mercoledì 14 dicembre 2011

Giustizia e Riconciliazione (in Alto Adige e nel mondo)




Un secondo criterio, lo chiamerei il criterio dei cinque giusti e si rifà alla trattativa sulla distruzione di Sodoma e Gomorra. Vi ricorderete che Abramo tentava di non far distruggere Sodoma e Gomorra sostenendo che tanti giusti sarebbero morti nella catastrofe insieme ai malvagi. Allora comincia una lunga trattativa perché gli angeli dicono: forniscici un elenco credibile dei giusti almeno cinque tirali fuori, fuori i nomi perché altrimenti non ci crediamo. Penso che se noi non vogliamo diventare prigionieri delle nostre illusioni, almeno una minima verifica sui cinque giusti dovremmo farla; una verifica se anche altri ritengono importanti le cose che a ognuno di noi sembrano importanti e mettersi insieme con altri che le condividano, prima di andare a urlare in televisione.
Alexander Langer

Ciò che conduce l'uomo a osare e a soffrire per edificare società libere dal bisogno e dalla paura è la sua visione di un mondo fatto per un'umanità razionale e civilizzata. Non si possono accantonare come obsoleti concetti quali verità, giustizia e solidarietà, quando questi sono spesso gli unici baluardi che si ergono contro la brutalità del potere.
Aung San Suu Kyi

Trattare una persona con giustizia vuol dire prendere seriamente la sua concezione di sé stessa, i suoi attaccamenti e predilezioni, la sua comprensione della sua situazione e di che tipo di comportamento le è richiesto in quelle circostanze.
Peter Winch

La Storia di Qiu Ju ci pone di fronte ad un dilemma. Qiu Ju ha ragione nel pretendere ostinatamente giustizia, ma dov’è la linea che separa ciò che è legittimo da un accanimento che arreca guai a tutte le parti in causa? Qiu Ju sa che la gente di città è pronta ad ingannare una contadina ingenua e si fa furba, ma non furba abbastanza da tenere bene a mente che l’obiettivo finale deve essere la riconciliazione, perché nessuno di noi può farcela da solo.

