domenica 4 dicembre 2011

La nonviolenza serve a qualcosa?




Luke: “Il lato oscuro è più forte?”
Yoda: “No, no, no… più rapido, più facile , più seducente…uno Jedi usa la Forza per la conoscenza e la difesa, mai per attaccare…le tue armi… bisogno non ne avrai…Grande guerriero… mmh… guerra non ha mai fatto nessuno grande!”

La misura della vita non sta nella sopraffazione reciproca o nella prestanza bellica, ma nella misura, nella socialità, nella gentilezza e perfino nell’eleganza, che non è una colpa ma una disciplina. […]. Si tratta di scegliere come stare al mondo; con quali idee, quali speranze, quali gusti e quali disgusti.
Michele Serra, Il Venerdì, 1152, 16 aprile 2010.

Che cos’è la democrazia se non un insieme di regole (le cosiddette regole del gioco) per la soluzione dei conflitti senza spargimento di sangue? Che cos’è la democrazia se non la prima introduzione del metodo nonviolento per risolvere i conflitti politici?
Norberto Bobbio

Per giustificare l'invasione dell'Iraq gli Americani dissero che era l'unica maniera per liberare una nazione da un terribile dittatore. Abbiamo dimostrato con la nostra rivoluzione che si può costringere un dittatore ad andarsene pacificamente.
Alaa al-Aswany, uno dei più importanti scrittori egiziani contemporanei

Non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima; temete di più chi può far perire sia l’anima che il corpo.
Matteo 10, 28

Poiché dove c'è gelosia e spirito di contesa, c'è disordine e ogni sorta di cattive azioni. La sapienza che viene dall'alto invece è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia. Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace.
Lettera di Giacomo, 16-18

La resistenza nonviolenta funziona solo se il potere è violento. M.L. King fu sconfitto ad Albany perché il capo della polizia locale, Laurie Pritchett, impiegò  metodi nonviolenti contro i manifestanti nonviolenti. King lo considerava una brava persona troppo rispettosa del sistema ma fece fatica a perdonargli di avere usato i suoi metodi morali per tutelare i fini immorali della segregazione razziale. Tuttavia, con il passare del tempo, diventarono comunque amici. Il movimento luddista fu nonviolento: era formato da sabotatori, non da assassini. Eppure oggi, come allora, il lavoratore dipende sempre più dalle macchine. Aung San Suu Kiy è viva perché la popolazione è dalla sua parte, ma la popolazione è dalla sua parte perché lei non la espone alla violenza del regime.
Insomma, la questione della violenza e della nonviolenza è delicata e complicata.

Qualunque persona dotata di senno e di empatia dovrebbe considerare la violenza come l’extrema ratio, l’ultima opzione contemplabile. Una persona di buona volontà dovrebbe impegnarsi a lasciare ai posteri un mondo meno violento di quello in cui è nato. Una persona di buona volontà, dotata di senno ed empatia, dovrebbero però anche voler lasciare ai figli un mondo più libero e più giusto. La presenza di bulli, psicopatici, malati di mente, stupratori, pedofili, violenti e predatori vari, però, mette in contrapposizione pace e giustizia, nonviolenza e libertà.

La pace del nostro tempo è iniqua: nel “Mondo Nuovo” di Aldous Huxley il regime si compiace di aver abolito la guerra.

La simpatia per la causa della nonviolenza ha indotto alcuni potenti a pensare che resteranno per sempre impuniti.

Più un paese è prospero, più sarà pacifico, internamente: il che significa che, se necessario, esporterà la violenza pur di mantenere la stabilità interna:

Il fatto è che nella vita ci sono molteplici circostanze in cui la forza fisica è indispensabile, per difendersi e per evitare che bambini ed adulti dal raziocinio compromesso si facciano male o ne arrechino ad altri. Non viviamo in un mondo ideale e quindi è importante che i bambini apprendano a farsi valere di fronte a chi cerca di prevaricare i loro diritti e a prendere le difese dei più deboli. Anche tra bambini ci sono bulli e manipolatori, per quanto la cosa ci risulti  spiacevole e facciamo di tutto per rimuoverla dal nostro orizzonte di consapevolezza. Ciò non toglie che l’uso della forza fisica deve rimanere sporadico, eccezionale, meditato ed equanime, non deve mirare a dominare il prossimo, ma a ristabilire un equilibrio compromesso ed insegnare al bambino che le sue azioni hanno delle conseguenze, che se si ferisce coscientemente qualcun altro la reazione può essere dolorosa. Solo rendendosi conto che il mondo è quello che è si può aiutare il bambino a maturare e diventare un adulto riflessivo e responsabile che non si rende complice del male restandosene zitto ed inerte: chi non resiste con la forza alla violenza dei predatori è responsabile anche degli abusi che subiranno gli indifesi. Socrate era contrario alla violenza, ma fu anche un ottimo soldato.

Il che non significa che bisogna sempre combattere il fuoco con il fuoco. La violenza, come detto, dovrebbe essere l’ultima opzione. Una persona che riesce a disciplinare le proprie emozioni sa capire quando è il momento di farlo e non alimenta un’atmosfera psicologicamente malsana, l’habitat ideale degli psicopatici. Quando uno è felice e in pace non nutre alcun desiderio di fare del male a qualcun altro: “La pace non è assenza di guerra: è una virtù, uno stato d'animo, una disposizione alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia”, diceva Baruch Spinoza.

