“Per ritrovare l’origine
del Natale bisogna andare sugli altipiani dell’Hindu Kush, tra Afghanistan e
Kashmir. Dove
vivono gli ultimi pagani. Sono i fieri Kalasha, gelosi custodi delle loro
remotissime tradizioni indoeuropee. Questi uomini che sapevano d’antico già nel
330 avanti Cristo, quando Alessandro Magno li incontrò durante la sua marcia
verso Jelalabad, ci rivelano le radici della nostra storia e della nostra
religione. Il loro grandioso rito solstiziale d’inverno, dodici giorni che
iniziano con la discesa del dio tra gli uomini e si concludono con l´inizio del
nuovo anno, è infatti l’archeologia vivente della natività. A dirlo è l’antropologo
Augusto Cacopardo in un libro appena uscito per l’editore Sellerio. Il
titolo, più che eloquente, è “Natale pagano” (Sellerio, pp. 476, euro
20). Argomento è la millenaria gestazione di una festa che non sarebbe stata
inventata dal cristianesimo ma comincia molto prima.
In realtà sono stati
in molti a sostenere che la madre di tutte le festività dell’Occidente nasce da
antichi riti agrari e astronomici precristiani. Come quelli dell’Atene
di Pericle, culla della democrazia occidentale, dove nell’ultima
decade di dicembre si addobbava un albero sempreverde con coppe e otri in onore
di Dioniso, il dio del vino che offre in pasto il suo corpo e il suo sangue.
Mentre a Roma, sempre in dicembre, durante i Saturnali si ornavano le
case con abeti e altri alberi perenni, simboli della vita che continua.
Il tutto culminava nella festa di Mitra, il dio solare nato in una grotta
e rappresentato come un bambino risplendente di luce. La sua nascita
coincideva con il solstizio d’inverno, quando le giornate cominciano ad
allungarsi e il sole ha il sopravvento sulle tenebre. Stessa cosa facevano i Celti
dell'Europa del Nord che nello stesso periodo offrivano alle divinità della
luce composizioni di vischio e rami di abete.
Il libro di Cacopardo
aggiunge a queste ipotesi storiche una prova vivente. I Kalasha, che hanno
resistito a ogni tentativo di cristianizzazione e di islamizzazione, continuano
infatti a professare una religione sorprendentemente simile a quella
dell´antichità. Questi montanari variopinti che Fosco Maraini
trovava più antichi che esotici, appaiono come l’eco presente di un tempo
lontanissimo, il riverbero di un passato remoto miracolosamente conservato in
una bolla della storia. Sospesa a duemila metri sulle alture rarefatte di
Birir, a due passi dai teatri di guerra dell’Afghanistan. Questi
portatori sani di un’origine altrove scomparsa ci fanno toccare con mano lo
spirito della religione prima dell´arrivo dei monoteismi. E soprattutto
ritrovare il politeismo degli antichi popoli indoeuropei, spesso ancora
presente sotto traccia nel nostro folklore. E perfino nelle nostre grandi
solennità religiose. La grandiosa festa del solstizio d´inverno, che i Kalasha
chiamano Chaumos, è a tutti gli effetti un natale prima del Natale. È la
matrice ideale della nostra notte incantata.
Con il dio luminoso Indr
- parente stretto di Indro, nome locale dell´arcobaleno, nonché di Indra,
signore della folgore nel pantheon induista - che discende a visitare gli
uomini nel periodo più buio dell´anno e dispensa loro la sua energia come un
dono benefico. Se si aggiungono i rami di vischio, le abbuffate rituali
di lenticchie di montagna, la notte di vigilia in attesa dell´avvento del dio,
i doni ai bambini e i fuochi che rischiarano la notte innevata, gli
ingredienti del nostro Natale ci sono tutti. A parte "Jingle Bells".
Ma non è poi così grave. Non sarebbe Gesù bambino a fare il Natale, dunque,
ma il natale a fare Gesù bambino. Sembra questo il messaggio degli ultimi
pagani. Che pare fatto apposta per dar ragione a Sant’Agostino il quale
diffidava i cristiani dal celebrare il sole a dicembre perché era roba da
idolatri. O a quei sacerdoti francesi che, alla fine degli anni Cinquanta,
bruciarono il fantoccio di Babbo Natale sul sagrato della cattedrale di Digione
considerandolo un simbolo perverso di paganesimo e al tempo stesso di
consumismo. Che sono, a pensarci bene, il prima e il dopo della modernità. Due
estremi della storia mescolati insieme. A conclusione di un cammino millenario
di cui gli ultimi pagani continuano ancora oggi a celebrare l’inizio”.
Marino Niola, “Natale nel
Kashmir: ecco le origini pagane di Gesù Bambino”, 20 dicembre 2010
“Durante le feste del
solstizio le donne cantano canzoni oscene (ma nel resto dell'anno sono
riservatissime) e danzano simulando un litigio tra un marito geloso e una
moglie adultera e i giovani passano di casa in casa insultando gli anziani e la
gente dei villaggi.
