Un secondo criterio, lo
chiamerei il criterio dei cinque giusti e si rifà alla trattativa sulla
distruzione di Sodoma e Gomorra. Vi ricorderete che Abramo tentava di non far
distruggere Sodoma e Gomorra sostenendo che tanti giusti sarebbero morti nella
catastrofe insieme ai malvagi. Allora comincia una lunga trattativa perché gli
angeli dicono: forniscici un elenco credibile dei giusti almeno cinque tirali
fuori, fuori i nomi perché altrimenti non ci crediamo. Penso che se noi non
vogliamo diventare prigionieri delle nostre illusioni, almeno una minima
verifica sui cinque giusti dovremmo farla; una verifica se anche altri
ritengono importanti le cose che a ognuno di noi sembrano importanti e mettersi
insieme con altri che le condividano, prima di andare a urlare in televisione.
Alexander Langer
Ciò che conduce l'uomo a
osare e a soffrire per edificare società libere dal bisogno e dalla paura è la
sua visione di un mondo fatto per un'umanità razionale e civilizzata. Non si
possono accantonare come obsoleti concetti quali verità, giustizia e
solidarietà, quando questi sono spesso gli unici baluardi che si ergono contro
la brutalità del potere.
Aung San Suu Kyi
Trattare una persona con
giustizia vuol dire prendere seriamente la sua concezione di sé stessa, i suoi
attaccamenti e predilezioni, la sua comprensione della sua situazione e di che
tipo di comportamento le è richiesto in quelle circostanze.
Peter Winch
La Storia di Qiu Ju ci pone
di fronte ad un dilemma. Qiu Ju ha ragione nel pretendere ostinatamente
giustizia, ma dov’è la linea che separa ciò che è legittimo da un accanimento
che arreca guai a tutte le parti in causa? Qiu Ju sa che la gente di città è
pronta ad ingannare una contadina ingenua e si fa furba, ma non furba
abbastanza da tenere bene a mente che l’obiettivo finale deve essere la
riconciliazione, perché nessuno di noi può farcela da solo.
Cos’è la giustizia? Nel
corso di una conversazione con Carlo Maria Martini, Gustavo Zagrebelsky ha
confessato “la nostra ignoranza teoretica sul contenuto della giustizia”
(Martini/Zagrebelsky, 2003). Martini però, pochi anni dopo, ha mostrato
maggiore confidenza, affermando che “la giustizia è l’attributo fondamentale di
Dio” (Martini/Sporschill 2008).
Martini è erede di
un’illustre tradizione teologica e filosofica di cui si rinvengono le prime
tracce in Pitagora, secondo il quale il principio di giustizia dev’essere il
fondamento di ogni attività umana, essendo la giustizia la relazione reciproca
e bilanciata tra eguali. Il neoplatonico siriano Giamblico (245-325 D.C.),
grande estimatore di Pitagora, riteneva che all’origine della giustizia ci
fosse il senso di comunione e uguaglianza di tutti, per cui a ciascuno diviene
facile considerare la stessa cosa come sua ed altrui (cf. Beni Comuni).
Sempre Giamblico, rifacendosi a Pitagora, poneva la giustizia tra le virtù
alte, quelle nate dallo sforzo della ragione verso ciò che la trascende. Le
virtù civiche erano invece “basse”, perché unicamente mirate a consentire la
convivenza, non la propria elevazione. Secondo Giamblico, Pitagora aveva
raccomandato ai Crotonesi di “essere in tutto uguali ai concittadini,
superarli unicamente quanto a giustizia” e di preferire l’ingiustizia
commessa ai propri danni rispetto all’uccidere un altro essere umano. Un
principio, quest’ultimo, che stava molto a cuore al Socrate del Critone:
“non si deve rendere a nessuno ingiustizia per ingiustizia, male per male,
qual ch’ella sia la ingiuria che abbia ricevuto”. Chi fa il male ad altri
ha probabilmente un’anima malata.
Dello stesso avviso era Democrito:
“Se subisci un'ingiustizia, consolati: la vera infelicità consiste nel
commetterla”.