Ho già esaminato questa questione qui (autodifesa):
qui (vendetta):
e qui (paura):

Essere violenti non è la stessa cosa che essere coraggiosi. In genere la violenza è una risposta inadeguata alle circostanze, che indica povertà di immaginazione nel concepire opzioni alternative. È tipico di chi brama il potere e fomenta la violenza perché conosce solo quella. La prima opzione dovrebbe sempre essere quella della non-cooperazione:

Ma non bisogna autocompiacersi narcisisticamente della propria asserita nonviolenza. Nessuno è nonviolento ed a questo mondo ed è fin troppo facile fare la colomba fino all’estremo sacrificio pur di mantenere la propria purezza, ad ogni costo. Anche quella è una violenza, la violenza di ego che impone a tutti gli altri le conseguenza della sua eroica impresa, magari anche facendo trionfare i violatori incalliti del diritto.

Diceva bene Jiddu Krishnamurti: essendo violenta, la mente proietta il suo opposto, l’ideale della nonviolenza. Si sostiene che l’ideale serva a superare il suo opposto, ma è davvero così? L’ideale è una meravigliosa e rispettabile via di fuga dall’attuale. L’ideale della nonviolenza, come ogni utopia collettiva, è fittizio e compensativo: ciò che dovrebbe essere ci aiuta a dissimulare ciò che purtroppo è. Il procrastinare non ci aiuta a capire ciò che è ma, anzi, ostacola la nostra comprensione. Bisognerebbe liberarsi dall’ideale, da ciò che dovrebbe essere. Krishnamurti osserva, molto acutamente, che se voglio essere nonviolento, l’atto di volerlo indica che la radice del male - il desiderio - è ancora lì. Voglio essere nonviolento e faccio violenza a me stesso per diventare quel che voglio essere, in accordo con i miei desideri. C’è conflitto, attrito, la disciplina che mi impongo produce effetti intorno a me, effetti imprevedibili ma sempre violenti, perché l’ideale è comunque irraggiungibile e perciò tutte le mie energie si concentrano su di me, a spese degli altri; anzi, recluto gli altri nella mia crociata di perfezionamento. Ancora una volta, il mondo diventa un’estensione di me stesso. Questa è la ragione per cui la rabbia e la violenza vanno studiate in uno spirito di tolleranza.

Reputo che la strada migliore sia la via di mezzo tra la nonresistenza tolstojana e la violenza terrorista di chi vuole rimodellare il mondo a sua immagine  e somiglianza (come Robespierre e Saint-Just, Lenin e Stalin).

Questa via di mezzo è l’arte dell’approccio indiretto, che resiste alla tentazione del braccio di ferro, della contrapposizione di fuoco e fuoco, che non serve a nulla. Mi pare che sia la via indicata da Gesù il Cristo, che voleva porre fine alle guerre – “Chi di spada ferisce di spada perisce” –, ma anche allo stato di ipnosi collettiva in cui versa l’umanità al cospetto del potere. È riuscito a porre fine alle guerre? No, e non sarà il pensiero positivo della New Age a cambiare le cose. E allora che senso ha protestare? Ebbene, ogni nostro piccolo sforzo, cumulato a quello delle altre persone di buona volontà, unite in un impegno corale, un’impresa collettiva, si cristallizza poi in esiti diversi. Non poter redimere questo mondo non vuol dire abbandonarlo a se stesso. Il fatto che per vivere dobbiamo alimentarci con altre vite non vuol dire che va tutto bene quando si arreca sofferenza fisica ad una qualunque specie, animale o vegetale. Il fatto che questo mondo sia caratterizzato da una lotta continua non rende per questo legittima la sopraffazione, come ci vorrebbe far credere, tra gli altri, Nietzsche. La vita, anche quella spirituale, non è una faccenda limitata alla contemplazione pacifica e quieta devozione, ma è un terribile tumulto, una lotta spietata, un’amara contesa. Ciò non toglie che a noi spetti il compito di fare nostro l’aforisma di Hans Jonas: “Agisci in modo tale che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un'autentica vita umana sulla terra” (Hans Jonas, “Il principio di responsabilità”).

Per farcela dobbiamo costantemente sorvegliare e contrastare le debolezze umane: l’egocentrismo, l’auto-inganno, la fallacia logica, la soggettività emotiva, il bisogno di appartenenza, la dipendenza da figure autoritarie/autorevoli, il pensiero binario-manicheo, la vulnerabilità alla pressione gregaria, l’ignoranza, la percezione selettiva della realtà, la mancanza di facoltà psichiche (sospetto che altri animali ne siano dotati). E, contemporaneamente, coltivare quegli attributi di umanità che tendiamo a smarrire – il bisogno d’amore (non possessivo), di rendersi utili, di migliorarsi, la curiosità, la creatività, il desiderio di apprendere e capire, la laboriosità, ecc. – e che ci preservano dalla condizione di fantocci, caricature di esseri umani: “il ciclo cosmogonico viene presentato con una stupefacente coerenza nei sacri testi di tutti i continenti e conferisce alle avventure dell’eroe un aspetto nuovo ed interessante; perché ora diventa chiaro che il viaggio periglioso non era lo sforzo di chi deve ottenere ma di chi deve riottenere, non di chi scopre, ma di chi riscopre. Si scopre, cioè, che i poteri divini ricercati e conquistati con gravi rischi personali erano sempre stati presenti nel cuore dell’eroe. È il “figlio del re” che ha finalmente compreso la sua identità e, in questo modo, può esercitare i poteri che gli spettano –figlio di Dio…da questo punto di vista l’eroe simboleggia l’immagine di creatività e redenzione divina che è celata in tutti noi e che attende di essere svelata e restituita alla vita” [Joseph Campbell, “L'eroe dei mille volti” 1949]

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