Cos’è la giustizia? Nel corso di una conversazione con Carlo Maria Martini, Gustavo Zagrebelsky ha confessato “la nostra ignoranza teoretica sul contenuto della giustizia” (Martini/Zagrebelsky, 2003). Martini però, pochi anni dopo, ha mostrato maggiore confidenza, affermando che “la giustizia è l’attributo fondamentale di Dio” (Martini/Sporschill 2008).
Martini è erede di un’illustre tradizione teologica e filosofica di cui si rinvengono le prime tracce in Pitagora, secondo il quale il principio di giustizia dev’essere il fondamento di ogni attività umana, essendo la giustizia la relazione reciproca e bilanciata tra eguali. Il neoplatonico siriano Giamblico (245-325 D.C.), grande estimatore di Pitagora, riteneva che all’origine della giustizia ci fosse il senso di comunione e uguaglianza di tutti, per cui a ciascuno diviene facile considerare la stessa cosa come sua ed altrui (cf. Beni Comuni). Sempre Giamblico, rifacendosi a Pitagora, poneva la giustizia tra le virtù alte, quelle nate dallo sforzo della ragione verso ciò che la trascende. Le virtù civiche erano invece “basse”, perché unicamente mirate a consentire la convivenza, non la propria elevazione. Secondo Giamblico, Pitagora aveva raccomandato ai Crotonesi di “essere in tutto uguali ai concittadini, superarli unicamente quanto a giustizia” e di preferire l’ingiustizia commessa ai propri danni rispetto all’uccidere un altro essere umano. Un principio, quest’ultimo, che stava molto a cuore al Socrate del Critone: “non si deve rendere a nessuno ingiustizia per ingiustizia, male per male, qual ch’ella sia la ingiuria che abbia ricevuto”. Chi fa il male ad altri ha probabilmente un’anima malata.
Dello stesso avviso era Democrito: “Se subisci un'ingiustizia, consolati: la vera infelicità consiste nel commetterla”.
Senofonte racconta di uno scambio di battute tra Ermogene di Ipponico e Socrate: “Non dovresti pensare a ciò che dirai in tua difesa?”. Socrate ribatte, con non poca presunzione ed in completa contraddizione con lo spirito del suo filosofare: “Non ti sembra che abbia passato tutta la vita a preparare questa difesa, vivendo senza commettere ingiustizie?”. Vero è che Socrate ha effettivamente fatto tutto quanto era nelle sue possibilità per evitare di commettere delle ingiustizie e per mostrare agli altri come sia facile macchiarsi di un’ingiustizia senza neppure rendersene conto.
Socrate è lo “scopritore” dell’individuo autocosciente e dissenziente che, pensando con la sua testa, fa in modo di non diventare uno strumento d’ingiustizia, piuttosto che concentrarsi sulla difesa della tradizione, come l’Antigone di Sofocle, o sulla vita ideale, come farà Aristotele. È questo il nucleo dell’idea dell’equivalente dignità di tutti gli esseri umani. Socrate non saprebbe dire cosa sia la giustizia, ma sa cos’è un’ingiustizia, sa cos’è la sofferenza. Per questo si limita ad avvertire gli altri che arrecando danno agli altri nocciono prima di tutto a se stessi. Il dialogo socratico esiste proprio per distruggere la falsa conoscenza e la falsa coscienza, perché “una vita non meditata è indegna di essere vissuta”, come spiega nell’Apologia. Socrate delinea un importante nesso tra integrità morale, integrità intellettuale e giustizia. Cerca di essere sempre disponibile al dialogo ed alla conversazione con la gente perché pensa che ciò permette di fare del bene e concepisce l’integrità dell’intelletto come un mezzo per ridurre l’ingiustizia nel mondo, non uno strumento per maltrattare gli altri. Per raggiungere un livello ottimale di integrità è necessario praticare l’autoesame, ossia dividersi tra osservatore ed osservato, soggetto ed oggetto. Solo così ci si cura dall’egoismo, la radice dell’ingiustizia.
Nella tradizione cristiana c’è la testimonianza di Matteo, che riferisce di un’esortazione di Gesù – “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Matteo 6:33) – e di un suo l’ammonimento – “Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Matteo 5, 20). Il mistico renano Meister Eckhart elogia la giustizia e la bontà dell’anima che si è interamente spogliata delle creature per trovare Dio nel proprio fondo. Sulla stessa lunghezza d’onda è la scrittrice e filosofa cattolica anglo-irlandese Iris Murdoch, che individua il punto di convergenza di giustizia e benevolenza nel riconoscimento della piena esistenza e dei diritti dell’altro. Per i cristiani la giustizia è una delle quattro virtù cardinali, assieme a saggezza, fortezza e temperanza. Anche il teologo contemporaneo Vito Mancuso, in piena concordanza con Martini, pone la giustizia al centro del suo pensiero. Solo la giustizia salva e non è necessario essere cristiani per essere giusti. “Il vero popolo di Dio, infatti, sono i giusti”, mentre i nemici del Cristo sono chiamati, appropriatamente, “operatori di iniquità”.
Da dove scaturisce quest’anelito di giustizia? Nella filosofia greca classica giustizia e senso della misura erano inestricabilmente connessi. Archita elogiava la giusta misura, che neutralizza “l’avido desiderio di avere sempre di più” (pleonexia). Eraclito, Anassimandro, Esiodo, Solone convenivano sul fatto che il fondamento della moralità umana sia la misura e la repressione dell’eccesso e che mutualità e giustizia sono le virtù che producono l’uguaglianza. Giustizia come simmetria, palintonos harmonie, l’armonia degli opposti eraclitea, il virtuoso equilibrio delle forze, proporzionate nella tensione. Per le persone che credono nella trascendenza, è una dimensione dell’anima e quindi di Dio, ed è posseduta da tutti, in vario grado. Mencio accenna al fatto che la giustizia, come le altre virtù, non è un dono del cielo, ma proviene da noi stessi, è innata (Meng-tzu, cf. Tomassini, 1991):

