’atto di volerlo indica che la radice del male - il desiderio - è ancora lì.
Voglio essere nonviolento e faccio violenza a me stesso per diventare quel che
voglio essere, in accordo con i miei desideri. C’è conflitto, attrito, la
disciplina che mi impongo produce effetti intorno a me, effetti imprevedibili
ma sempre violenti, perché l’ideale è comunque irraggiungibile e perciò tutte
le mie energie si concentrano su di me, a spese degli altri; anzi, recluto gli
altri nella mia crociata di perfezionamento. Ancora una volta, il mondo diventa
un’estensione di me stesso. Questa è la ragione per cui la rabbia e la violenza
vanno studiate in uno spirito di tolleranza.
Reputo che la strada migliore
sia la via di mezzo tra la nonresistenza tolstojana e la violenza terrorista di
chi vuole rimodellare il mondo a sua immagine e somiglianza (come
Robespierre e Saint-Just, Lenin e Stalin).
Questa via di mezzo è l’arte
dell’approccio indiretto, che resiste alla tentazione del braccio di ferro,
della contrapposizione di fuoco e fuoco, che non serve a nulla. Mi pare
che sia la via indicata da Gesù il Cristo, che voleva porre fine alle guerre – “Chi
di spada ferisce di spada perisce” –, ma anche allo stato di ipnosi collettiva
in cui versa l’umanità al cospetto del potere. È riuscito a porre fine alle
guerre? No, e non sarà il pensiero positivo della New Age a cambiare le cose. E
allora che senso ha protestare? Ebbene, ogni nostro piccolo sforzo, cumulato
a quello delle altre persone di buona volontà, unite in un impegno corale, un’impresa
collettiva, si cristallizza poi in esiti diversi. Non poter redimere questo
mondo non vuol dire abbandonarlo a se stesso. Il fatto che per vivere dobbiamo
alimentarci con altre vite non vuol dire che va tutto bene quando si arreca
sofferenza fisica ad una qualunque specie, animale o vegetale. Il fatto che
questo mondo sia caratterizzato da una lotta continua non rende per questo
legittima la sopraffazione, come ci vorrebbe far credere, tra gli altri,
Nietzsche. La vita, anche quella spirituale, non è una faccenda limitata alla
contemplazione pacifica e quieta devozione, ma è un terribile tumulto, una
lotta spietata, un’amara contesa. Ciò non toglie che a noi spetti il compito di
fare nostro l’aforisma di Hans Jonas: “Agisci in modo tale che le
conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di
un'autentica vita umana sulla terra” (Hans Jonas, “Il principio di
responsabilità”).
Per farcela dobbiamo costantemente sorvegliare e
contrastare le debolezze umane: l’egocentrismo, l’auto-inganno, la fallacia
logica, la soggettività emotiva, il bisogno di appartenenza, la dipendenza da
figure autoritarie/autorevoli, il pensiero binario-manicheo, la vulnerabilità
alla pressione gregaria, l’ignoranza, la percezione selettiva della realtà, la
mancanza di facoltà psichiche (sospetto che altri animali ne siano dotati).
E, contemporaneamente, coltivare quegli attributi di umanità che tendiamo a
smarrire – il bisogno d’amore (non possessivo), di rendersi utili, di
migliorarsi, la curiosità, la creatività, il desiderio di apprendere e capire,
la laboriosità, ecc. – e che ci preservano dalla condizione di fantocci,
caricature di esseri umani: “il ciclo cosmogonico viene presentato con una
stupefacente coerenza nei sacri testi di tutti i continenti e conferisce alle
avventure dell’eroe un aspetto nuovo ed interessante; perché ora diventa chiaro
che il viaggio periglioso non era lo sforzo di chi deve ottenere ma di chi deve
riottenere, non di chi scopre, ma di chi riscopre. Si scopre, cioè, che i
poteri divini ricercati e conquistati con gravi rischi personali erano sempre
stati presenti nel cuore dell’eroe. È il “figlio del re” che ha finalmente
compreso la sua identità e, in questo modo, può esercitare i poteri che gli
spettano –figlio di Dio…da questo punto di vista l’eroe simboleggia l’immagine
di creatività e redenzione divina che è celata in tutti noi e che attende di
essere svelata e restituita alla vita” [Joseph Campbell, “L'eroe dei mille
volti” 1949]
Nessun commento:
Posta un commento