Insomma il Natale è palingenesi,
è messa in scena del contrasto tra uomini e donne, tra giovani e adulti, perché
tutto possa rinnovarsi. Augusto Cacopardo ci spiega in un bel libro della
Sellerio (Natale pagano, Feste d'inverno nello Hindu Kush) che si tratta di una
forma di religiosità antichissima, pre-islamica e pre-cristiana, indoariana,
probabilmente legata alle migrazioni di popoli indoeuropei che si attestarono
qui oppure a tribù arrivate con Alessandro Magno e rimaste come un'enclave
indogreca in queste montagne di difficile accesso.
Vi si ritrovano tutti i
temi archetipici del nostro Natale, il sacrificio dell'agnello, il vino come
fondante la comunità e l'orgia dionisiaca che si scatena con l'ebbrezza e con
la danza, le noci, i legumi, il ginepro che è fondamentale nei riti di
purificazione e perfino il vischio, uno dei simboli più remoti (il famoso
"ramo d'oro" di cui parla James Frazer) perché è un arbusto che
fruttifica durante l'inverno.
È quasi un miracolo che
tutto questo ci sia ancora e sia festoso, magnifico, profondo, rinnovatore. E
stia lì a ricordarci che non siamo soli nel nostro Natale. Che anche il nostro
Natale è una celebrazione della luce nelle tenebre, come quello dei kalasha che
non dormono per notti intere per portare in giro la luce”.
“Sul popolo Kalasha, quattromila
persone tra i monti del nord-ovest del Pakistan lungo il confine afghano ad
altitudini che sfiorano i 2.000 metri, pochi al mondo sanno qualcosa. Ma due
fratelli palermitani - Augusto e Alberto Cacopardo – ne sanno molto: dal 1973
ad oggi hanno dedicato molte energie ad approfondire la conoscenza di questo
popolo quasi sconosciuto. Un’etnia che, costituendo l’ “unica isola non
islamizzata nel vasto mare musulmano che va dalla Turchia all’India”,
consente di osservare una forma di vita associata anteriore alla “diffusione
delle grandi religioni”: “il politeismo greco o germanico, la religiosità
celtica o quella vedica”. Insomma: conoscere la cultura Kalasha significa
sapere come eravamo prima di imboccare la via delle “società urbanocentriche a
cui noi stessi apparteniamo”. Oggi questa conoscenza, a partire dal “ciclo
festivo invernale, incentrato sulle celebrazioni solstiziali” (il Chaumos), è
accessibile anche a noi profani grazie al volume di Augusto S. Cacopardo Natale
pagano. Feste d’inverno nello Hindu Kush (Sellerio, Palermo 2010): volume che,
secondo il titolo ossimorico, aiuta anche “a comprendere meglio dove affondano
le radici pre-cristiane delle nostre ‘feste di dicembre’ ” che, com’è ormai
assodato dagli antropologi, si sono “sovrapposte a cicli festivi pagani -
celtici, germanici, slavi, italici – che celebravano il solstizio d’inverno”.
Un “tema tipico delle feste invernali” – osserva l’autore a proposito del culto
del “corvo bianco, intermediario che intercede a favore degli uomini presso il
Dio supremo” – è “l’arrivo da un altro mondo di un essere benevolo che
soddisfa tutti i desideri”.
[…].
Le assonanze con il natale
cristiano non si fermano qui: infatti, mentre nelle feste di primavera (quando
in Occidente si festeggia la pasqua, l’ascesa di Gesù al regno del Padre) si
celebra l’ascesa degli umani verso l’alto, verso i monti (“fino a entrare nel
mondo degli spiriti”), “l’inverso avviene nella sequenza invernale”: “il divino
discende sulla terra e si mescola agli uomini”. E - si badi all’analogia – “non
sono gli spiriti s’uci a discendere fra gli uomini, ma un dio che porta pace
e fecondità” (il termine con cui ci si riferisce a questa festa andrebbe
tradotto letteralmente “arriva il dio”:“un dio che rimane però senza nome”).
L’analogia sembra
riguardare, in maniera impressionante, i dettagli. Intanto bisogna macinare il
grano nei giorni precedenti: “il lavoro, simbolo della vita quotidiana, deve
essere sospeso nel tempo straordinario della festa”. Poi, con la farina già
pronta, si può passare a preparare il cibo: “spesse focacce di farina
farcite di noci pestate” (i nostri buccellati ?). La pianta augurale più
sacra è il “vischio”, “pianta sempreverde che fa il suo frutto – le
piccole bacche translucide – nel periodo più buio e freddo dell’anno”. Nel
corso di una festività di poco successiva (il 6 gennaio), Cacopardo
partecipa a un rito domestico: “I due pani dopo un po’ vengono tagliati con un
coltello e i pezzi sono distribuiti ai presenti su dei vassoi di salice
intrecciato insieme a un bicchiere di vino. I pani non sono ben cotti, ma sono
buoni lo stesso e il vino ci si accompagna bene”.
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