Tutti gli uomini hanno il sentimento della pietà e della vergogna (per i propri difetti) e della repulsione (per i difetti altrui), della reverenza e del rispetto, del diritto e del torto. Il sentimento della pietà e della commiserazione è la benevolenza, il sentimento della vergogna e della repulsione è la giustizia, il sentimento della reverenza e del rispetto è il rito, il sentimento del diritto e del torto è la sapienza. La benevolenza, la giustizia, il rito, la sapienza non sono infusi in noi dall'esterno: noi li possediamo sicuramente, (solo che) non ci pensiamo. Perciò si dice: cercali e li otterrai, trascurali e li perderai”. Gli uomini non sanno esprimere tutte le loro capacità, chi il doppio di altri, chi il quintuplo, chi innumerevoli volte.

Anche chi non è un credente, come lo scrittore e filosofo francese Albert Camus, fa fatica a spiegare in altro modo il fatto che alcune persone – certamente non i cinici – possono trovare rivoltante la vista di un avversario che soffre un’ingiustizia, un fenomeno in contrasto con la massimizzazione dell’utile richiesta dal processo evolutivo. Il che, secondo lui, prova che il valore della persona non risiede semplicemente nel suo essere un individuo, ma nella capacità umana di trascendenza, nella solidarietà metafisica che ci contraddistingue. Dunque la giustizia è un attributo dell’empatia, o forse l’empatia è la precondizione della giustizia (Boella, 2006, p. 24):

L’empatia non si traduce nel provare lo stesso dolore, la stessa gioia [...], non consiste nel “sapere” cosa sente l’altro [...] non vuol dire gioire, soffrire insieme all’altra, all'altro, e nemmeno avere un’esatta nozione delle ragioni e delle cause del sentire altrui. Empatia vuol dire allargare la propria esperienza, renderla capace di accogliere il dolore, la gioia altrui, mantenendo la distinzione tra me e l’altro, l’altra. Empatia è “rendersi conto”. 

Il concetto di giustizia – sul quale gli utilitaristi non saranno mai in grado di mettersi d’accordo – esiste perché gli umani sono capaci di provare indignazione, oltraggio e simpatia. L’afflizione, l’empatia, il risentimento, la simpatia non solo non sono irrilevanti nelle questioni riguardanti il giusto e lo sbagliato, sono anzi le precondizioni necessarie per la creazione e la sopravvivenza stessa dell’idea di bene e di male, giusto e sbagliato, di solidarietà, di sollecitudine per il prossimo, di riconoscimento dell’uguale dignità dei cittadini. “La pace non è assenza di guerra”, dice Baruch Spinoza, “è una virtù, uno stato d'animo, una disposizione alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia”.