Senofonte racconta di uno
scambio di battute tra Ermogene di Ipponico e Socrate: “Non dovresti pensare a
ciò che dirai in tua difesa?”. Socrate ribatte, con non poca presunzione ed in
completa contraddizione con lo spirito del suo filosofare: “Non ti sembra che
abbia passato tutta la vita a preparare questa difesa, vivendo senza
commettere ingiustizie?”. Vero è che Socrate ha effettivamente fatto tutto
quanto era nelle sue possibilità per evitare di commettere delle ingiustizie e
per mostrare agli altri come sia facile macchiarsi di un’ingiustizia senza
neppure rendersene conto.
Socrate è lo “scopritore”
dell’individuo autocosciente e dissenziente che, pensando con la sua testa, fa
in modo di non diventare uno strumento d’ingiustizia, piuttosto che
concentrarsi sulla difesa della tradizione, come l’Antigone di Sofocle, o sulla
vita ideale, come farà Aristotele. È questo il nucleo dell’idea dell’equivalente
dignità di tutti gli esseri umani. Socrate non saprebbe dire cosa sia la
giustizia, ma sa cos’è un’ingiustizia, sa cos’è la sofferenza. Per questo si
limita ad avvertire gli altri che arrecando danno agli altri nocciono prima di
tutto a se stessi. Il dialogo socratico esiste proprio per distruggere la falsa
conoscenza e la falsa coscienza, perché “una vita non meditata è indegna di
essere vissuta”, come spiega nell’Apologia. Socrate delinea un importante nesso
tra integrità morale, integrità intellettuale e giustizia. Cerca di essere
sempre disponibile al dialogo ed alla conversazione con la gente perché pensa
che ciò permette di fare del bene e concepisce l’integrità dell’intelletto come
un mezzo per ridurre l’ingiustizia nel mondo, non uno strumento per maltrattare
gli altri. Per raggiungere un livello ottimale di integrità è necessario
praticare l’autoesame, ossia dividersi tra osservatore ed osservato, soggetto
ed oggetto. Solo così ci si cura dall’egoismo, la radice dell’ingiustizia.
Nella tradizione cristiana
c’è la testimonianza di Matteo, che riferisce di un’esortazione di Gesù
– “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi
saranno date in aggiunta” (Matteo 6:33) – e di un suo l’ammonimento – “Poiché
io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei
farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Matteo 5, 20). Il mistico
renano Meister Eckhart elogia la giustizia e la bontà dell’anima che si è
interamente spogliata delle creature per trovare Dio nel proprio fondo. Sulla
stessa lunghezza d’onda è la scrittrice e filosofa cattolica anglo-irlandese
Iris Murdoch, che individua il punto di convergenza di giustizia e benevolenza
nel riconoscimento della piena esistenza e dei diritti dell’altro. Per i
cristiani la giustizia è una delle quattro virtù cardinali, assieme a saggezza,
fortezza e temperanza. Anche il teologo contemporaneo Vito Mancuso, in piena
concordanza con Martini, pone la giustizia al centro del suo pensiero. Solo la
giustizia salva e non è necessario essere cristiani per essere giusti. “Il
vero popolo di Dio, infatti, sono i giusti”, mentre i nemici del Cristo sono
chiamati, appropriatamente, “operatori di iniquità”.
Da dove scaturisce
quest’anelito di giustizia? Nella filosofia greca classica giustizia e senso
della misura erano inestricabilmente connessi. Archita elogiava la giusta
misura, che neutralizza “l’avido desiderio di avere sempre di più” (pleonexia).
Eraclito, Anassimandro, Esiodo, Solone convenivano sul fatto che il fondamento
della moralità umana sia la misura e la repressione dell’eccesso e che
mutualità e giustizia sono le virtù che producono l’uguaglianza. Giustizia come
simmetria, palintonos harmonie, l’armonia degli opposti eraclitea, il
virtuoso equilibrio delle forze, proporzionate nella tensione. Per le persone
che credono nella trascendenza, è una dimensione dell’anima e quindi di Dio, ed
è posseduta da tutti, in vario grado. Mencio accenna al fatto che la
giustizia, come le altre virtù, non è un dono del cielo, ma proviene da noi
stessi, è innata (Meng-tzu, cf. Tomassini, 1991):
Tutti gli uomini hanno il
sentimento della pietà e della vergogna (per i propri difetti) e della
repulsione (per i difetti altrui), della reverenza e del rispetto, del diritto
e del torto. Il sentimento della pietà e della commiserazione è la benevolenza,
il sentimento della vergogna e della repulsione è la giustizia, il sentimento
della reverenza e del rispetto è il rito, il sentimento del diritto e del torto
è la sapienza. La benevolenza, la giustizia, il rito, la sapienza non sono
infusi in noi dall'esterno: noi li possediamo sicuramente, (solo che) non ci
pensiamo. Perciò si dice: “cercali e li otterrai, trascurali e li perderai”. Gli uomini non
sanno esprimere tutte le loro capacità, chi il doppio di altri, chi il
quintuplo, chi innumerevoli volte.
Anche chi non è un
credente, come lo scrittore e filosofo francese Albert Camus, fa fatica
a spiegare in altro modo il fatto che alcune persone – certamente non i cinici
– possono trovare rivoltante la vista di un avversario che soffre
un’ingiustizia, un fenomeno in contrasto con la massimizzazione dell’utile
richiesta dal processo evolutivo. Il che, secondo lui, prova che il valore
della persona non risiede semplicemente nel suo essere un individuo, ma nella
capacità umana di trascendenza, nella solidarietà metafisica che ci
contraddistingue. Dunque la giustizia è un attributo dell’empatia, o
forse l’empatia è la precondizione della giustizia (Boella, 2006, p.
24):
L’empatia non si traduce
nel provare lo stesso dolore, la stessa gioia [...], non consiste nel “sapere”
cosa sente l’altro [...] non vuol dire gioire, soffrire insieme all’altra,
all'altro, e nemmeno avere un’esatta nozione delle ragioni e delle cause del
sentire altrui. Empatia vuol dire allargare la propria esperienza, renderla
capace di accogliere il dolore, la gioia altrui, mantenendo la distinzione tra
me e l’altro, l’altra. Empatia è “rendersi conto”.
Il concetto di giustizia –
sul quale gli utilitaristi non saranno mai in grado di mettersi d’accordo – esiste perché gli umani
sono capaci di provare indignazione, oltraggio e simpatia. L’afflizione,
l’empatia, il risentimento, la simpatia non solo non sono irrilevanti nelle
questioni riguardanti il giusto e lo sbagliato, sono anzi le precondizioni
necessarie per la creazione e la sopravvivenza stessa dell’idea di bene e di
male, giusto e sbagliato, di solidarietà, di sollecitudine per il prossimo, di
riconoscimento dell’uguale dignità dei cittadini. “La pace non è
assenza di guerra”, dice Baruch Spinoza, “è una virtù, uno stato
d'animo, una disposizione alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia”.
Torniamo alla domanda
iniziale: che cos’è la giustizia? La giustizia non è semplice imparzialità o
equità, presuppone uguaglianza nel rispetto, trascende le norme di legge: sei
un mio pari, ti tratterò di conseguenza. La giustizia è qui intesa non come
ideale, ma come una prospettiva sul mondo. Sono in una posizione di
privilegio rispetto alla tua, ma è un accidente, un caso del destino e quindi
un mio eventuale senso di superiorità sarebbe del tutto ingiustificato.
Si contrappone al classico: “non gli devo nulla, affari suoi. Posso dispiacermi
della sua situazione, ma non sono io a dovermene occupare, perché non ne sono
responsabile. Se la deve cavare da solo”. Non c’è giustizia se manca il
riconoscimento della comune umanità e il desiderio di riparare ad
un’ingiustizia occorsa ad un altro come se l’avessimo subita in prima persona. Il
mio prossimo (altoatesino, sudtirolese) differisce da me, ma riconosco il suo
completo diritto di esserlo, ossia che non c’è ragione valida per augurarsi che
sia una replica di me stesso.
È difficile convincere la
gente che abbiamo un obbligo di sollecitudine nei confronti degli altri esseri
umani, anche perché per molti è arduo immaginare le conseguenze a lungo
termine; ancora di più sono le persone fermamente convinte che, semmai, sono
loro a dover essere aiutate. C’è sempre qualcuno con maggiori disponibilità
che dovrebbe fare quello che noi crediamo di non poterci permettere di fare,
anche se basta davvero poco.