Torniamo alla domanda iniziale: che cos’è la giustizia? La giustizia non è semplice imparzialità o equità, presuppone uguaglianza nel rispetto, trascende le norme di legge: sei un mio pari, ti tratterò di conseguenza. La giustizia è qui intesa non come ideale, ma come una prospettiva sul mondo. Sono in una posizione di privilegio rispetto alla tua, ma è un accidente, un caso del destino e quindi un mio eventuale senso di superiorità sarebbe del tutto ingiustificato. Si contrappone al classico: “non gli devo nulla, affari suoi. Posso dispiacermi della sua situazione, ma non sono io a dovermene occupare, perché non ne sono responsabile. Se la deve cavare da solo”. Non c’è giustizia se manca il riconoscimento della comune umanità e il desiderio di riparare ad un’ingiustizia occorsa ad un altro come se l’avessimo subita in prima persona. Il mio prossimo (altoatesino, sudtirolese) differisce da me, ma riconosco il suo completo diritto di esserlo, ossia che non c’è ragione valida per augurarsi che sia una replica di me stesso.
È difficile convincere la gente che abbiamo un obbligo di sollecitudine nei confronti degli altri esseri umani, anche perché per molti è arduo immaginare le conseguenze a lungo termine; ancora di più sono le persone fermamente convinte che, semmai, sono loro a dover essere aiutate. C’è sempre qualcuno con maggiori disponibilità che dovrebbe fare quello che noi crediamo di non poterci permettere di fare, anche se basta davvero poco.
Se la politica altoatesina è uno specchio della società, allora il tratto caratterizzante della realtà locale è la visione tendenzialmente a corto raggio che prescrive la ricerca di vantaggi quasi immediati. Domina la prospettiva del gioco a somma zero, delle risorse finite: mors tua, vita mea.
Ma la giustizia è inseparabile dalla fiducia, dalla compassione, dalla misericordia e dalla riconciliazione. La riconciliazione necessita il perdono, ma pare che in Alto Adige l’orgoglio di entrambe le parti politiche sia troppo caparbio. Senza perdono, però, il male genera altro male, nulla può spezzare la catena, si è prigionieri, incatenati al passato ed alle ripicche, alle lagnanze, alle vendette e faide, che sono una catena per tutti. Si sente il peso dell’obbligo di onorare i morti, usando i morti che, in quanto tali, non si curano più delle cose terrene, come alibi per soddisfare i propri narcisismi, capricci e bramosie. Non è una forma rituale di rispetto per gli antenati, ma una mascherata che nasconde sentimenti ben più prosaici e volgari. Chi non lo capisce si confinerà volontariamente all’interno di una spirale di odio e violenza verbale e talvolta fisica che ammorberà la sua coscienza.
La giustizia rimedia ai torti, ma è il perdono che riconcilia le parti (Bell, 2007). In Alto Adige si è fatta giustizia con un sistema che impedisce di perdonare, ossia di riconciliarsi, tenendo in vita una perpetua faida tra macro-clan, che si protrae solo perché nessuno è in grado di fare il primo passo e chiedere ufficialmente perdono. Al momento sembra che questo evento epocale non si verificherà nel breve, perché la militanza di ciascuno impedisce di varcare la soglia del proprio gruppo (“noi”) e dei suoi imperativi associativi. La faziosità, il vittimismo martirologico e gli interessi privati inaridiscono il senso di giustizia, rendono moralmente insensibili, disconnettono dal significato ultimo di ciò che uno sta facendo, dalla consapevolezza delle ramificazioni delle sue azioni, delle ripercussioni a lungo termine.
In Alto Adige, per via delle contrapposizioni, si guarda ma è più difficile vedere, si ascolta, ma è più difficile sentire e capire, perché si ha la presunzione di sapere già tutto dell’altra parte e che in ogni caso i principi vanno anteposti alle interazioni umane, ai nessi esistenziali. “Loro” sono meno umani di “noi”, o si comportano come se lo fossero. Quando prevale questa mentalità, predomina l’accezione trasimachea (o nietzscheana) di giustizia: l’interesse del più forte.
Il senso più autentico di giustizia è invece, come detto, il comportarsi verso il prossimo come se non sussistesse uno squilibrio di forze a mio vantaggio. Lo ignoro, perché ritengo giusto essere equanime, perché mi sento meglio quando non approfitto del prossimo, perché possiedo una coscienza (alcuni non ce l’hanno, purtroppo), perché ritengo giusto rinunciare a qualche mio desiderio per poter intensificare le mie relazioni con l’altro, affinché si arrivino a definire gli interessi comuni e si collabori per sodidsfarli.
Tutto questo, in Alto Adige, è reso più difficile dalla grave carenza di senso delle proporzioni, dal dominio della narrazione epica, del paradigma dello scontro di civiltà. In “Contro i Miti Etnici” (Fait/Fattor 2010) abbiamo spiegato che l’idolatria non è il creare delle immagini di un qualcosa, ma il perdere di vista il fatto che si tratta appunto di immagini e non della realtà, il confondere immagini e realtà, il credere più alla nostra rappresentazione della realtà che al dato empirico. Il perdono è un atto di emancipazione da questo tipo di idolatria, è una disintossicazione.
Sfortunatamente, molti altoatesini e sudtirolesi sono troppo inebriati per potersi rendere conto di esserlo.

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