Se la politica altoatesina
è uno specchio della società, allora il tratto caratterizzante della realtà
locale è la visione tendenzialmente a corto raggio che prescrive la ricerca
di vantaggi quasi immediati. Domina la prospettiva del gioco a somma
zero, delle risorse finite: mors tua, vita mea.
Ma la giustizia è
inseparabile dalla fiducia, dalla compassione, dalla misericordia e dalla
riconciliazione. La riconciliazione necessita il perdono, ma pare che in
Alto Adige l’orgoglio di entrambe le parti politiche sia troppo caparbio.
Senza perdono, però, il male genera altro male, nulla può spezzare la catena,
si è prigionieri, incatenati al passato ed alle ripicche, alle lagnanze, alle
vendette e faide, che sono una catena per tutti. Si sente il peso
dell’obbligo di onorare i morti, usando i morti che, in quanto tali, non si
curano più delle cose terrene, come alibi per soddisfare i propri narcisismi,
capricci e bramosie. Non è una forma rituale di rispetto per gli
antenati, ma una mascherata che nasconde sentimenti ben più prosaici e volgari.
Chi non lo capisce si confinerà volontariamente all’interno di una spirale di
odio e violenza verbale e talvolta fisica che ammorberà la sua coscienza.
La giustizia rimedia ai
torti, ma è il perdono che riconcilia le parti (Bell, 2007). In
Alto Adige si è fatta giustizia con un sistema che impedisce di perdonare,
ossia di riconciliarsi, tenendo in vita una perpetua faida tra macro-clan, che
si protrae solo perché nessuno è in grado di fare il primo passo e chiedere
ufficialmente perdono. Al momento sembra che questo evento epocale non
si verificherà nel breve, perché la militanza di ciascuno impedisce di varcare
la soglia del proprio gruppo (“noi”) e dei suoi imperativi associativi. La faziosità,
il vittimismo martirologico e gli interessi privati inaridiscono il senso
di giustizia, rendono moralmente insensibili, disconnettono dal significato
ultimo di ciò che uno sta facendo, dalla consapevolezza delle ramificazioni
delle sue azioni, delle ripercussioni a lungo termine.
In Alto Adige, per via delle
contrapposizioni, si guarda ma è più difficile vedere, si ascolta, ma è più
difficile sentire e capire, perché si ha la presunzione di sapere già tutto
dell’altra parte e che in ogni caso i principi vanno anteposti alle interazioni
umane, ai nessi esistenziali. “Loro” sono meno umani di “noi”, o si comportano
come se lo fossero. Quando prevale questa mentalità, predomina l’accezione
trasimachea (o nietzscheana) di giustizia: l’interesse del più forte.
Il senso più autentico di
giustizia è invece, come detto, il comportarsi verso il prossimo come se
non sussistesse uno squilibrio di forze a mio vantaggio. Lo ignoro,
perché ritengo giusto essere equanime, perché mi sento meglio quando non
approfitto del prossimo, perché possiedo una coscienza (alcuni non ce l’hanno,
purtroppo), perché ritengo giusto rinunciare a qualche mio desiderio
per poter intensificare le mie relazioni con l’altro, affinché si arrivino
a definire gli interessi comuni e si collabori per sodidsfarli.
Tutto questo, in Alto
Adige, è reso più difficile dalla grave carenza di senso delle
proporzioni, dal dominio della narrazione epica, del paradigma dello scontro di
civiltà. In “Contro i Miti Etnici” (Fait/Fattor 2010) abbiamo spiegato che l’idolatria
non è il creare delle immagini di un qualcosa, ma il perdere di vista il fatto
che si tratta appunto di immagini e non della realtà, il confondere immagini e
realtà, il credere più alla nostra rappresentazione della realtà che al dato
empirico. Il perdono è un atto di emancipazione da questo tipo di idolatria, è
una disintossicazione.
Sfortunatamente,
molti altoatesini e sudtirolesi sono troppo inebriati per potersi rendere conto
di esserlo.
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